martedì 29 marzo 2011

paura di non morire

Questa è la storia di erik. La prima. Quella da cui nasce il mio amore per le storie degli altri.
Potete ascoltarla con la voce di Carla Vitantonio e le musiche di Valentina del Greco
http://lucelucilla.podomatic.com/entry/2011-03-28T14_41_20-07_00


PAURA DI NON MORIRE


Immaginatevi un biondino a tinte chiare sulla cinquantina, che forse, se Kurt Cobain avesse raggiunto quell’età, gli avrebbe assomigliato un po’. Nell’unica foto che ho di lui, fuma una canna enorme, accovacciato a terra, e la massa di capelli biondi gli nasconde il volto e l’età proprio come a una rockstar.

Immaginatevi un appassionato di politica, di giornalismo, e di storie. Allora perché nella sua casa di Copenhagen, non c'erano fotografie? Disegni, soprammobili assurdi, buffi e geniali feticci costruiti con materiale di scarto ma... niente foto.

Negli anni seguenti il nostro pellegrinaggio a Copenhagen, io la coppia di amici che l’avevamo intrapreso parlammo spesso del contenuto variopinto di quella casa, cui eravamo approdati dopo un viaggio che, dentro alla storia che voglio raccontare, sa di parentesi felliniana -treno verso l'aeroporto di Malpensa, volo low cost per Amburgo, trenini locali notturni fino all'ultima città a nord della Germania, taxista taciturno fino al porto marittimo, attesa nella sala d’aspetto posizionata alla base di un faro, traghetto fino alla sponda danese-Copenhagen.

Tutto perchè Tina, una cara amica di Erik, ci aveva scritto che la sua malattia si era aggravata improvvisamente e che lui non sapeva se e quando avrebbe risposto alle nostre lettere. Prendemmo in parola un ordine che nella mail, in realtà, non compariva: quello di andare a addio a un uomo che era stato il nostro mito nell'ultimo anno - un anno di vita di quelli in cui succede tutto, dopo che per un po' non è successo granché. Un anno in cui un mito è un vero compagno di strada, e non è pensabile che sparisca senza lasciare tracce, figuriamoci che muoia.

L'avevamo salutato dodici mesi prima davanti a una tazza cioccolata a San Cristobal de Las Casas, Chiapas, nella sede di Indymedia di cui Erik era il coordinatore, redattore, e despota assoluto. Ma com'è che un danese si trasforma nell'incontro più memorabile di una lunga permanenza nel Chiapas zapatista?Andate in America Latina, ad imparare che l’unica spiegazione definitiva è quasi sempre il paradosso: prendere o lasciare.

Quando Tina ci scrisse, era la stagione in cui ci si sdraiava sui binari per fermare i treni carichi di armi in partenza per l'Iraq. In cui si alternavano le ore di studio a quelle di lavoro per formare un gruzzoletto e poter ripartire per l'America Latina. L'america latina: l'orizzonte per eccellenza. Uno dei pochi che, oltre a spronarci a camminare in qualche direzione purchè fosse, era anche misteriosamente raggiungibile. A portata di sogno e di mano.

Ed Erik per noi era, altrettanto misteriosamente, l'America Latina in persona. Viveva in Chiapas da anni, conosceva il Centramerica come le sue tasche, parlava spagnolo meglio di noi, e aveva una storia incredibile da raccontare per ogni paese che accidentalmente nominavamo.

Prima del Messico, ad esempio, era stato per diverso tempo in Perù, da cui aveva coperto per un giornale danese il sequestro di un centinaio di ostaggi nell'ambasciata giapponese da parte dei Tupac Amaru nel 1996. Dopo l’irruzione delle teste di cuoio ed il massacro di tutti i guerriglieri, Erik era tornato in Danimarca con le viscere contorte e pagine di appunti e rabbia che gli svolazzano dentro agli occhi.

Ma dopo il fiume di sangue dei guerriglieri, un'altra pozzanghera vermiglia lo aspettava. L'amico cui lasciava la casa quando era lontano si era sparato in faccia due giorni prima del suo ritorno. Nella sua cucina. Era troppo tardi per il funerale, ma nessuno aveva ancora lavato via il sangue dal pavimento. Inginocchiato a terra accanto a un secchio, spugna in mano, Erik si disse che quello era il suo modo di seppellirlo, e non si concesse di versare una sola lacrima. Di fronte ai suicidi non è necessario proclamarsi atei, diceva. Laicità e silenzio sono più che sufficienti.

Ma i guai non erano finiti. La mattina che seguì a quella notte di sangue su sangue, il direttore del giornale lo chiamò. Aveva una voce strana. La polizia peruviana aveva appena spiccato un mandato d'arresto internazionale contro Erik, sostenendo che l'appartamento affittato a suo nome proprio davanti all'ambasciata giapponese a Lima era servito ai Tupac Amaru per preparare l'attacco e poi per controllare le mosse di esercito e polizia. Tutto una montatura? Arrivato a questo punto dei suoi racconti, Erik scrollava le spalle e sorrideva, misterioso. E partiva con l’episodio di quando era andato a intervistare un leader della guerriglia in un carcere peruviano con cinque pagine di comunicazioni dei suoi compagni infilate nel culo per consegnargliele alla prima distrazione della guardia.

Per sua fortuna, la Danimarca non concesse l'estradizione, ma in Perù e in diversi paesi latini, ovviamente, non avrebbe potuto mai più mettere piede. Fra questi non c’era il Messico, e ci arrivò poco prima del massacro di Acteal in Chiapas, nel 1997, dopo il quale decise che avrebbe dedicato la sua vita (...il che alla fine quasi sempre vuole dire: una parte significativa di essa) alla causa zapatista. Ancora una volta, il destino ci si mise di mezzo: mentre viveva con due militanti americane, amandone una di traverso sull’amaca, un curandero lo guardò negli occhi e gli diagnosticò la morte nel fegato. Un brutto cancro da cui Erik, guardando a sua volta negli occhi i medici danesi che aggrottavano le sopracciglia, decise di non provare nemmeno a curarsi.

Il perché ce lo spiegò una delle ultime sere che passammo insieme a San Cristobal, davanti alla cioccolata calda che si preparava ogni volta che pioveva, quando guardando dalla finestra lui si ripeteva che sarebbe morto piuttosto che trascorrere un solo altro inverno in Danimarca, dove i medici sono capaci di estrarre la vita dalla morte ma dove lui non riusciva a estrarre una causa degna da una vita come la sua.




Non morì quella volta che noi arrivammo a Copenhagen dopo il nostro viaggio iniziatico e rocambolesco. Nè nei mesi successivi. Continuò a lavorare. E a vomitare. E a rinunciare a curarsi. E a diventare una persona sempre più difficile con cui avere a che fare- oppure, semplicemente, noi lo conoscevamo sempre meglio e il suo abisso si apriva, un po' alla volta, anche sotto ai nostri piedi.

Due anni dopo venne in Italia grazie a un ambizioso progetto della radio pubblica danese, che si era proposta di intervistare i reduci ancora vivi della guerra di Spagna, gli ex brigatisti internazionali, settant’anni dopo. Io gli avevo procurato un’intervista col comandante Giovanni Pesce, membro della brigata Garibaldi in Spagna e poi partigiano nei Gap milanesi nella resistenza italiana.

Dopo l'intervista, Erik si fermò da me una settimana. Era ottobre, io partivo di lì a poco per l'Argentina, così in quella settimana non dovevamo fare altro che montare l'intervista, guardare film in spagnolo e chiacchierare di tutto e del resto. Parlava soprattutto lui, a dire il vero, perché a me sembrava sprecata ogni parola che non aggiungesse un tassello alla sua storia. Forse è stato lui, penso adesso: il mio primo grande amore per le storie degli altri.

Erik era nato una cinquantina d'anni prima a Copenhagen. Era scappato di casa presto a causa del turbolento rapporto col padre, dopo di che era vissuto in strada accendendo fiamme sotto ai cucchiai più ossidati degli anni ’80, finché qualcuno gli aveva offerto di disintossicarsi e andare a lavorare come volontario da qualche parte in Africa. Erik aveva accettato, mosso dall’unica emozione che l’ebbe vinta su di lui, sempre, per una vita intera: la curiosità.

In Africa qualcuno si era accorto che oltre che a inchiodare assi forse il biondino sarebbe stato buono a scrivere i resoconti della missione, da rispedire in Danimarca. Lui accettò controvoglia, ma le annoiate cronache del lavoro dei missionari si trasformarono presto in un appassionato resoconto della situazione di un paese e della storia di un popolo.

Fu così che Erik divenne un giornalista.


Lavorò per un po' per un giornale danese, forte del suo talento, finché un amico tedesco non lo convinse a fare un viaggio in Portogallo, dove conosceva una comunità di fricchettoni che viveva ritirata sulle montagne. In quel periodo, Erik si trascinava in una storia d'amore con più tira e molla che pace, e l'idea gli sembrò un'adeguata exit strategy (“una fuga bella e buona, lo so”ammetteva, col suo accento spezzettato e nordico). Piantò in asso il lavoro al giornale e partì.

La vita nella comunità di tedeschi si rivelò piacevole più del previsto. Coltivava ortaggi e marijuana, si prendeva cura delle pecore. Si affezionò a una pecora già anziana e, quando questa stava per morire, lui le diede da mangiare funghetti allucinogeni: raccontò poi di non aver mai visto uno sguardo così beato come l'ultimo negli occhi di quella pecora, che poi stramazzò al suolo a gambe larghe come nei fumetti.

Mentre ancora elaborava il lutto della pecora si innamorò di una cantante portoghese finita un po' per caso e un po' per stanchezza in quella comunità di tedeschi nelle montagne del suo paese. La conquistò sgominando i topi che li tormentavano: ne catturò uno e lo inchiodò, vivo, alla porta di casa.

Lei non parlava danese e lui non parlava portoghese, così si dicevano il minimo indispensabile in un tedesco improvvisato. Ecco perchè sarebbe potuta durare per sempre, avrebbe riso decenni più tardi Erik. Solo che...solo che un giorno lei cercò e trovò un modo internazionale per dirgli che era incinta.

D'accordo, disse lui. Allora devo andare in Danimarca a mettere le mie cose in soffitta. Lei non capì la parola soffitta ma sorrise.

Quando Erik bussò alla porta di sua madre scoprì che nel frattempo suo padre era morto. Non gli importò: lo aveva sempre odiato. Non sono di quelli che si mettono gratis a rimpiangere i morti, si disse, una merda era e una merda rimane. Ma doveva fermarsi un po' per occuparsi di sua madre. Almeno aiutarla con la burocrazia che lo riguardava. E questo era un guaio. Avrebbe voluto rimanere in Danimarca il meno possibile, perché quando se n'era andato, l'aveva fatto senza dire addio a una persona, e i grandi fantasmi o si guardano in faccia tutti i giorni o è meglio non vederli mai più. Bussò a quella porta senza sapere cosa avrebbe detto.

La mattina dopo, svegliandosi accanto al fantasma, Erik trovò la forza di dirle che sarebbe presto diventato padre per via di una portoghese. E a sé stesso, scappando via, promise che non l’avrebbe mai più vista. Si fermò a bere un caffè in un bar, scottandosi la lingua pur di non pensare a come sarebbe stata la sua vita sotto a quelle coperte.

Accelerò i tempi di ritorno in Portogallo e riuscì a sedersi su un aereo tre settimane dopo. Ma, sbarcato a Lisbona, commise un errore tipico di chi, nonostante apparenze robuste, brancola nel buio: pensò che era il momento di dire, finalmente, addio al fantasma. Meglio al telefono che niente. Ormai, tanto, un continente intero li separava. Entrò in una cabina e fece il numero. La prima volta si scordò di aggiungere il prefisso danese. La seconda trovò occupato. La terza è l'ultima, si disse.

La terza volta lei gli rispose e colse l’occasione per annunciargli che era incinta di lui.

La mattina dopo, svegliandosi accanto alla portoghese, Erik trovò il coraggio di raccontarle tutto, o forse ebbe troppa paura di mantenere questo segreto tutta la vita. Implorò il suo perdono con l'aiuto di un interprete tedesco, e l'interprete dovette dare il suo meglio, o piuttosto sbagliò qualche sinonimo, perchè alla fine la portoghese lo perdonò davvero; anzi, spinta da un'inconcepibile solidarietà femminile - o da una suprema volontà d'ordine- lo convinse persino a tornare in Danimarca a “sistemare la cosa' ”.

Ed Erik non trovò il coraggio di risponderle che non ne aveva il coraggio.

Salì la scala dell'aeroplano come si sale al patibolo. Il fantasma andò a prenderlo all'aeroporto di Copenhagen e, mentre lo abbracciava, gli sussurrò una sola parola all'orecchio: “Proviamoci”. Lui scoppiò a piangere. Piangeva ancora quando per telefono disse alla portoghese che forse il fantasma era davvero l'amore della sua vita.

In realtà, sappiamo noi spettatori, il fantasma era solo un fantasma. All’ottavo mese di gravidanza, i due erano già ai calci, ai pugni e ai piatti fracassati contro le pareti.

Erik ripartì per il Portogallo. Non aveva la minima speranza di tornare con la cantante, voleva solo conoscere suo figlio o sua figlia, il bebè che doveva essere nato qualche settimana prima. Quando arrivò ai piedi della collina su cui aveva vissuto, uno dei suoi vecchi amici tedeschi lo vide e, senza dire una parola, raccolse un bastone da terra. “E' maschio o femmina?” chiese Erik. L'amico sollevò il bastone, minaccioso. Poi capì dal suo sguardo spento che Erik se ne sarebbe andato senza fare tante storie. “Maschio”.

Erik tornò sui suoi passi giù per la montagna, cercando di non chiedersi come sarebbe stata la sua vita su e giù per quel pendio portoghese. All'aeroporto di Lisbona entrò in una cabina, diversa da quella di otto mesi prima, per telefonare al suo vecchio direttore di giornale e dirgli che partiva.

Figlio di puttana, dove sei finito? Dove vai?

Dimmelo tu. Di sicuro vi serve un corrispondente da qualche parte nel mondo.

Ti dirò, rispose il capo, pare che il Perù sia in ebollizione.




Questa parte me le raccontò nella cucina di casa mia, in via Togliatti 18, nella prima periferia della città con la toponomastica più comunista d’Europa. Se ne stava appoggiato alle piastrelle bianche tappezzate di biglietti di buongiorni e buonenotti che ci scambiavamo noi inquiline. Che avrei dovuto fare? Concludeva. Che avrei dovuto fare di quei due amori e delle loro pance esorbitanti? E poi, per salvarsi, aggiungeva: è andata meglio così. Entrambe hanno trovato mariti migliori di quello che sarei stato io. Non parliamo poi del padre che si sono scampati quei due bambini. Anzi, quella bambina danese e quel bambino portoghese. Non li ho mai visti neanche in foto, nè loro me. Credo. Di loro so solo che non mangiano il miele, perchè io lo odio così tanto che i miei geni non accetterebbero compromessi.

E poi il suo fegato se lo portava a vomitare.

Quando se ne andò da casa mia eravamo molto amici. Pensavo lo avrei accompagnato, da amica distante e vicina, verso la morte.

Invece poche settimane dopo, quando mi trovavo già in Argentina, colse un'occasione stupida per litigare con me e non rispose più a nessuna email. Con i miei amici del mitico viaggio a Copenhagen fece lo stesso nel giro di poco tempo.

Grattandosi via con rabbia la polvere dorata di cui lo avevamo cosparso, Erik volle liberarsi di noi. Lo fece sempre in maniere orribili per essere sicuro che non si potessero mettere pezze; lo fece con noi e probabilmente con tutti gli altri, come se stesse ostinatamente cercando di andare da solo incontro alla fine. Forse pensava che se nessuno avesse saputo della sua morte nel momento in cui fosse arrivata, l'umiliazione sarebbe stata un po’ più digeribile.

Ma il destino si è preso gioco di lui. Ancora una volta. La malattia si è ritirata dalle sue tasche, oppure si è fermata a vivacchiare sul loro fondo scucito, come fanno le briciole. Lo so perchè, facendo ricerche su internet, ho scoperto che oggi, sei anni dopo, è ancora vivo, e ancora celebra la guerra di Spagna cronacando il turismo politico di nostalgici danesi.

Non ho voglia di scrivergli per chiedergli se nel frattempo è diventato un santo. Se come tanti ha approfittato della guarigione per votarsi a una religione religiosamente evitata per tutta la vita. O se la terra intorno a lui è ancora bruciata e, seduto al centro, lui si gode l'odore delle fotografie consumate, sciolte dal calore.

Della sua storia mi rimangono una domanda ed un monito: la domanda è se uno dei suoi figli sia riuscito a trovarlo quando era malato, mandando a monte il suo piano. Il monito lo tengo per me: forse ne parlerei solo con lui, il primo complice della mia passione per le storie degli altri, se un giorno, pentito o solo incuriosito, tornasse a cercarci. Lo farà?

Non lo so. Solo i presuntuosi pretendono di sapere dove si trova la parola fine di una storia. Infondo, finché le persone non muoiono, sono vive.

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