lunedì 22 marzo 2010

Rio de janeiro senza favelas


Rumori di una favela di Rio de Janeiro. Le pedine del domino che vengono schiaffate sul tavolo da due anziani. Un altoparlante appeso all’angolo di un vicolo che trasmette le minacce apocalattiche di un predicatore evangelico. Lo sferragliare del Bondie, la funicolare che si arrampica sulla collina, il morro, per portare a casa anche gli abitanti delle case più in alto, più inaccessibili e più povere- ma quelle con la vista migliore sulla baia.
Dona Marta è una delle più storiche favelas della città. Popola dalla prima metà del secolo scorso un morro all’interno di Botafogo, uno dei quartieri chic di Rio, e che insieme a Copacabana, Ipanema e Leblon forma la cosiddetta zona sud, quella abitata dalla classe media e ricca carioca. “Vivo da cinquant’anni nella zona migliore di Rio” si vanta Elisvaldo, un carpentiere che all’ora del tramonto si avvia verso casa per la stretta salita che taglia Dona Marta. Ben diversa la condizione dei suoi colleghi favelados che abitano la zona nord, uno sterminato complesso di favelas lontano dal cuore ricco della city, dai suoi trasporti e servizi che funzionano, dalle sue innumerevoli opportunità di lavoro.
Ma si può scommettere che nel giro di qualche anno Elisvaldo e tanti altri abitanti di Dona Marta andranno ad ingrossare le fila della desolata Zona Nord. Probabilmente entro il biennio d’oro 2014 – 2016, quando Rio ospiterà prima i mondiali di calcio in Brasile e poi –nientemeno- le olimpiadi. Prima di questi due avvenimenti la città che splende e che conta deve liberarsi dalle sua favelas troppo in vista e dalla reputazione che le circonda: narcotraffico e sparatorie. Come riuscirci?
Le incursioni di guerra del Bope, il battaglione reso famoso dal film Tropa de Elite, lasciavano sull’asfalto cadaveri più o meno coinvolti col narcotraffico, che comunque trova un bacino potenzialmente infinito in questi luoghi dimenticati dall’arricchimento del paese. E con l’affermazione di Rio come città ospite delle Olimpiadi 2016, si è capito definitivamente che non c’era il tempo di prendere il narcotraffico con le cattive. E agli interventi del Bope sono subentrati quelli della “Policia Pacificadora”, un corpo che entra nelle favelas e le occupa fino alla completa ‘scomparsa dei bandidos’. Stavolta, stranamente, senza resistenza opposta dai miliziani, senza spargimenti di sangue. E stranamente, in ben otto casi su dieci, in favelas della Zona sud
-Non è la prima volta che il governo fa un accordo di “pace armata” con una delle fazioni coinvolte nello spaccio di droga- spiega l’avvocato Joao Tancredo, presidente della Commissione Diritti Umani dell’ordine dei giurisi carioca. “Ci aveva già provato il presidente Alencar all’inizio degli anni ’90, con il divieto alla polizia di entrare nelle favelas di notte. E basta avere qualche coordinata di Rio per notare che tutte le zone in cui ora c’è la Policia Pacificadora erano, sono, quelle sotto il controllo del Comando Vermelho”. Che, secondo l’avvocato, avrebbe accettato di diminuire l’uso e la distribuzione di armi a patto che gli venga garantita la gestione dello spaccio, a sua volta in vista degli affari d’oro che si profilano nei prossimi anni. “La presenza della Policia Pacificadora, più che altro, diventa una garanzia del fatto che una fazione rivale non cerchi di entrare nella favela”.
Questo corpo di polizia, copiato da una strategia adottata qualche anno fa a Bogotà- e che aveva visto sì diminuire la criminalità, ma solo sul breve periodo - non è l’unica novità per gli abitanti delle favela della zona sud , che contano centinaia di migliaia di abitanti: a preparare l’esodo degli attuali abitanti partecipano anche la regolarizzazione fondiaria delle favelas e dei servizi di base, in particolare luce e acqua: progetto pilota la stessa Dona Marta, la prima a ricevere la Policia.
Il riconoscimento di ogni abitante come proprietario regolare di una casa- e quindi soprattutto di un pezzetto di terreno – è stata giustamente salutata con favore dei favelados. Ma non è che il primo passo di un’enorme speculazione immobiliare che, lungimirante, punta a mettere le mani sui morros meglio localizzati e chegodono delle viste migliori della città.
Rio de Janeiro è una città che non può più espandersi, stretta com’è tra la foresta della Tijuca e la Baia di Guanabara. Specialmente la sua zona più ambita, quella delle spiagge meridionali che guardano le acrobazie dei surfisti e l’alba sul famoso Pao deAzucar, non hanno più un metro edificabile. Ecco perché la pressione sulle favelas, aumentata esponenzialmente negli ultimi mesi: riconoscere un titolo fondiario agli abitanti significa mettere quei terreni e quelle case sul mercato. Comprandole, gli speculatori potranno poi costruirvi mansioni da rivendere a cinquanta volte tanto. “Per la prima volta, quest’anno degli stranieri hanno comprato una casa nella parte bassa di Dona Marta. Per ora la usano solo durante il Carnevale”, aggiunge Elisvaldo.
Ma come convincere in massa gli antichi abitanti a cederle?
“Semplice: con la regolarizzazione di acqua, gas, luce elettrica”spiega Cecilia di Justiça Global, una ONG che si occupa di distribuzione delle risorse. A ruota della Policia Pacificadora, infatti, entra la LIGHT, una concessionaria di servizi elettrici che impianta un nuovo sistema di erogazione dove prima quasi tutti erano allacciati abusivamente: quasi impossibile per un favelado sostenere i costi di una bolletta ai prezzi della zona sud della cidade maravilhosa. “Ho dovuto già licenziare due dipendenti, presto immagino che dovrò chiudere” spiega Marcelo Martins, il panettiere di Dona Marta. “Ho aumentato di poco il prezzo del pane, ma non basta a equilibrare costi e benefici. E se aumento ancota il prezzo, la gente di qui non potrà più permetterselo”.
Aumentano elettricità, acqua e pane. Molte volte questi rincari attingono dalle tasche di disoccupati a cui contemporaneamente vengono offerte alcune decine di migliaia di euro per vendere la casa e andarsene altrove, presumibilmente nella zona nord della città. “Sono già in molti a pensare di andarsene” conferma Sebastiào, un’abitante della zona alta, la più povera della favela, e a cui è stata già staccata la luce per non aver pagato in tempo. Peggio ancora sarà quando entrerà in vigore il nuovo sistema dell’acqua, con un contatore prepagato che smette di erogare acqua se non lo si ricarica.
Dona Marta e le altre favelas della zona sud, grazie a regolarizzazione di case e servizi, diventeranno nei prossimi anni zone migliori. Ma non per le stesse persone.

giovedì 11 marzo 2010

curve pauliste


San Paolo non è una città per ex fumatori. Il grigio con cui è forgiata esenta i viziati di ogni ordine ed età che, appena possono, con un pacchetto in una mano e un accendino nell'altra, danno il loro piccolo personale contributo all'inquinamento della megalopoli, espirando voluttuose volute e infarcendo d'invidia non solo chiunque abbia acceso una sigaretta in vita sua, ma anche chi vi abbia mai anche solo fantasticato, succhiando il fondo delle matite da bambino.
Naturalmente San Paolo è molto più del suo grigiume. San Paolo è molto perchè è qualcosa di tutto. Viene il dubbio che ci siano più cose a San Paolo che in cielo e in terra. Ci si potrebbe sbizzarrire a farsi venire una voglia che non possa essere soddisfatta all'ombra di qualcuno dei suoi palazzi; se ne uscirebbe comunque rimborsati.

Jandira
E tutto sommato, complice la tentazione di accendersi una sigaretta alla faccia di tutto, non è così male camminarla, essere urtata dai suoi passanti, sentirsi comprata dai suoi negozi, chiederle per favore un po' di verde, trovarlo in qualche piazza improvvisamente tropicale; perdersi nel dedalo della sua metropolitana, consolarsi con un sacchettino di paes de quiejo in miniatura (otto per novantanove centesimi!) pronunciare a mezza voce i nomi, quasi tutti tronchi, delle sue stazioni. Non è male anche perchè è cosa saputa che poi da una delle maggiori, Barra Funda - molto meno inquietante del nome che si ritrova- si prende il treno per Jandira, un municipio da cui vive e lavora da vent'anni padre Giancarlo- un prete padovano che ha avuto la vita strettamente intrecciata non solo alle sorti del Brasile... ma anche a quelle di Reggio Emilia.
Di tutte le rivoluzioni a cui ha partecipato in vent'anni di periferia brasiliana e che mi racconta in ordine sparso, quella che vorrei qui raccontare è solo la più recente.

La Comuna Urbana
I venditori ambulanti che distribuivano per qualche spicciolo sigarette e caramelle sulla linea ferroviaria Barra Funda-Itapevì misero gli occhi su una porzione di terra libera da case, che separava la ferrovia dal torrente, nel municipio di Jandira. Si misero insieme e la occuparono, dandole un nome che non avrebbe portato troppo fortuna. Vila Esperança.
Arrivarono centinaia di nuovi occupanti in pochi mesi. La favela si arrampicava sulle sponde di un torrente di città, di quelli che a ogni pioggia si gonfiano e allagano tutte le baracche portandosi via le più fragili. Era un aspetto cui al momento dell'occupazione nessuno aveva pensato. Dopo la prima piena si ritrovarono tutti a dormire sul tetto della stazione dei treni, e così fu per anni, a ogni pioggia torrenziale di quelle che periodicamente funestano Sao Paolo. Perciò, ogni volta che sentiva la pioggia bussare alla finestra, Gianchi si metteva gli stivali di gomma e scendeva alla favela per andare a tirare fuori, letteralmente, la gente dall'acqua, e accogliere almeno anziani e bambini nel capannone che faceva allo stesso tempo da asilo, da chiesa e da assembleario della comunità. Finchè il sole non tornava a seccare il fango e a far riaffiorare le bambole, sulla testa delle quali si tornava a costruire un tetto per l'ennesima volta.
La vera calamità per Vila Esperança non fu la vicinanza del fiume,ma l'ingresso del narcotraffico e, con lui, di un autentico arsenale di guerra distribuito tra le due fazioni che presto si crearono per il controllo dello spaccio di droga. “Io abitavo nel mezzo, in una zona non controllata definitivamente dagli uni nè dagli altri” mi ha raccontato Mainha, che cresce sette nipoti nella sua baracca dopo aver cresciuto sette figli, dei quali alcuni sono morti complice alcool e il narcotraffico. “Abbiamo vissuto per anni schivando pallottole vaganti. Una volta sono tornata a casa dal mercato e ho trovato un bandito che, per scappare ai rivali o alla polizia, mi si era nascosto sotto al letto”. Erano tre o quattro la settimana i cadaveri che, buttati nel torrente, si incastravano nelle palafitte più in basso. Le due fazioni del narcotraffico, protagoniste di una carneficina senza quartiere, trovarono un accordo solo su due cose: pagare la dovuta propina alla polizia per stare alla larga, e proibire a Giancarlo di andare a tenere la messa nella favela e di predicare contro di loro, convincendo gli abitanti a lottare per il diritto a un pezzo di terra in condizioni migliori e libero dal narcotraffico.
Tutto sembrava destinato a restare così a tempo indeterminato: le piene del fiume. Le pallottole vaganti. La droga. La precarietà. Ma un nuovo personaggio era destinato a entrare nella storia.

Rejeanie
Rejeanie è una donna tra i trenta o i quarant'anni. Non è bellissima, eppure se un regista volesse girare un film sulla sua storia, dovrebbe scegliere per interpretarla qualcuna un po' all'Angelina Jolie. Mi viene incontro per raccontarmi 'la sua versione dei fatti' in un giorno di pioggia, al cantiere dove sorgerà la nuova Comuna Urbana. Capelli lunghi e fradici, braghe militari, camminata da uomo. Zigomi pronunciati, sorriso inaspettatamente fragile. Quattro figlie a carico. Un marito in galera. Alle spalle tredici anni da tenente del PCC, il Primero Comando da Capital, la mafia più potente di Sao Paulo. E un presente da militante dei Sem Terra e da leader comunitaria.
“Io non ero un abitante di Vila Esperança. Frequentavo la favela solo per organizzare il lavoro dei nostri spacciatori, anche se nessuna delle fazioni che si scannavano là dentro era affiliata al Comando. Non importava: nessuno avrebbe provato a metterci i bastoni tra le ruote.Fra un affare e l'altro, diventai amica di una donna della favela. E' inutile spiegare perchè e come due donne diventano amiche. Attraverso i suoi occhi vidi la violenza di ogni giorno, la paura, la peggiore delle torture. Così, convinsi i miei superiori a comprare la favela. Semplicemente, la comprammo alle due fazioni e le mandammo via. E io mi ci trasferii.
Fine delle pallottole vaganti. Il Comando aveva il controllo assoluto e, così, garantiva la sicurezza a tutti. Pian piano, la gente cominciò a chiedermi quello che desiderava, e una delle cose era il ritorno di questo padre Giancarlo. Andai a casa sua, gli dissi che ero del Comando, e che la gente voleva che tornasse a dire la messa. E che noi non avevamo niente in contrario. Lui si grattò la barba, cercando di capire se era una trappola. Alle fine disse: d'accordo, dì a tutti che domenica sarò lì. Non mancò nessuno”.
Gianchi naturalmente non si accontentò di tornare a celebrar messa. Bisognava guardare avanti, riallacciare la corrente della lotta per una vita libera dal narcotraffico. Si fece vivo con l'MST, il movimento dei sem terra che sentiva vicino da sempre e con cui collaborava già per altre comunità, e con loro iniziò la lotta di Vila Esperança per il diritto a una casa dignitosa. Elaborarono un progetto per farsi finanziare la costruzione di un nuovo quartiere alla periferia della città, nel quadro di un programma del governo Lula. Ma il regolamento per chi avesse voluto avanzare la richiesta era chiaro: niente spaccio e niente armi. Sarebbe stata, e sarà, la prima Comuna Urbana del Movimento dei Sem Terra.
La favela si ruppe. Da una parte chi seguiva il prete e l'MST, dall'altra chi dava a ragione a Rejeanie: “Io dicevo, niente cazzate. Non esistono favelas senza il narcotraffico. E' meglio stabilire da subito chi comanderà ed evitare stragi”. I due diventarono acerrimi avversari nella guerra per il futuro di Vila Esperança.
E poi, la vita di Rejeanie iniziò a cambiare. Così dice. O forse fu lei a cambiare, e la vita cambiò con lei.
Si accorse che ogni volta che metteva piede fuori dalla favela, doveva corrompere la polizia per fare qualche metro. Che questo succedeva regolarmente davanti agli occhi delle sue bambine, che stavano diventando ragazze. Che forse avrebbe partecipato ai funerali dei loro fidanzatini, ammazzati da qualche pallottola del narcotraffico o dal crack che lei faceva circolare. Poi, anche se lei era sempre riuscita a maneggiare droga senza usarla, non era sicura che loro avrebbero saputo fare lo stesso.
Si rese conto che forse molte famiglie sarebbero riuscite a entrare nel nuovo progetto, e la favela sarebbe scomparsa, e lei sarebbe finita semplicemente a fare la stessa cosa altrove, pedina di una gerarchia che, infondo, non le interessava scalare.
E poi c'erano i discorsi dei Sem Terra. Doveva remare contro di loro ma, ascoltandoli, una parte di lei cominciò ad allentare la resistenza a quella corrente, a quella esperança.
“Che bisogna fare per passare dalla sua parte?” chiese un giorno a Gianchi, col suo solito modo indifferente, da dura, sorprendendolo alla fine di una riunione. Come se fosse una donna tra le tante. Ma sapevano entrambi che un cambiamento di fronte della Rejeanie avrebbe rotto l'impasse.
Il giorno dopo affidò a un corriere il messaggio: fai sapere agli alti gradi del Comando che voglio uscire, costi quel che costi. In genere dentro al traffico si rimane fino a quando...fino a quando. Ma siccome era una donna e, a quanto pareva, qualcuno dall'interno la teneva in grande considerazione, non la condannarono a morte, bensì a pagare fino all'ultimo spicciolo che aveva. Per cui Rejeanie, la regina della favela, la Cleopatra di Vila Esperança, si ritrovò miserabile tra i poveri.
Però ha un lavoro, nella cooperativa che sta costruendo la nuova Comuna Urbana. Il suo lavoro consiste nel costruire la casa in cui, a partire da ottobre, abiterà con le sue figlie, al posto della baracca di plastica e lamiera di oggi. Lavora con ogni tempo e temperatura, tanto che la gente della favela l'ha eletta fra i coordinatori del progetto. E una volta che il quartiere sarà vivo e abitato, avrà un altro impiego, stavolta nella Panetteria Comunitaria. Non solo: “già per il prossimo carnevale le mie ragazze faranno sbavare i maschi sculettando nell' Unidos da Lona Preta”, la scuola di samba della favela.
“Cammino ogni giorno su un muro, indecisa su da che parte lasciarmi cadere” ammette, a modo suo tranquilla. “Non fingo di essere un'eroina del bene. Sapevo di avere davanti, in un modo o nell'altro, un sacrificio. Ho scelto questo. So anche che non passerò mai inosservata, e che per molti rimarrò sempre una tenente del Comando, perciò forse tanto varrebbe tornare a esserlo. Invece sono di nuovo al fronte, ma come Sem Terra”.
Il destino di certe persone è di essere davanti, sempre davanti. Nel bene e nel male.