lunedì 27 settembre 2010

C'era una volta a L'Avana

O forse era Santiago de Cuba, quando a diciott’anni scoprii che fra gli uomini una parte non piccola ha quel fondo viscido.Quando scoprii anche che ci sono luoghi interi da cui faresti sparire tutti, tranne i vecchi, e che se quei vecchi fossero eterni invecchieresti volentieri al cospetto loro e delle loro sigarette senza filtro- le Popular da fumare fino in fondo, ma così fino in fondo che l’ultimo centimetro si fumava tenendolo stretto tra due monetine da un peso per non bruciarsi le dita.
Nella casa particular dove abitavo c’era un manager svedese che viveva a Shangai da sette anni e mi spiegò la crisi economica apocalittica che sarebbe arrivata - si era appena nel 2002. Forse lui pensava che sarebbe arrivata ben prima e s’è giocato qualche anno gratis di ottimismo. D’altra parte ammetteva che nessuna relazione d’amore in vita sua gli era durata più di tre mesi ed io, anche se della vita non avevo proprio nessuna esperienza, pensavo già che infondo possono capitare cose peggiori di una grossa grassa crisi economica.
Proprio di fronte a noi abitava un ragazzo un po’ strabico con un jolly tatuato sull’interno del gomito che fumava canne su canne rollate con la carta dell’elenco telefonico. Ne riforniva mezza città pedalando su una bmx da bambino.
Diventai amica di una ragazza della mia età, che se la faceva con un notaio milanese nauseante e mi portava nelle rare baraccopoli a conoscere il suo vero fidanzato e ci facevamo risate che dopo un po’ mi preoccupavo di quanto stavo ridendo, e imparai a non giudicare chi baratta il proprio corpo con un televisore a colori, non perchè muoia dalla voglia di un televisore a colori, ma perchè muore dalla voglia di essere diverso dal vicino di casa.
Ernesto invece, fidanzato a distanza e a gettoni con una francese di cui a volte non ricordava il nome, mi portava alle feste reggae sui tetti dell’Avana Vieja, e di colpo c’era da chiedersi cosa stesse combinando il mondo fuori da Cuba per non precipitarsi lì su due piedi nudi. Quando tornavamo a casa albeggiava ma il Malecòn, il lungomare più bello del mondo, era ancora infestato di ragazzini che vendevano noccioline e i pensionati avevano già requisito dai giornalai tutte le copie del Granma, il giornale di partito, per rivenderle per la strada al doppio del prezzo e rimpinguare così la magra pensione.
E ogni mattina salivo su un taxi particular, una macchina anni ’50 che faceva un casino tale che non si riusciva a scambiare una parola con gli altri tre passeggeri, e dal Vedado arrivavo in centro e bussavo col sacchetto del pane fresco a casa di Tania, un’anziana maestra che mi rimboccava la grammatica spagnola raccontandomi di quando il Papa era sbarcato a Cuba, e che era rimasta innamorata tutta la vita di uno svizzero comunista che non era mai più tornato a prenderla, e che non aveva paura della morte perchè ne aveva già viste di tutti i colori, e chiamava tutti “mi vida”, anche quelli che le telefonavano perchè avevano sbagliato numero.
E proprio per questo, per farmi chiamare mi vida da sconosciute e sconosciuti, anzichè gli autobus per turisti io prendevo quelli per cubani, anche se a noi stranieri costavano poco meno degli altri e facevano schifo e i sedili erano duri come il 3 Via Kennedy-Quarnaro di quando andavo a scuola.
E conobbi anche una noia e una solitudine tremende, di quelle che non vedi l’ora che arrivino l’ora di pranzo e l’ora di cena, e che la cena si protragga il più possibile verso la notte,e che ci sia un posto vicino a casa per vedere la telenovela per passare mezz'ora, e che il sonno poi non tardi a chiudere la giornata.
E anche quei momenti li riassaporo con una tenerezza e una nostalgia infinite, perchè è così, proprio così, che è iniziato tutto.

martedì 7 settembre 2010

Alla frontiera

Al popolo più numeroso e perseguitato della storia:il popolo di quelli che si spostano.
A chi ha saltato il cenale in un modo elegante,e chi l'ha fatto nella maniera più imbranata.
Ai Ruandesi rifugiati in Congo, che non si decidono a tornare a casa perchè quando un ispettore chiede loro da dove vengono non se lo ricordano, e quando chiede loro dove vogliono andare, non se lo ricordano.
Ai Congolesi rifugiati in Congo, che non saprebbero proprio da che parte iniziare a raccontare.
A chi dice che la sua vita è una fuga, ma è pur sempre la sua vita.
A Joseph e Hassan che, dopo aver attraversato a piedi mezzo continente, si sono inventati di essere fratelli e cuciono vestiti da festa in una striminzita stanza di Maputo, senza lamentarsi neanche per sbaglio.
A Elizabeth, la kenyaya che varca una frontiera dopo l'altra, nella speranza che almeno una la renderà libera.
Alle contadine mozambicane che si sono distratte e troppi anni fa hanno lasciato partire i loro uomini per le miniere sudafricane; a quegli uomini, che picconando al muro scavano i ricordi di chi ha picconato prima di loro.
A quelli che sono partiti e a quelli che sono scappati, se qualcuno ha la stravaganza di voler fare due colonne separate.
A Juvenal, che ripara la sua bicicletta sotto al suo baobab, chiedendosi quando Diamantino si stancherà dei soldi dei Musungo e tornerà finalmente a sposare Lucilaide.
Alla sorella di Bukuku, che dopo averlo visto perdere tutte le rivoluzioni possibili, se n'è andata a fare la cassiera a Dubai, e quando finisce il turno va a quel galattico centro commerciale dove si vede la neve finta, che pero'non le piace mai, e delusa mette in una scatola una banconota al giorno per la prossima battaglia di Bukuku.
A quelli che hanno saltato sperando di trovare erba e sono atterrati sulla ghiaia, e da allora vivono sognando il ricordo della loro partenza, o ricordando il sogno che doveva essere il loro approdo. Finchè l'essere stranieri diventa “nè dolore nè fatica nè fastidio, ma semplicemente l'unico modo di essere da qualche parte”.
A quelli che sono venuti in Africa a cercare Moby Dick, e quando si sono rassegnati al fatto che non l'avrebbero mai trovata...hanno continuato a cercarla.
Ai gorilla che, dalla sommità del loro vulcano, osservano questi umani andirivieni e inventano complicate leggende per dargli un senso purchè sia.
All'innata, impareggiabile e struggente capacità degli esseri umani di trovare l'alba dentro all'imbrunire, e di sfruttare la lunga notte che viene dopo per seminare l'orto alla luce imperfetta della luna.