martedì 29 marzo 2011

paura di non morire

Questa è la storia di erik. La prima. Quella da cui nasce il mio amore per le storie degli altri.
Potete ascoltarla con la voce di Carla Vitantonio e le musiche di Valentina del Greco
http://lucelucilla.podomatic.com/entry/2011-03-28T14_41_20-07_00


PAURA DI NON MORIRE


Immaginatevi un biondino a tinte chiare sulla cinquantina, che forse, se Kurt Cobain avesse raggiunto quell’età, gli avrebbe assomigliato un po’. Nell’unica foto che ho di lui, fuma una canna enorme, accovacciato a terra, e la massa di capelli biondi gli nasconde il volto e l’età proprio come a una rockstar.

Immaginatevi un appassionato di politica, di giornalismo, e di storie. Allora perché nella sua casa di Copenhagen, non c'erano fotografie? Disegni, soprammobili assurdi, buffi e geniali feticci costruiti con materiale di scarto ma... niente foto.

Negli anni seguenti il nostro pellegrinaggio a Copenhagen, io la coppia di amici che l’avevamo intrapreso parlammo spesso del contenuto variopinto di quella casa, cui eravamo approdati dopo un viaggio che, dentro alla storia che voglio raccontare, sa di parentesi felliniana -treno verso l'aeroporto di Malpensa, volo low cost per Amburgo, trenini locali notturni fino all'ultima città a nord della Germania, taxista taciturno fino al porto marittimo, attesa nella sala d’aspetto posizionata alla base di un faro, traghetto fino alla sponda danese-Copenhagen.

Tutto perchè Tina, una cara amica di Erik, ci aveva scritto che la sua malattia si era aggravata improvvisamente e che lui non sapeva se e quando avrebbe risposto alle nostre lettere. Prendemmo in parola un ordine che nella mail, in realtà, non compariva: quello di andare a addio a un uomo che era stato il nostro mito nell'ultimo anno - un anno di vita di quelli in cui succede tutto, dopo che per un po' non è successo granché. Un anno in cui un mito è un vero compagno di strada, e non è pensabile che sparisca senza lasciare tracce, figuriamoci che muoia.

L'avevamo salutato dodici mesi prima davanti a una tazza cioccolata a San Cristobal de Las Casas, Chiapas, nella sede di Indymedia di cui Erik era il coordinatore, redattore, e despota assoluto. Ma com'è che un danese si trasforma nell'incontro più memorabile di una lunga permanenza nel Chiapas zapatista?Andate in America Latina, ad imparare che l’unica spiegazione definitiva è quasi sempre il paradosso: prendere o lasciare.

Quando Tina ci scrisse, era la stagione in cui ci si sdraiava sui binari per fermare i treni carichi di armi in partenza per l'Iraq. In cui si alternavano le ore di studio a quelle di lavoro per formare un gruzzoletto e poter ripartire per l'America Latina. L'america latina: l'orizzonte per eccellenza. Uno dei pochi che, oltre a spronarci a camminare in qualche direzione purchè fosse, era anche misteriosamente raggiungibile. A portata di sogno e di mano.

Ed Erik per noi era, altrettanto misteriosamente, l'America Latina in persona. Viveva in Chiapas da anni, conosceva il Centramerica come le sue tasche, parlava spagnolo meglio di noi, e aveva una storia incredibile da raccontare per ogni paese che accidentalmente nominavamo.

Prima del Messico, ad esempio, era stato per diverso tempo in Perù, da cui aveva coperto per un giornale danese il sequestro di un centinaio di ostaggi nell'ambasciata giapponese da parte dei Tupac Amaru nel 1996. Dopo l’irruzione delle teste di cuoio ed il massacro di tutti i guerriglieri, Erik era tornato in Danimarca con le viscere contorte e pagine di appunti e rabbia che gli svolazzano dentro agli occhi.

Ma dopo il fiume di sangue dei guerriglieri, un'altra pozzanghera vermiglia lo aspettava. L'amico cui lasciava la casa quando era lontano si era sparato in faccia due giorni prima del suo ritorno. Nella sua cucina. Era troppo tardi per il funerale, ma nessuno aveva ancora lavato via il sangue dal pavimento. Inginocchiato a terra accanto a un secchio, spugna in mano, Erik si disse che quello era il suo modo di seppellirlo, e non si concesse di versare una sola lacrima. Di fronte ai suicidi non è necessario proclamarsi atei, diceva. Laicità e silenzio sono più che sufficienti.

Ma i guai non erano finiti. La mattina che seguì a quella notte di sangue su sangue, il direttore del giornale lo chiamò. Aveva una voce strana. La polizia peruviana aveva appena spiccato un mandato d'arresto internazionale contro Erik, sostenendo che l'appartamento affittato a suo nome proprio davanti all'ambasciata giapponese a Lima era servito ai Tupac Amaru per preparare l'attacco e poi per controllare le mosse di esercito e polizia. Tutto una montatura? Arrivato a questo punto dei suoi racconti, Erik scrollava le spalle e sorrideva, misterioso. E partiva con l’episodio di quando era andato a intervistare un leader della guerriglia in un carcere peruviano con cinque pagine di comunicazioni dei suoi compagni infilate nel culo per consegnargliele alla prima distrazione della guardia.

Per sua fortuna, la Danimarca non concesse l'estradizione, ma in Perù e in diversi paesi latini, ovviamente, non avrebbe potuto mai più mettere piede. Fra questi non c’era il Messico, e ci arrivò poco prima del massacro di Acteal in Chiapas, nel 1997, dopo il quale decise che avrebbe dedicato la sua vita (...il che alla fine quasi sempre vuole dire: una parte significativa di essa) alla causa zapatista. Ancora una volta, il destino ci si mise di mezzo: mentre viveva con due militanti americane, amandone una di traverso sull’amaca, un curandero lo guardò negli occhi e gli diagnosticò la morte nel fegato. Un brutto cancro da cui Erik, guardando a sua volta negli occhi i medici danesi che aggrottavano le sopracciglia, decise di non provare nemmeno a curarsi.

Il perché ce lo spiegò una delle ultime sere che passammo insieme a San Cristobal, davanti alla cioccolata calda che si preparava ogni volta che pioveva, quando guardando dalla finestra lui si ripeteva che sarebbe morto piuttosto che trascorrere un solo altro inverno in Danimarca, dove i medici sono capaci di estrarre la vita dalla morte ma dove lui non riusciva a estrarre una causa degna da una vita come la sua.




Non morì quella volta che noi arrivammo a Copenhagen dopo il nostro viaggio iniziatico e rocambolesco. Nè nei mesi successivi. Continuò a lavorare. E a vomitare. E a rinunciare a curarsi. E a diventare una persona sempre più difficile con cui avere a che fare- oppure, semplicemente, noi lo conoscevamo sempre meglio e il suo abisso si apriva, un po' alla volta, anche sotto ai nostri piedi.

Due anni dopo venne in Italia grazie a un ambizioso progetto della radio pubblica danese, che si era proposta di intervistare i reduci ancora vivi della guerra di Spagna, gli ex brigatisti internazionali, settant’anni dopo. Io gli avevo procurato un’intervista col comandante Giovanni Pesce, membro della brigata Garibaldi in Spagna e poi partigiano nei Gap milanesi nella resistenza italiana.

Dopo l'intervista, Erik si fermò da me una settimana. Era ottobre, io partivo di lì a poco per l'Argentina, così in quella settimana non dovevamo fare altro che montare l'intervista, guardare film in spagnolo e chiacchierare di tutto e del resto. Parlava soprattutto lui, a dire il vero, perché a me sembrava sprecata ogni parola che non aggiungesse un tassello alla sua storia. Forse è stato lui, penso adesso: il mio primo grande amore per le storie degli altri.

Erik era nato una cinquantina d'anni prima a Copenhagen. Era scappato di casa presto a causa del turbolento rapporto col padre, dopo di che era vissuto in strada accendendo fiamme sotto ai cucchiai più ossidati degli anni ’80, finché qualcuno gli aveva offerto di disintossicarsi e andare a lavorare come volontario da qualche parte in Africa. Erik aveva accettato, mosso dall’unica emozione che l’ebbe vinta su di lui, sempre, per una vita intera: la curiosità.

In Africa qualcuno si era accorto che oltre che a inchiodare assi forse il biondino sarebbe stato buono a scrivere i resoconti della missione, da rispedire in Danimarca. Lui accettò controvoglia, ma le annoiate cronache del lavoro dei missionari si trasformarono presto in un appassionato resoconto della situazione di un paese e della storia di un popolo.

Fu così che Erik divenne un giornalista.


Lavorò per un po' per un giornale danese, forte del suo talento, finché un amico tedesco non lo convinse a fare un viaggio in Portogallo, dove conosceva una comunità di fricchettoni che viveva ritirata sulle montagne. In quel periodo, Erik si trascinava in una storia d'amore con più tira e molla che pace, e l'idea gli sembrò un'adeguata exit strategy (“una fuga bella e buona, lo so”ammetteva, col suo accento spezzettato e nordico). Piantò in asso il lavoro al giornale e partì.

La vita nella comunità di tedeschi si rivelò piacevole più del previsto. Coltivava ortaggi e marijuana, si prendeva cura delle pecore. Si affezionò a una pecora già anziana e, quando questa stava per morire, lui le diede da mangiare funghetti allucinogeni: raccontò poi di non aver mai visto uno sguardo così beato come l'ultimo negli occhi di quella pecora, che poi stramazzò al suolo a gambe larghe come nei fumetti.

Mentre ancora elaborava il lutto della pecora si innamorò di una cantante portoghese finita un po' per caso e un po' per stanchezza in quella comunità di tedeschi nelle montagne del suo paese. La conquistò sgominando i topi che li tormentavano: ne catturò uno e lo inchiodò, vivo, alla porta di casa.

Lei non parlava danese e lui non parlava portoghese, così si dicevano il minimo indispensabile in un tedesco improvvisato. Ecco perchè sarebbe potuta durare per sempre, avrebbe riso decenni più tardi Erik. Solo che...solo che un giorno lei cercò e trovò un modo internazionale per dirgli che era incinta.

D'accordo, disse lui. Allora devo andare in Danimarca a mettere le mie cose in soffitta. Lei non capì la parola soffitta ma sorrise.

Quando Erik bussò alla porta di sua madre scoprì che nel frattempo suo padre era morto. Non gli importò: lo aveva sempre odiato. Non sono di quelli che si mettono gratis a rimpiangere i morti, si disse, una merda era e una merda rimane. Ma doveva fermarsi un po' per occuparsi di sua madre. Almeno aiutarla con la burocrazia che lo riguardava. E questo era un guaio. Avrebbe voluto rimanere in Danimarca il meno possibile, perché quando se n'era andato, l'aveva fatto senza dire addio a una persona, e i grandi fantasmi o si guardano in faccia tutti i giorni o è meglio non vederli mai più. Bussò a quella porta senza sapere cosa avrebbe detto.

La mattina dopo, svegliandosi accanto al fantasma, Erik trovò la forza di dirle che sarebbe presto diventato padre per via di una portoghese. E a sé stesso, scappando via, promise che non l’avrebbe mai più vista. Si fermò a bere un caffè in un bar, scottandosi la lingua pur di non pensare a come sarebbe stata la sua vita sotto a quelle coperte.

Accelerò i tempi di ritorno in Portogallo e riuscì a sedersi su un aereo tre settimane dopo. Ma, sbarcato a Lisbona, commise un errore tipico di chi, nonostante apparenze robuste, brancola nel buio: pensò che era il momento di dire, finalmente, addio al fantasma. Meglio al telefono che niente. Ormai, tanto, un continente intero li separava. Entrò in una cabina e fece il numero. La prima volta si scordò di aggiungere il prefisso danese. La seconda trovò occupato. La terza è l'ultima, si disse.

La terza volta lei gli rispose e colse l’occasione per annunciargli che era incinta di lui.

La mattina dopo, svegliandosi accanto alla portoghese, Erik trovò il coraggio di raccontarle tutto, o forse ebbe troppa paura di mantenere questo segreto tutta la vita. Implorò il suo perdono con l'aiuto di un interprete tedesco, e l'interprete dovette dare il suo meglio, o piuttosto sbagliò qualche sinonimo, perchè alla fine la portoghese lo perdonò davvero; anzi, spinta da un'inconcepibile solidarietà femminile - o da una suprema volontà d'ordine- lo convinse persino a tornare in Danimarca a “sistemare la cosa' ”.

Ed Erik non trovò il coraggio di risponderle che non ne aveva il coraggio.

Salì la scala dell'aeroplano come si sale al patibolo. Il fantasma andò a prenderlo all'aeroporto di Copenhagen e, mentre lo abbracciava, gli sussurrò una sola parola all'orecchio: “Proviamoci”. Lui scoppiò a piangere. Piangeva ancora quando per telefono disse alla portoghese che forse il fantasma era davvero l'amore della sua vita.

In realtà, sappiamo noi spettatori, il fantasma era solo un fantasma. All’ottavo mese di gravidanza, i due erano già ai calci, ai pugni e ai piatti fracassati contro le pareti.

Erik ripartì per il Portogallo. Non aveva la minima speranza di tornare con la cantante, voleva solo conoscere suo figlio o sua figlia, il bebè che doveva essere nato qualche settimana prima. Quando arrivò ai piedi della collina su cui aveva vissuto, uno dei suoi vecchi amici tedeschi lo vide e, senza dire una parola, raccolse un bastone da terra. “E' maschio o femmina?” chiese Erik. L'amico sollevò il bastone, minaccioso. Poi capì dal suo sguardo spento che Erik se ne sarebbe andato senza fare tante storie. “Maschio”.

Erik tornò sui suoi passi giù per la montagna, cercando di non chiedersi come sarebbe stata la sua vita su e giù per quel pendio portoghese. All'aeroporto di Lisbona entrò in una cabina, diversa da quella di otto mesi prima, per telefonare al suo vecchio direttore di giornale e dirgli che partiva.

Figlio di puttana, dove sei finito? Dove vai?

Dimmelo tu. Di sicuro vi serve un corrispondente da qualche parte nel mondo.

Ti dirò, rispose il capo, pare che il Perù sia in ebollizione.




Questa parte me le raccontò nella cucina di casa mia, in via Togliatti 18, nella prima periferia della città con la toponomastica più comunista d’Europa. Se ne stava appoggiato alle piastrelle bianche tappezzate di biglietti di buongiorni e buonenotti che ci scambiavamo noi inquiline. Che avrei dovuto fare? Concludeva. Che avrei dovuto fare di quei due amori e delle loro pance esorbitanti? E poi, per salvarsi, aggiungeva: è andata meglio così. Entrambe hanno trovato mariti migliori di quello che sarei stato io. Non parliamo poi del padre che si sono scampati quei due bambini. Anzi, quella bambina danese e quel bambino portoghese. Non li ho mai visti neanche in foto, nè loro me. Credo. Di loro so solo che non mangiano il miele, perchè io lo odio così tanto che i miei geni non accetterebbero compromessi.

E poi il suo fegato se lo portava a vomitare.

Quando se ne andò da casa mia eravamo molto amici. Pensavo lo avrei accompagnato, da amica distante e vicina, verso la morte.

Invece poche settimane dopo, quando mi trovavo già in Argentina, colse un'occasione stupida per litigare con me e non rispose più a nessuna email. Con i miei amici del mitico viaggio a Copenhagen fece lo stesso nel giro di poco tempo.

Grattandosi via con rabbia la polvere dorata di cui lo avevamo cosparso, Erik volle liberarsi di noi. Lo fece sempre in maniere orribili per essere sicuro che non si potessero mettere pezze; lo fece con noi e probabilmente con tutti gli altri, come se stesse ostinatamente cercando di andare da solo incontro alla fine. Forse pensava che se nessuno avesse saputo della sua morte nel momento in cui fosse arrivata, l'umiliazione sarebbe stata un po’ più digeribile.

Ma il destino si è preso gioco di lui. Ancora una volta. La malattia si è ritirata dalle sue tasche, oppure si è fermata a vivacchiare sul loro fondo scucito, come fanno le briciole. Lo so perchè, facendo ricerche su internet, ho scoperto che oggi, sei anni dopo, è ancora vivo, e ancora celebra la guerra di Spagna cronacando il turismo politico di nostalgici danesi.

Non ho voglia di scrivergli per chiedergli se nel frattempo è diventato un santo. Se come tanti ha approfittato della guarigione per votarsi a una religione religiosamente evitata per tutta la vita. O se la terra intorno a lui è ancora bruciata e, seduto al centro, lui si gode l'odore delle fotografie consumate, sciolte dal calore.

Della sua storia mi rimangono una domanda ed un monito: la domanda è se uno dei suoi figli sia riuscito a trovarlo quando era malato, mandando a monte il suo piano. Il monito lo tengo per me: forse ne parlerei solo con lui, il primo complice della mia passione per le storie degli altri, se un giorno, pentito o solo incuriosito, tornasse a cercarci. Lo farà?

Non lo so. Solo i presuntuosi pretendono di sapere dove si trova la parola fine di una storia. Infondo, finché le persone non muoiono, sono vive.

sabato 19 marzo 2011

non piangere per me,cretina

Per ascoltare "Non piangere per me, cretina, storie di figli e nipoti della dittatura argentina", cliccate o copiate questo link:

http://lucelucilla.podomatic.com/entry/2011-03-18

Autunno a Buenos Aires. Si ricominciava a respirare dopo l’afa di un’estate metropolitana. Curiosamente, il vento dell’oceano atlantico raggiunge la città solo d’inverno; da dicembre a febbraio, quando dovrebbe rinfrescarla, la brezza si perde invece da qualche parte sul Rio de La Plata, nelle cui acque erano gettati i corpi degli oppositori dai vermi del regime militare negli anni settanta. Un curioso caso di castigo climatico.
L’inizio dell’autunno era coinciso con l’immenso corteo del 24 di marzo, a trent’anni dal golpe del 1976 che aveva dato inizio a una delle più sanguinose dittature della storia. Trent’anni dopo quella notte io camminavo nel corteo dentro allo spezzone di Hijos, il collettivo dei figli dei desaparecidos, molti dei quali, strappati ai genitori naturali e adottati dalle famiglie degli aguzzini, avevano scoperto la loro vera identità con decenni di ritardo. Non era questo il caso di Eduardo, maestro elementare e voce della radio la Tribu, la storica radio comunitaria di Buenos Aires, ed imbattibile bevitore di erba mate. Diceva: “Ci sono solo due cose importanti nella vita. Una è il Mate. E l’altra...non è così importante”.
Eduardo, più che fratello, avrebbe potuto essere il papà dei suoi compagni di collettivo. Nel 1977, nel primo anno di dittatura militare, era già un attivista politico piuttosto conosciuto, tanto che si trovava già in clandestinità a Mar del Plata quando fu avvertito della scomparsa di suo padre, regista e attore teatrale. Dopo mesi di angoscia e di ricerche inutili, venne a sapere della visita in città di un emissario della croce rossa internazionale. Presentandosi a sorpresa all’uscita della conferenza che l’emissario era venuto a tenere, riuscì a dirgli questo: oggi pomeriggio andrò a chiedere notizie di mio padre in quel commissariato. Se alle cinque in punto non riceve una mia telefonata, venga a salvarmi.
Era un tentativo disperato, in realtà non credeva che l’emissario si sarebbe esposto così tanto. Il mondo intero fingeva di non sapere cosa stava succedendo in Argentina, tanto che l’anno dopo vi avrebbe celebrato i mondiali di calcio, naturalmente vinti dall’Argentina ai supplementari in finale contro l’Olanda, doppietta di Kempes premiato da un generale Videla baffuto e in doppiopetto, mentre i prigionieri politici nei sotterranei del terrore sussultavano al ritmo alternato dei cori da stadio e delle scariche elettriche, finché perdevano i sensi sognando di essere sommersi da una montagna di coriandoli bianchi e azzurri come la bandiera.
Eppure alle cinque e dieci di quel pomeriggio un’auto della croce rossa si fermò davanti al commissariato dove Eduardo era entrato qualche ora prima per chiedere che suo padre fosse restituito, vivo. L’autista scese a chiedere di lui. Glielo consegnarono già massacrato di botte, sì e no cosciente. L’auto lo portò in aeroporto così com’era e lo mise su un volo per San Paolo, da dove Eduardo, esule, cercò ancora, inutilmente, di avere notizie di suo padre.
A volte, ancora oggi, quando la sua Fiat Uno si rompe e si ritrova su un autobus a Buenos Aires, magari il 189 che fa il giro intorno a Plaza de Mayo, Eduardo si sorprende a guardare dal finestrino e a cercare il volto di suo padre fra quelli dei passanti. Almeno trentamila paia d’occhi, in quella città, fanno come i suoi. Anche quando sono convinti di pensare ad altro, fanno come i suoi. Anche quando si ripetono che la vita è andata avanti e la dittatura è finita, fanno come i suoi.
Sarà per questo che, anche per chi viene da lontano e non ha vissuto niente di tutto questo, guardare dal finestrino di un autobus a Buenos Aires è un po’ come attraversare una lunga mostra di foto in bianco e nero.

Pochi giorni dopo il 24 di marzo chiamavo Merce, una documentarista di Mallorca che stava girando un video sulla radio La Colifata, la prima radio di pazienti psichiatrici del mondo. Avevo scelto una cabina all’angolo tra l’Avenida Corrientes e la 9 de Julio -la strada più larga del mondo,sostengono gli argentini- all’ombra dell’obelisco che compare in tutte le cartoline della città. Merce mi aveva appena dato buca senza dare notizie e temevo che il black out avesse a che fare con la malattia di suo padre. Non mi sbagliavo.
Anche i genitori di Merce avevano ottenuto l’asilo politico a San Paolo alla fine degli anni settanta. La madre era già incinta di Merce e la fuga era l’ultima speranza per mettere la piccola al mondo senza che finisse nelle mani dei vermi. Così, lei nacque lì, a San Paolo, all’inizio di una malattia così profonda che spesso chi ne soffre rinuncia per sempre a curarsi: l’esilio. Dopo un anno in Brasile, i suoi riuscirono ad arrivare a Mallorca, in Spagna, dove tuttora Merce vive senza mai aver perso l’accento argentino ereditato dai suoi.
La madre di Merce non volle mai saperne di tornare a Buenos Aires. Questo forse, chissà, fu all’origine dell’infinita fine dell’amore con Esteban, il padre di Merce. Di quelle fini che non c’è alcun bisogno di conclamare, fino a quando…fino a quando, il finimondo.
Buenos Aires, 19 dicembre 2001. La città brucia. L’economia è collassata, il sogno della Svizzera dell’America Latina si infrange su un muro di debiti. Troppo tardi per rimediare, il paese è stato venduto ai migliori offerenti; da un giorno all’altro, bisogna ricominciare tutto daccapo. Un’occasione che non capita quasi mai e di cui, potendosi permettere un po’ di saggezza, bisognerebbe in qualche modo essere grati.
Da una televisione in un salotto di Mallorca Esteban guardava bruciare la sua Buenos Aires. La città bruciava come avrebbe dovuto bruciare venticinque anni prima, pensava lui. Finalmente. Disse a sua moglie che il momento era arrivato: l’esilio per me finisce ora. Si imbarcò sul primo volo disponibile, la vigilia di Natale. C’era da ricominciare un paese daccapo.
Erano passati ventitrè anni dalla loro fuga. Settimane, poi mesi, secoli. Ma restava il fatto che più di metà della sua vita era stata qui, in questa città che ritrovò orfana e disorientata. Ma viva. In poco tempo si unì a una delle assemblee di quartiere che spuntavano come funghi, entrò in un collettivo politico. Telefonò a sua moglie a Mallorca e le disse senza preamboli che sarebbe rimasto a Buenos Aires, che se voleva poteva venire anche lei. Lei lo mandò al diavolo e fecero più o meno lo stesso le altre figlie. Che diavolo ti è saltato in testa?
La maggiore, Mercedes, che aveva vissuto, da dentro la pancia di sua madre, il dolore della fuga e dell’esilio, la prese diversamente. Fu a lei che, qualche anno dopo, Esteban raccontò di aver incontrato nel collettivo politico una donna che si chiamava Mercedes come lei, e a casa della quale si sarebbe trasferito di lì a poco, nel cuore del quartiere popolare di Boedo, famoso per il suo carnevale e per le sue fumose sale da biliardo.
E fu sempre a lei che scrisse una lettera, ancora più tardi, per dirle che gli era stato diagnosticato un brutto tumore. Allora Merce, che nel frattempo aveva trasformato la passione per i documentari in un mestiere, e che era tornata nel paese in cui era nata- il Brasile- per girarne uno sul mitico forum sociale di Porto Alegre del 2002, decise che era arrivato il momento di andare ancora più indietro, e fare un documentario nella città in cui era stata concepita, da cui era stata scacciata ancora feto. Era anche un modo per stare vicina a suo padre impegnandosi in qualcos’altro, per non asfissiarlo con la sua paura.
Qualcuno le aveva parlato di una radio che trasmetteva dall’interno dell’ospedale psichiatrico di Buenos Aires: la radio si chiamava, si chiama, la Colifata, “la Pazzerella” e Merce cominciò a frequentarla per conoscerne i deejay-pazienti e fare il film sul loro sogno colifato. E’ lì, in un sabato pomeriggio di trasmissioni del dicembre 2005, che io e Merce ci siamo conosciute.
La malattia di Esteban, però, continuò a peggiorare. Niente e nessuno riuscì a convincerlo ad andare in Spagna a provare nuove cure. Finiti i risparmi e concluso il documentario, Merce fu costretta a tornare a Mallorca per lavorare a altri progetti, finché non arrivò da Buenos Aires la telefonata dell’altra Mercedes, la donna di suo padre, che le disse: ci siamo. Venite qui.
Merce riattaccò. Si trovava nello stesso salotto da cui, sette anni prima, Esteban aveva guardato in televisione la rivolta di Buenos Aires. Si girò verso sua madre. Senza dirsi nulla oltre al necessario, madre e figlia accesero il computer e cercarono quattro posti, per loro e le altre sorelle di Merce, su un volo per Buenos Aires il giorno dopo.
Così furono le ultime settimane di Esteban. Nella sua Buenos Aires, dove l’autunno aveva ceduto il posto all’inverno, spinto via dal vento dell’oceano che solo quando è freddo riesce a raggiungere la città. Quella casa infondo non era che a pochi isolati dalla sede di Radio la Tribu, dove Eduardo inveiva in diretta contro Bush, diffondendo la sua profonda voce d’estraneo anche in quel salotto della casa del quartiere Boedo, famoso per il suo carnevale e per le sue fumose sale da biliardo, dove due donne e tre ragazze si alternavano, in una surreale allegria femminile, al capezzale del loro marito, compagno e padre. Nei momenti in cui Esteban non aveva bisogno dei suoi ricordi per stare sveglio, o per addormentarsi meglio, sua moglie vagava per la città a cui aveva detto arrivederci trent’anni prima, e a cui avrebbe detto addio, stavolta senza rancore, di lì a poco, mentre la nuova compagna di suo marito cucinava ravioli e infornava empanadas per tutte, mentre Merce, la figlia maggiore, la figlia della fuga e dell’esilio, seduta sull’autobus 189 riprendeva dal finestrino immagini della città in bianco e nero, perché è così che vuole ricordare Buenos Aires chi l’ha amata, è così che vuole ricordarla chi l’ha capita: in bianco e nero.
Merce mi ha scritto che, due giorni prima che Esteban morisse, lei e sua madre lo hanno portato sulla sedia a rotelle al mercato ortofrutticolo di Boedo. Lì, lui le ha convinte a rubare delle mele. Aveva già pensato a un piano semplice e perfetto: loro gliele nascondono in grembo e così, insospettabili e complici, i tre fuggiaschi del 1977 fuggono ancora, in un rumore di ruote e ferraglia, dall’inverno della loro città in bianco e nero.

giovedì 3 marzo 2011

La Regina della Pioggia

Eccovi la storia della Regina della Pioggia,raccontata dalla sottoscritta e interpretata da Carla Vitantonio su Radio Kairòs. Musiche di Valentina del Greco.

http://lucelucilla.podomatic.com/entry/2011-03-02T14_27_41-08_00


La Regina della Pioggia



Tutto questo Helena me lo raccontò mentre Joan guidava per le strade del Limpopo sudafricano, lei faceva da navigatore con la cartina in mano e io mi contorcevo sul sedile posteriore preda di dolori mestruali terrificanti. Eravamo partiti all'alba da Makhado, l'ultima città prima del confine con lo Zimbabwe, dove eravamo andati per scrivere dell’esodo degli zimbabweani in fuga dall’epidemia di colera.

Questa Makhado tra noi l’avevamo ribattezzata Makondo, come quella di Cent’Anni di Solitudine, perché il realismo magico si era fatto beffe, come al solito, della nostra ratio giornalistica. Vorrei darvene giusto un assaggio: l’ultima sera a Makhado ero andata alla stazione di polizia per denunciare il furto della mia macchina fotografica, ma alla fine ci avevo rinunciato perché il poliziotto che scriveva il verbale aveva prima cominciato a insistere per farmi conoscere un suo certo amico, poi aveva dribblato le mie resistenze spiegando: “E’ un amico speciale...è invisibile”. E mentre io guadagnavo l’uscita un po’ inquietata, aveva infine aggiunto: “Guarda che è Gesù Cristo!”

Io, Helena e Joan dormivamo nell’unico bed and breakfast della città, di quelli con una piccola piscina che si risveglia al mattino piena di foglie galleggianti, in cui sguazzavano giovani bianchi di buona famiglia con l’apparecchio per i denti.

Al tramonto, puntualmente, dal bed & breakfast andava via l’elettricità e ci si faceva luce con le candele, e noi tre dovevamo vagare per Makondo elemosinando prese elettriche in qualche bar per ricaricare computer e macchine fotografiche, finendo in una giostra di situazioni assurde a catena. Quando tornavamo al bed & breakfast ed entravamo in camera facendoci luce con lo schermo dei cellulari, avevamo la sensazione che i black out non fossero del tutto accidentali: i riccastri bianchi vagavano con le candele in mano da una stanza all’altra, e regnava un silenzio inquietante. Il mio episodio all’ufficio di polizia ci convinse definitivamente a levare le tende.

La tappa successiva distava, da quanto ci avevano detto i makondesi, più o meno due ore di auto ma noi, tra un bivio perso e l'altro, ce ne stavamo mettendo il doppio.

Eravamo diretti a un luogo che non compare sulle cartine, alla caccia di una storia di quelle che ti riempono la testa per settimane ancora prima di poter guardare negli occhi uno dei personaggi che la compongono.

Era, è una storia triste quella che ci attraeva. Una storia che non voleva saperne di essere sepolta sotto quell'abbondanza di alberi di mango, banana e papaya che nascondevano alla vista le case di fango secco intonacato, che costeggiavano la strada principale di Modjadji.

Parcheggiammo la Volkswagen e ci avvicinammo a un’anziana che riposava seduta sotto a un mango, con l'attitudine indecifrabile, priva di qualsiasi sorpresa, di chi diresti che era lì ad aspettarti. Guardava da lontano, da ben prima dei suoi occhi, da dietro lo schermo della cataratta; era vestita in abiti tradizionali e batteva le mani due volte prima di stringere la mano a degli estranei come noi, ma farle domande in inglese era inutile. Parlava solo sotho, una delle undici lingue ufficiali del Sudafrica. Ce ne stemmo lì a sorriderle con le mani in tasca, impacciati come è sacrosanto che un bianco si senta in Africa, finché dal silenzio della casa uscì timidamente la grassottella nipote, in abbigliamento stridentemente grunge, che venne a tradurre in inglese una domanda per noi, La Domanda che sua nonna aspettava di porre a degli stranieri da chissà quanto tempo: “Vuole sapere se, da dove venite voi… la pioggia è pioggia”.




Questa è la storia dell’ultima Regina della Pioggia, nata e morta a Modjadji, nel Limpopo sudafricano.

L’ultimo pezzo dell'unica strada che conduce Modjadi, cuore e capitale del popolo dei Balobedu, attraversa una terra verdissima, baciata dalla fortuna- vale a dire, in un clima secco come quello del Limpopo, dalla pioggia. E' anche così' che si capisce di essere finalmente arrivati a destinazione, oltre che per la strada asfaltata realizzata su ordine di Nelson Mandela, che nel 2003 era atterrato nel vicino aeroporto di Polokwane per assistere all’incoronazione dell’ultima Regina della Pioggia.

Qualcun altro aveva guidato centinaia di chilometri per non perdersi l’evento, ma ai più, milioni e milioni di sudafricani, bastò accendere la televisione. Grazie alle telecamere piovute nell’autunno di Modjadji, tutti poterono vedere quella ragazza di venticinque anni, coi capelli corti e l’aria sbarazzina, che fino a quel momento rispondeva al nome di Makobo Modjadji, diventare la rain queen, Regina della Pioggia, massima autorità del popolo dei Balobedu.

I Balobedu, sudditi della Regina, sono quasi mezzo milione. Vivono a Modjadj, la città che prende il nome dalla dinastia reale, e in tutta la vallata circostante. Al potere tramandato di madre in figlia, quello di invocare la pioggia, si raccomandano da tempo incalcolabile per avere la garanzia di un raccolto abbondante; e in una regione secca come il Limpopo, una vallata verde come quella che circonda Modjadj ha davvero un che di prodigioso.

La memoria dei più anziani non basta a fissare un ricordo, ancorchè tramandato, dell’origine della dinastia dei Modjadji. Tutto è troppo lontano: generazioni, secoli indietro, trame di leggende che si mescolano a tracce di realtà inoppugnabile. Un punto d’inizio qualche antropologo l'ha fissato intorno al 1500, quando Mambo, figlio di Monotapa, sovrano dello Zimbabwe, ingravidò la sorella Dguzini. Il re Monotapa avrebbe voluto bruciar vivo il colpevole, ma Dugvanizi non rivelò mai che si trattava del fratello. Per ringraziarla di aver salvato la vita al suo unico figlio maschio la regina madre rubò al marito il potere di chiamare la pioggia, lo trasmise alla figlia e le ordinò di fuggire a sud per dare origine a un nuovo popolo. Dguzini scelse una conca fra le montagne del Limpopo, nord dell’odierno Sudafrica, per partorire il frutto dell’incesto e dar vita al popolo del Balobedu.

Alla propria morte, Dguzini passò la corona al primo figlio maschio, e questi a sua volta al primogenito e così via per circa 200 anni, finchè, intorno al 1800, re Magodo si innamorò dell’unica figlia femmina e nominò futura rain queen la bambina che ebbero insieme. La nuova linea di successione di madre in figlia non significò mai che la regina, malgrado la sua autorità tradizionale su tutti i Balobedu, potesse scegliere l’uomo accoppiandosi col quale avrebbe rinnovato la stirpe: per mantenere puro il sangue, la regina poteva concepire solo con un altro membro della famiglia reale.

Così avrebbe dovuto fare anche Makobo, ma lei, l’ultima rain queen, prima del Sudafrica post-Apartheid, classe 1978, aveva deciso di infischiarsene delle leggi tradizionali. Racconta la gente di Modjajdi che Makobo amava vestirsi da uomo e non tenere mai i capelli più lunghi di due dita; che adorava andare a divertirsi fino alle prime ore del mattino e che prendeva parte alle proteste popolari per il diritto alla salute e alla casa. Nemmeno dopo l'incoronazione accettò di tenere la bocca cucita, le gambe chiuse, la fronte aggrottata come sarebbe stato adeguato al suo status.

Si innamorò di un attivista politico,un uomo che non era nemmeno un Balobedu: David Mohale. Lo invitò a vivere con lei nel palazzo reale dei Modjadji, trasgredendo la regola che impediva a qualunque uomo di trascorrere una notte intera con la regina. E, per l’orrore dei suoi fratelli e cugini, concepì con lui, anziché con un altro membro della famiglia reale, la futura rain queen: la piccola Masalanabo, che venne alla luce alla fine del 2004.

Ma appena sette mesi dopo la nascita della bambina, le telecamere che avevano ripreso l’incoronazione di Makobo tornarono a Modjadji per il suo funerale. Makobo era stata ricoverata tre giorni prima in una piccola clinica per una presunta meningite che risultò fatale nel giro di ventiquattr’ore.

Un finale da copione per un corpo indebolito: per questo è una morte piuttosto comune in zone devastate dall’Aids come il Limpopo. L’ipotesi che Makobo sia morta di Aids è dunque quella diffusa ufficialmente, e alla domanda “come è morta la Regina della Pioggia?” rivolta agli abitanti di Modjadji, questi rispondono, mestamente e invariabilmente: di malattia.

Eppure David Mohale, fidanzato di Makobo e padre di sua figlia, non ci crede. E dice che non dovremmo crederci neppure noi. Nega persino che Makobo sia mai stata malata, e accusa i fratelli di averla avvelenata a due scopi: quello di liberarsi di una regina poco osservante dei costumi tradizionali e, soprattutto, di fare ritorno a una linea di successione maschile. Poco dopo la morte di Makobo, dopo aver dimostrato che né lui né la bambina erano sieropositivi, Mohale è sparito nel nulla. Ogni tanto un giornalista riesce a intervistarlo per farsi ripetere la sua versione dei fatti e le sue accuse alla famiglia Modjadji; ma la bambina è nascosta e in salvo.

Se l’idea di una regina assassinata dai suoi famigliari per risolvere una disputa di potere rievoca storie d’altri tempi, è pur vero che il fratello di Makobo, John Modjadji, è riuscito in seguito alla morte della sorella a farsi affidare la reggenza del potere reale. E' con lui che io, Helena e Joan avremmo dovuto parlare, ma all'ora e al giorno stabiliti il reggente non si fece trovare a Modjadji, lasciandoci nelle mani della vecchia sotto al mango, che ci fregò stabilendo subito che era lei, quel giorno, quella che faceva le domande difficili.

Ed è probabile che negli anni John diventi abbastanza temuto e rispettato da far dimenticare l’esistenza, da qualche parte, della legittima, per ora minuscola, erede al trono.

La versione della storia che invece racconta di una giovane regina che si lascia consumare dall’Aids forse non è altrettanto romanzante, ma dice molto del Sudafrica moderno. Decidete voi cosa volete credere, ma sappiate che se Makobo era malata, è probabile che non lo sapesse nemmeno; che avesse scelto di ignorare rischi e conseguenze, o addirittura che credesse di scongiurare il contagio evitando l'uso del preservativo, com'è opinione diffusa nelle zone rurali del paese. Infine, se invece era malata e lo sapeva, era comunque impensabile che proprio lei, regina della pioggia da poco incoronata, provasse a combatterla con le medicine dei bianchi.




Di questo parlammo rimettendoci alla guida, io e miei due compagni d'avventure sudafricane, sulla strada di ritorno verso la grigia Johannesburg. Finché si fece buio e dopo un po' rimanemmo tutti e tre zitti, incantati dalla solita e rassicurante linea bianca illuminata dai fari, ciascuno incapace di smettere di npensare a una ragazza nera e sudata coi capelli corti che balla senza ritegno, che grida alla guida di una manifestazione, che guarda un po' stupita la sua bambina appena nata, che impreca sbattendo una porta; che nasconde la sua corona sotto al letto. Che si sveglia nel cuore della notte e sente piovere il mondo intero sulle finestre del palazzo reale, e si rannicchia intimorita contro il suo uomo perché ha paura dei tuoni. Anche se anche quella pioggia l’ha invocata lei.

Guidavo io, e i dolori mestruali erano spariti. Ma non c'erano misteri in proposito. Era bastato un antidolorifico di Helena che, da brava figlia di medico, porta sempre con sé una farmacia intera.