martedì 13 luglio 2010

meridiane di meridione


Sembra di camminare su un marciapiede di Kampala, capitale dell’Uganda. Per strada si incrociano solo africani, le insegne dei negozi sono tutti in inglese, intorno all’immondizia che straborda dai cassonetti si formano nugoli di mosche.

Ma non è una strada di Kampala. E’ la Domitiana, strada principale di Castelvolturno, provincia di Caserta. Il comune più africano d’Italia e, contemporaneamente, la cloaca della Campania: qui, la questione rifiuti non si è mai risolta. A mala pena è mai entrata nell’ordine del giorno.

Castelvolturno è salita agli onori della cronaca nel settembre del 2008, quando un commando della Camorra comandato dal sanguinario Setola aprì il fuoco su sette africani fuori da una sala giochi. Era un avvertimento chiaro alla comunità africana, per presentare il potere della Camorra a chi ancora non avesse capito bene dove si trovava. Ma gli africani, di stanza qui come braccianti nei campi coltivati del casertano, si ribellarono all’intimidazione e per due giorni misero a ferro e fuoco la città, chiedendo che i responsabili finissero nelle mani della giustizia. Una lezione di cittadinanza in una delle zone più omertose e fuori controllo d’Italia, e che in cambio ha aperto le porte alla mlitarizzazione della città: polizia e carabinieri, ma anche un paio di jeep dell’esercito che pattugliano la statale Domitiana.

Da allora, Castelvolturno è uno dei simboli dello sfruttamento del lavoro migrante e della complicità mafiosa in Sud Italia. Nonostante Setola- il camorrista mandante della strage-e i suoi siano stati arrestati, basta passeggiare per la città per capire chi comanda, chi ha sempre comandato. Questa è la base della famiglia Coppola, che vi costruì addirittura un quartiere sul mare col proprio nome (il Villaggio Coppola), simbolo dell’abusivismo edilizio, più tardi parzialmente demolito da un sindaco particolarmente coraggioso. Negli anni ’70 e ‘80 Castelvolturno era bel posto di villeggiatura, e potrebbe esserlo ancora: ma oggi la spiaggia è una discarica a cielo aperto- poche settimane fa è stato rinvenuto persino un deposito di amianto- e le seconde case che i napoletani comprarono qui trenta o quarant’anni fa per i week-end al mare oggi sono affittate in nero ai ghanesi e nigeriani che vengono a lavorare nei campi. Per quindici o venti euro al giorno, naturalmente in nero.

“Califu-grounds”è il nome delle rotonde su cui gli africani aspettano dalle prime luci dell’alba un lavoro a giornata. “Califu”, come gli intermediari che in Libia li portavano da una tappa a quella successiva della loro odissea verso l’Europa, talvolta imbrogliandoli, così vengono battezzati anche gli autisti campani che li caricano in macchina verso qualche frutteto, incassando in cambio del trasporto una porzione del loro già magrissimo salario. “A volte poliziotti in borghese si fingono Califus per caricarci in macchina e portarci in questura” racconta Appiah, ghanese, da poco più di un anno in Italia. “L’arma su cui contano è la nostra paura. Per questo è fondamentale che facciamo rete tra noi e che siamo ben consapevoli dei nostri diritti”. Ogni mercoledì pomeriggio all’ex Canapificio, un centro sociale di Caserta, si ritrovano per fare il punto della situazione, organizzare qualcosa di simile a uno sciopero, e soprattutto ascoltare la propria situazione dai volontari dello Sportello Legale. “Abbiamo cercato di aiutare molti a ottenere un permesso di soggiorno con un escamotage: rientrare nella sanatoria del settembre scorso per assistenti domestici. Ma molte volte il tentativo non è andato a buon fine per la scarsa collaborazione del presunto datore di lavoro. Anche quelli in buona fede sono stati intimiditi dalle nuove leggi contro il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” spiega Mimma, attivista del Centro Sociale. E aggiunge: “Eppure se non fosse per gli africani, l’economia di questa zona sarebbe completamente crollata. Senza di loro non si raccoglierebbe più la frutta nei campi, e le seconde case dei napoletani a Castelvolturno sarebbero rimaste vuote”.

Ma ora nuovi interessi gravitano intorno alla città; e come sempre, dietro a grandi progetti edilizi c’è la Camorra. “Di qui sono di stanza i Casalesi, la mafia del Mattone”spiega Filippo, un comboniano in missione qui “Presto si capirà se nella strategia della Camorra gli immigrati possono restare a raccogliere la frutta o bisogna liberarsene per permettere a Castelvolturno di diventare un polo turistico”. Sono già stati stanziati miliardi per cambiare i connotati alla darsena della città e per creare un porto da cui far partire i traghetti verso le isole. Se le quotazioni marine di Castelvolturno dovessero salire, c’è da scommettere che mafia e politica troveranno presto il modo di liberare le case e le strade della città dalle migliaia di lavoratori africani.


Destinazione Rosarno

Qual è il destino di un immigrato, tanto più se clandestino, in Italia? Sempre quello di fare la spola tra un’opportunità di lavoro e l’altra. Sperando di non pestare piedi invisibili come è successo qualche centinaio di chilometri più a sud di Castelvolturno, a Rosarno, nell’ultima fetta tirrenica della Calabria. Un nome che tutta Italia ha visto rimbalzare sui titoli dei giornali nel gennaio scorso, quando è esplosa la rivolta dei braccianti africani della raccolta delle arance, esausti della violenza e delle vessazioni dei giovani rosarnesi, che il 6 gennaio ferirono due di loro sparando con fucili ad aria compressa.

La vicenda finì con la deportazione di un centinaio di lavoratori clandestini verso i più vicini CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) e la fuga di quasi tutti i regolari, spaventati dal clima d’odio e dalla presenza massiccia della polizia. “Erano quindici anni che c’era questo problema di persone costrette a vivere come bestie”spiega il parroco Don Memè. “Ma il ministero dell’Interno, anziché occuparsene, ha lasciato, o voluto, che scoppiasse il pandemonio per poi mostrare la mano pesante. A mio parere anche il casus belli è stato creato ad arte”. Oggi, tre mesi dopo i disordini, molti africani sono tornati. Non si accampano più nella Rognetta, l’ex fabbrica in cui si erano rifugiati durante il pogrom di gennaio, poi rasa al suolo dalle autorità. Alcuni vivono più stretti che possono in qualche casa in affitto, moltissimi nei casolari dei datori di lavoro, o sotto qualche albero nei campi di raccolta. Sono tornati perché altrove non hanno trovato lavoro nemmeno per i venti euro al giorno che vengono loro offerti qui. Ecco qual è, in fondo, il destino di un migrante: quello di non avere alternative. Di tornare nella bocca del leone per avere qualcosa con cui riempire la sua. Ora tutti qui a Rosarno si affrettano a dire che la ‘Ndrangheta non c’entrava. Che l’organizzazione mafiosa più potente del mondo non si interessa certo di qualche migliaio di arance raccolte per poche lire. Chissà. Certo è difficile credere che non abbia nulla a che fare col modo in cui è stata gestita la vicenda, coi ragazzini armati di fucili ad aria compressa e spediti a provocare i braccianti, che quest’anno, a causa la crisi delle fabbriche del nord, erano diventati troppi: quasi tremila. E in questo lembo di terra, dalle cui colline è ben visibile il porto di Gioia Tauro- lo scalo marittimo per eccellenza della ‘Ndrangheta, la sensazione è che nulla si muova senza il consenso della mafia, che quando non opera per raccogliere capitali lo fa per agglutinare consenso, per serrare le fila. La gente si stava stancando di tanti africani per la strada? Togliamo di mezzo quelli di troppo; gli altri torneranno.

Granelli di sabbia in un ingranaggio invisibile

Ecco perché è così difficile- in fin dei conti eversivo di un ordine secolare- creare un’alternativa. Lo sanno quelli del Consorzio Goel, un insieme di cooperative basate nella Locride, a un tiro di schioppo da Rosarno e Gioia Tauro, dall’altra parte dell’Aspromonte, sulla costa Ionica. “Noi non entriamo in tutti i settori dell’economia da cui capiamo di potere trarre vantaggio materiale”spiega Vincenzo Linarello, presidente di Goel. “Bensì in quelli strategicamente utili all’Ndrangheta, per mostrare che fare le cose eticamente non solo è più giusto,ma funziona meglio”. Dalla moda all’agricoltura, dall’inserimento lavorativo di disabili ai collettivi di artisti. E, ultimamente, persino all’erogazione di servizi: il progetto di welfare comunitario “Aiutamondi”, partito recentemente con finanziamenti della Fondazione Sud, è un’avanguardia assai interessante per un territorio come questo. “Abbiamo iniziato proponendo a un campione delle domande su cosa mancava più di tutto nella zona, in termini di servizi”, spiega Emanuela, direttrice del Consorzio “e abbiamo ottenuto qualche sorpresa: la gente chiedeva soprattutto tutela legale rispetto all’amministrazione pubblica e l’accesso a iniziative culturali, come la possibilità di frequentare gratuitamente corsi di teatro e musica”. L’idea è di far incontrare due carenze che da queste parti creano un circolo vizioso: quella di servizi e quella di occupazione. “In Aiutamondi (in dialetto “aiutiamoci”), la gente paga il servizio di cui è utente con ciò che ha ma non riesce a mettere sul mercato: può essere una cassetta di frutta come la sua competenza di muratore, o di avvocato”. Presto, con l’aiuto delle associazioni di categoria, verrà creato un tariffario per stabilire il metro di pagamento di ogni servizio a cambio di una prestazione professionale. “Quello dell’Ndrangheta è un preciso sistema che si basa sulla precarietà e quindi sulla dipendenza” dice Vincenzo. “La gente confonde i diritti con favori da ricambiare col voto”. Per spezzare questa catena, una serie di cooperative si sono unite sette anni fa in consorzio per inserire lo strumento dell’impresa sociale nella lotta contro la mafia e le massonerie deviate. Dal 2005, anno nero dell’omicidio del vicepresidente regionale Fortugno, e di una recrudescenza di attacchi e intimidazioni a danno di tutta la società civile a opera dell’Ndrangheta, il Consorzio lancia l’idea dell’Alleanza per la Locride e la Calabria: un appello a tutta Italia per fare rete, in primo luogo d’informazione e solidarietà. E che ha ricevuto adesioni oltre ogni aspettativa. “Così, a partire dal 2006, la rete si attiva in tutto il paese a ogni intimidazione. E gli attacchi hanno cambiato natura: ora, attraverso il controllo dei media locali e il beneplacito di molte istituzioni colluse, si cerca di screditarci con campagne diffamatorie condotte ad arte”.

Contare sulla risonanza solidale nel resto d’Italia è linfa vitale anche per chi dall’altra parte dello Stretto di Messina cerca di fare terra bruciata intorno a mafia e sfruttamento. Altri esempi luminosi di ostinati Davide contro giganti Golia. A Cassabile, nel Siracusano, questa è la stagione della patata e, di nuovo, dello sfruttamento del lavoro migrante; anche qui, il problema a monte è quello del bassissimo prezzo pagato agli agricoltori diretti, e della speculazione degli intermediari, spesso legati a Cosa Nostra. La Rete Antirazzista Siciliana ha tirato fuori dal cilindro una proposta per i medio-piccoli agricoltori: la campagna si chiama “Io non assumo in nero” e propone agli imprenditori che assumono regolarmente i braccianti di entrare in un circuito di vendita “etico”, i Gruppi di Acquisto Solidale sparsi in tutta Italia, con tanto di trasporti assicurati da un’impresa di camion confiscata alla mafia.

E se davvero l’unica alternativa praticabile fosse quella di creare un marchio ad hoc per i prodotti “etici”? Ne sa qualcosa Libera Sicilia, la famosa associazione creata da Don Ciotti per creare lavoro e produzione etica nei terreni confiscati alla mafia. Nella Piana degli Albanesi, nel Palermitano, a pochi passi dallo spiazzo di Portella delle Ginestre dove si consumò il massacro del primo maggio 1947, sorgono le cooperative Placido Rizzotto e Pio La Torre, affiliate a Libera. “Sono felice perché non ho dovuto lasciare la mia terra” dice Salvatore, presidente della Pio la Torre. “Ero disoccupato quando ho sentito parlare del concorso per diventare socio della cooperativa che poi avrebbe avuto in appalto la gestione dei terreni di Cosa Nostra confiscati nella Piana. Non ero neppure un militante antimafia: lo sono diventato negli ultimi anni”. Da quando il percorso già difficile delle cooperative ha cominciato a incappare in troppi, misteriosi incidenti di percorso: terreni bruciati, macchinari sabotati… “Noi, in queste terre, non cominciamo da zero. Ma da sottozero”.