Per ascoltare "Non piangere per me, cretina, storie di figli e nipoti della dittatura argentina", cliccate o copiate questo link:
http://lucelucilla.podomatic.com/entry/2011-03-18
Autunno a Buenos Aires. Si ricominciava a respirare dopo l’afa di un’estate metropolitana. Curiosamente, il vento dell’oceano atlantico raggiunge la città solo d’inverno; da dicembre a febbraio, quando dovrebbe rinfrescarla, la brezza si perde invece da qualche parte sul Rio de La Plata, nelle cui acque erano gettati i corpi degli oppositori dai vermi del regime militare negli anni settanta. Un curioso caso di castigo climatico.
L’inizio dell’autunno era coinciso con l’immenso corteo del 24 di marzo, a trent’anni dal golpe del 1976 che aveva dato inizio a una delle più sanguinose dittature della storia. Trent’anni dopo quella notte io camminavo nel corteo dentro allo spezzone di Hijos, il collettivo dei figli dei desaparecidos, molti dei quali, strappati ai genitori naturali e adottati dalle famiglie degli aguzzini, avevano scoperto la loro vera identità con decenni di ritardo. Non era questo il caso di Eduardo, maestro elementare e voce della radio la Tribu, la storica radio comunitaria di Buenos Aires, ed imbattibile bevitore di erba mate. Diceva: “Ci sono solo due cose importanti nella vita. Una è il Mate. E l’altra...non è così importante”.
Eduardo, più che fratello, avrebbe potuto essere il papà dei suoi compagni di collettivo. Nel 1977, nel primo anno di dittatura militare, era già un attivista politico piuttosto conosciuto, tanto che si trovava già in clandestinità a Mar del Plata quando fu avvertito della scomparsa di suo padre, regista e attore teatrale. Dopo mesi di angoscia e di ricerche inutili, venne a sapere della visita in città di un emissario della croce rossa internazionale. Presentandosi a sorpresa all’uscita della conferenza che l’emissario era venuto a tenere, riuscì a dirgli questo: oggi pomeriggio andrò a chiedere notizie di mio padre in quel commissariato. Se alle cinque in punto non riceve una mia telefonata, venga a salvarmi.
Era un tentativo disperato, in realtà non credeva che l’emissario si sarebbe esposto così tanto. Il mondo intero fingeva di non sapere cosa stava succedendo in Argentina, tanto che l’anno dopo vi avrebbe celebrato i mondiali di calcio, naturalmente vinti dall’Argentina ai supplementari in finale contro l’Olanda, doppietta di Kempes premiato da un generale Videla baffuto e in doppiopetto, mentre i prigionieri politici nei sotterranei del terrore sussultavano al ritmo alternato dei cori da stadio e delle scariche elettriche, finché perdevano i sensi sognando di essere sommersi da una montagna di coriandoli bianchi e azzurri come la bandiera.
Eppure alle cinque e dieci di quel pomeriggio un’auto della croce rossa si fermò davanti al commissariato dove Eduardo era entrato qualche ora prima per chiedere che suo padre fosse restituito, vivo. L’autista scese a chiedere di lui. Glielo consegnarono già massacrato di botte, sì e no cosciente. L’auto lo portò in aeroporto così com’era e lo mise su un volo per San Paolo, da dove Eduardo, esule, cercò ancora, inutilmente, di avere notizie di suo padre.
A volte, ancora oggi, quando la sua Fiat Uno si rompe e si ritrova su un autobus a Buenos Aires, magari il 189 che fa il giro intorno a Plaza de Mayo, Eduardo si sorprende a guardare dal finestrino e a cercare il volto di suo padre fra quelli dei passanti. Almeno trentamila paia d’occhi, in quella città, fanno come i suoi. Anche quando sono convinti di pensare ad altro, fanno come i suoi. Anche quando si ripetono che la vita è andata avanti e la dittatura è finita, fanno come i suoi.
Sarà per questo che, anche per chi viene da lontano e non ha vissuto niente di tutto questo, guardare dal finestrino di un autobus a Buenos Aires è un po’ come attraversare una lunga mostra di foto in bianco e nero.
Pochi giorni dopo il 24 di marzo chiamavo Merce, una documentarista di Mallorca che stava girando un video sulla radio La Colifata, la prima radio di pazienti psichiatrici del mondo. Avevo scelto una cabina all’angolo tra l’Avenida Corrientes e la 9 de Julio -la strada più larga del mondo,sostengono gli argentini- all’ombra dell’obelisco che compare in tutte le cartoline della città. Merce mi aveva appena dato buca senza dare notizie e temevo che il black out avesse a che fare con la malattia di suo padre. Non mi sbagliavo.
Anche i genitori di Merce avevano ottenuto l’asilo politico a San Paolo alla fine degli anni settanta. La madre era già incinta di Merce e la fuga era l’ultima speranza per mettere la piccola al mondo senza che finisse nelle mani dei vermi. Così, lei nacque lì, a San Paolo, all’inizio di una malattia così profonda che spesso chi ne soffre rinuncia per sempre a curarsi: l’esilio. Dopo un anno in Brasile, i suoi riuscirono ad arrivare a Mallorca, in Spagna, dove tuttora Merce vive senza mai aver perso l’accento argentino ereditato dai suoi.
La madre di Merce non volle mai saperne di tornare a Buenos Aires. Questo forse, chissà, fu all’origine dell’infinita fine dell’amore con Esteban, il padre di Merce. Di quelle fini che non c’è alcun bisogno di conclamare, fino a quando…fino a quando, il finimondo.
Buenos Aires, 19 dicembre 2001. La città brucia. L’economia è collassata, il sogno della Svizzera dell’America Latina si infrange su un muro di debiti. Troppo tardi per rimediare, il paese è stato venduto ai migliori offerenti; da un giorno all’altro, bisogna ricominciare tutto daccapo. Un’occasione che non capita quasi mai e di cui, potendosi permettere un po’ di saggezza, bisognerebbe in qualche modo essere grati.
Da una televisione in un salotto di Mallorca Esteban guardava bruciare la sua Buenos Aires. La città bruciava come avrebbe dovuto bruciare venticinque anni prima, pensava lui. Finalmente. Disse a sua moglie che il momento era arrivato: l’esilio per me finisce ora. Si imbarcò sul primo volo disponibile, la vigilia di Natale. C’era da ricominciare un paese daccapo.
Erano passati ventitrè anni dalla loro fuga. Settimane, poi mesi, secoli. Ma restava il fatto che più di metà della sua vita era stata qui, in questa città che ritrovò orfana e disorientata. Ma viva. In poco tempo si unì a una delle assemblee di quartiere che spuntavano come funghi, entrò in un collettivo politico. Telefonò a sua moglie a Mallorca e le disse senza preamboli che sarebbe rimasto a Buenos Aires, che se voleva poteva venire anche lei. Lei lo mandò al diavolo e fecero più o meno lo stesso le altre figlie. Che diavolo ti è saltato in testa?
La maggiore, Mercedes, che aveva vissuto, da dentro la pancia di sua madre, il dolore della fuga e dell’esilio, la prese diversamente. Fu a lei che, qualche anno dopo, Esteban raccontò di aver incontrato nel collettivo politico una donna che si chiamava Mercedes come lei, e a casa della quale si sarebbe trasferito di lì a poco, nel cuore del quartiere popolare di Boedo, famoso per il suo carnevale e per le sue fumose sale da biliardo.
E fu sempre a lei che scrisse una lettera, ancora più tardi, per dirle che gli era stato diagnosticato un brutto tumore. Allora Merce, che nel frattempo aveva trasformato la passione per i documentari in un mestiere, e che era tornata nel paese in cui era nata- il Brasile- per girarne uno sul mitico forum sociale di Porto Alegre del 2002, decise che era arrivato il momento di andare ancora più indietro, e fare un documentario nella città in cui era stata concepita, da cui era stata scacciata ancora feto. Era anche un modo per stare vicina a suo padre impegnandosi in qualcos’altro, per non asfissiarlo con la sua paura.
Qualcuno le aveva parlato di una radio che trasmetteva dall’interno dell’ospedale psichiatrico di Buenos Aires: la radio si chiamava, si chiama, la Colifata, “la Pazzerella” e Merce cominciò a frequentarla per conoscerne i deejay-pazienti e fare il film sul loro sogno colifato. E’ lì, in un sabato pomeriggio di trasmissioni del dicembre 2005, che io e Merce ci siamo conosciute.
La malattia di Esteban, però, continuò a peggiorare. Niente e nessuno riuscì a convincerlo ad andare in Spagna a provare nuove cure. Finiti i risparmi e concluso il documentario, Merce fu costretta a tornare a Mallorca per lavorare a altri progetti, finché non arrivò da Buenos Aires la telefonata dell’altra Mercedes, la donna di suo padre, che le disse: ci siamo. Venite qui.
Merce riattaccò. Si trovava nello stesso salotto da cui, sette anni prima, Esteban aveva guardato in televisione la rivolta di Buenos Aires. Si girò verso sua madre. Senza dirsi nulla oltre al necessario, madre e figlia accesero il computer e cercarono quattro posti, per loro e le altre sorelle di Merce, su un volo per Buenos Aires il giorno dopo.
Così furono le ultime settimane di Esteban. Nella sua Buenos Aires, dove l’autunno aveva ceduto il posto all’inverno, spinto via dal vento dell’oceano che solo quando è freddo riesce a raggiungere la città. Quella casa infondo non era che a pochi isolati dalla sede di Radio la Tribu, dove Eduardo inveiva in diretta contro Bush, diffondendo la sua profonda voce d’estraneo anche in quel salotto della casa del quartiere Boedo, famoso per il suo carnevale e per le sue fumose sale da biliardo, dove due donne e tre ragazze si alternavano, in una surreale allegria femminile, al capezzale del loro marito, compagno e padre. Nei momenti in cui Esteban non aveva bisogno dei suoi ricordi per stare sveglio, o per addormentarsi meglio, sua moglie vagava per la città a cui aveva detto arrivederci trent’anni prima, e a cui avrebbe detto addio, stavolta senza rancore, di lì a poco, mentre la nuova compagna di suo marito cucinava ravioli e infornava empanadas per tutte, mentre Merce, la figlia maggiore, la figlia della fuga e dell’esilio, seduta sull’autobus 189 riprendeva dal finestrino immagini della città in bianco e nero, perché è così che vuole ricordare Buenos Aires chi l’ha amata, è così che vuole ricordarla chi l’ha capita: in bianco e nero.
Merce mi ha scritto che, due giorni prima che Esteban morisse, lei e sua madre lo hanno portato sulla sedia a rotelle al mercato ortofrutticolo di Boedo. Lì, lui le ha convinte a rubare delle mele. Aveva già pensato a un piano semplice e perfetto: loro gliele nascondono in grembo e così, insospettabili e complici, i tre fuggiaschi del 1977 fuggono ancora, in un rumore di ruote e ferraglia, dall’inverno della loro città in bianco e nero.
sabato 19 marzo 2011
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Di ritorno da Buenos Aires, un gran piacere leggerti.
RispondiEliminaMucha suerte por todo
Deborah W