martedì 10 maggio 2011

L'EQUIVALENTE AFRICANO DI UNA BALLA DI FIENO

Questo il podcast su cui potete ascoltare dalla voce di Carla Vitantonio su Radio Kairòs la storia di Umberto e Marisa Fusaroli, sette decadi tra Romagna e Mozambico. Passione e libertà.

http://lucelucilla.podomatic.com/entry/2011-05-10T04_32_02-07_00


Non sono la prima emiliana a mettere piede in Mozambico.
Figuriamoci. E siccome era la mia prima volta in Africa, m'è venuto in mente di conoscere qualcuno che c'era stato in decenni differenti.
Sono andata in treno, provincia di Forlì, a incontrare questi Fusaroli Casadei un paio di settimane prima di partire per il Mozambico. Dal finestrino l’Emilia si è inesorabilmente  trasformata in Romagna, la pianura era tutta una balla di fieno.La nostra campagna è bella in questa stagione, rassegnata alla fine dell’estate ma ancora sgombera dalle nebbie autunnali.
Alla stazione di Forlimpopoli mi viene a prendere Antonio detto Gaetano, figlio di Umberto Fusaroli e della moglie Marisa (anche mia nonna di Livorno si chiama Marisa). Ha degli occhiali da sole da killer che mi lasciano un po’ per plessa, ma quando se li toglie svela un’aria da pacioccone romagnolo. Fa il pilota per l’Alitalia, e sono i giorni in cui sta per fallire definitivamente. Mentre guida, mi spiega i punti della trattativa: mi sembra che abbiano ragione loro, i piloti, a non volerla accettare. Comunque mi riprometto di leggere l’indomani Il Manifesto sull’intera vicenda.
 
I Fusaroli Casadei se ne andarono dall’Italia all’inizio degli anni sessant’anni , delusi dalla piega che avevano preso la storia e la sinistra in Italia dopo la liberazione.
Andarono da un vecchio amico che viveva nell’allora Rhodesia (oggi Zimbabwe) di Ian Smith, un ex mercenario inglese che aveva fondato il suo impero sull’ideologia razzista. Da lì, Umberto prese contatti col Frelimo – il Frente di Liberazione del Mozambico, che confinava a est con la Rhodesia - e , lavorando come traduttore per il governo di Smith, raccoglieva intanto preziose informazioni per il Frelimo. Appena prima che il cerchio della polizia rhodesiana si chiudesse su di lui, un collega inglese che gli si era affezionato lo avvertì che entro poche ore sarebbe stato arrestato e fucilato. Umberto caricò sulla Volkswagen i suoi libri e il suo fucile da caccia, salutò Marisa  e scappò sgommando verso il confine con lo Zambia. Passò la frontiera alle primi luci dell’alba, sfondando-letteralmente- il blocco dei Rhodesiani.
Fu bloccato alcuni chilometri dopo dalla polizia dello Zambia: convinse le autorità a  non rispedirlo indietro ma, piuttosto, dii incarcerarlo a Lusaka, capitale dello Zambia. Qui trovò un ufficiale che parlava qualche parola di italiano e lo pregò di telefonare a Marisa, ancora in Rhodesia, per fargli sapere dove si trovava e cosa avrebbe dovuto fare : partire alla volta dell’Italia, dove lasciò il piccolo Antonio e convinse Enrica, la sorella di Umberto, a seguirla in Africa per cercare di liberare il fratello. Le due si recarono prima in Tanzania, dove si trovavano la maggior parte dei leader del Frelimo mozambicano in esilio. L’idea era di far intercedere il Frelimo presso l’autorità dello Zambia per far liberare Umberto: giunte a Dar es Saalam, le due romagnole furono ricevute dal generale guerrigliero Chissano, che vent'anni più tardi sarebbe stato il secondo presidente del Mozambico democratico. Marisa racconta che, quando Chissano entrò, Enrica si girò verso di lei con gli occhi fuori dalle orbite ed esclamò: “ Mo Marisa, mo saran tut axè di bel li niger?” (“Marisa, ma saranno tutti così belli i negri ?!).
Chissano diede loro una lettera di raccomandazione e le due partirono alla volta di Lusaka. Giunte al carcere, chiesero di incontrare Umberto Fusaroli. I carcerieri negarono che si trovasse lì. Marisa si scaldò così tanto, col poco inglese che conosceva, da intimorire o intenerire i due soldati di guardia, che la portarono a parlare col direttore del carcere. Nonostante la tragicità della situazione, o forse in sua conseguenza, L’Enrica scoppiò a ridere in faccia all’ufficiale grande e gross perché le sembrava che avesse modi da frocio. Dovette rifugiarsi in bagno per calmare la ridarella, mentre Marisa si spendeva per convincere il soldato a restituire suo marito. Alla fine le portarono a incontrare Umberto, che in tutto quel tempo non aveva avuto contatti dall’esterno e che, vedendo comparire moglie e sorella, svenne sul posto .
All’aeroporto Umberto si dispiacque di dover lasciare in Zambia il suo fucile da caccia, che affidò a un impiegato dell’aeroporto, consapevole che non l’avrebbe mai più visto. Anni dopo Samora Machel, eroe della liberazione mozambicana e primo presidente del Mozambico libero, sarebbe sceso da un aereo proveniente dallo Zambia col fucile di Fusaroli in mano. “Ehi, Fusaroli! Guarda un po’ cos’ho trovato in Zambia!”. Come aveva fatto ? Chi lo sa. Uomini così non ne esistono più, assicura Marisa.        
Una volta in Tanzania, il Frelimo procurò un lavoro come cuoca a Marisa per mantenere sé e il figlio Antonio mentre Umberto diventava a tutti gli effetti guerrigliero del fronte. Indispensabile la sua esperienza come partigiano dei GAP : “dobbiamo essere come pulci sulla pancia dell’elefante”, diceva ai suoi. Intanto, i membri della Frelimo in Tanzania frequentavano il ristorante di Marisa e si facevano passare la paura dei proiettili mangiando le sue tagliatelle.
Nel ’74 la rivoluzione dei garofani in Portogallo mise fine al regime e quindi alla guerra civile: il potere coloniale crollò come un castello di carte. Umberto, Marisa e Samora Machel, trio inseparabile, appresero della fine del colonialismo dalla radio: alla notizia Samora si mise le mani nei capelli e dice: “ Ma come facciamo? Ci mancano i quadri…” .
E così, un’armata brancaleone raffazzonata alla bell’e meglio formò il governo del Mozambico indipendente. Samora primo ministro, un portoghese dissidente diplomato in ragioneria come presidente della Banca centrale, Umberto ministro del Turismo … e dietro le quinte, le tagliatelle e i cappelletti di Marisa. Che, avvolta dai ricordi, di tanto in tanto affonda nella lingua in cui questi ricordi erano parlati: “ per un periodo vivemmo in una Machamba…come si dice in italiano Machamba? Ah sì: fattoria”.   
Il paese era allo sbando. I portoghesi si erano portati via persino le matite. Avevano rubato tutto quello che c’era da rubare, e siccome non potevano portare via i palazzi, avevano colato cemento in tutte le tubature. Ma si era vinta una scommessa con la storia e adesso c’era da ritirare l’ingombrante premio. Toccò a Marisa allestire il primo ricevimento diplomatico del presidente Machel, che durante i preparativi una volta la rimproverò vedendola salire su una scala a pioli: “Scendi subito di lì! Che succede se ti fai male? Che facciamo noi senza di te?”. Quella sera il piccolo Antonio, stanco di aspettare l’inizio della cena di gala, sgattaiolò in cucina e si strafogò di cosce di pollo. Samora lo scoprì, gli porse la mano per stringergliela e disse: “Complimenti: già ti piacciono le gambe!”.
Ripete Marisa: non ce ne son mica più di uomini così . Infatti l’hanno ammazzato. Sì: sul volo 1771 da Lusaka a Maputo, in un giorno di ottobre del 1986. Oggi sappiamo che non fu un incidente imputabile alla vodka bevuta dal pilota russo, come scrissero i media occidentali, ma un sofisticato complotto ideato dal Sudafrica dell’apartheid (che dai suoi confini finanziava la guerriglia fascista della Renamo) con la complicità di alcuni  membri corrotti del governo di Samora.
Per Umberto e Marisa , la morte di Samora fu “un colpo da cui non ci siamo mai più ripresi”, ma non un fulmine a ciel sereno. Pochi anni prima, Umberto aveva lavorato nel controspionaggio sudafricano, facendo il doppio gioco per ottenere preziose informazioni da riferire a Samora. I due sapevano bene che nel governo dilagava la corruzione, e i tentativi di arginarla prendevano sempre più il gusto amaro di una battaglia contro i mulini a vento. “L’ultima volta che l’ho visto, tremava come una foglia” sospira Marisa. Alla loro guerra persa contro i corrotti, comunque, Umberto non rinunciò a combattere in solitario: diventò procuratore anti-mafia e si trasformò nell’incubo di una delle più potenti famiglie mafiose del paese.
E’ per questo che nella primavera del ’91 un commando lo aspettava davanti al cancello di casa per crivellare la sua jeep di pallottole. Tre colpi lo raggiunsero, un proiettile gli sfiorò la giugulare: quando Marisa arrivò in ospedale, lui era così coperto di sangue che gli infermieri dovevano buttargli secchiate d’acqua addosso per trovare i buchi dei proiettili. Nonostante tutto , era ancora cosciente e vedendola esclamò :  “ Cosa urli? La Marisa che conosco io non urla. Corri nel mio ufficio e prendi i documenti della cartella grigia”. In trance, lei ubbidì. Poi tornò in ospedale preparata al peggio. Ma lui era ancora lì,vivo, ricucito e incazzato nero.  Pochi giorni dopo si presentò al suo capezzale un ragazzo, raccontandogli di essere stato assoldato come suo killer ma di essersi rifiutato all’ultimo momento perché una sua cugina aveva lavorato per anni come impiegata nell’ufficio di Fusaroli. Era disposto a denunciare i mandanti. Umberto preparò una conferenza stampa a casa sua: quando arrivarono i giornalisti, lui uscì di casa per andare a prendere il ragazzo che doveva testimoniare. Di nuovo, a un incrocio di Maputo, la sua auto fu crivellata di colpi. Erano passati 45 giorni dall’attentato precedente. Di nuovo, Marisa corse all’ospedale convinta che sia la fine. Ma al suo arrivo Umberto era già fuori pericolo e gli chiese di andare a casa col testimone e di tenere la conferenza stampa al suo posto. Marisa si presentò ai giornalisti comprensibilmente fuori di testa, trascinando  il testimone –leggermente ferito nell’agguato- che diede la sua testimonianza in diretta televisiva.
A questo punto, a Marisa viene da sorridere. Forse ci sono istanti in cui, all’improvviso, si rende conto della grandezza. Forse sta rivedendo la sé stessa di diciassette anni prima a quella conferenza stampa. O quella di trent’anni fa, che accendeva fuochi nella savana di Beira per cucinare cappelletti alla delegazione di Reggio Emilia che portava aiuti via nave al Mozambico socialista di Samora Machel. O ancora prima, scortata dalla polizia della Rhodesia col figlio neonato fra le braccia, espulsa in quanto moglie di un comunista fuggiasco; o con l’Enrica nel carcere di Lusaka, da quel negrone pezzo grosso con la voce da frocio, disposta a tutto per far liberare il suo partigiano eterno .
Accarezza il Chiwawa mestruato, e conclude come se niente fosse : “Comunque, io le storie più incredibili non ce le ho su di me : ce le ho sugli animali. Le cose  che io ho visto fare agli animali…ci vorrebbe un libro”.
Altro che grandi uomini, grandi idee e grandi sogni. A quel sogno, il loro, Umberto e Marisa hanno rinunciato infine nel 1997, tornando a vivere a Bertinoro di Forlì. Così Umberto riassumeva la sua vita: “In vita mia ho vinto tutte le guerre di liberazione che ho combattuto…e perso tutte le paci seguenti”. E’ morto per non aver rispettato la precedenza a un incrocio, a ottantaquattro anni,  il 21 settembre 2007.  

La seconda volta che andai in visita da Marisa Fusaroli Casadei fu dopo il mio ritorno dal Mozambico, a febbraio. Mi alzai che era ancora buio per prendere il treno delle sei, e l’alba sulla campagna emiliana che lentamente si trasformava in romagnola ospitava le case sventrate lungo la ferrovia, simili alle vecchie case coloniche dei portoghesi abbandonate nella savana mozambicana fra Chokwue e Chiqualaquala.
Alla stazione di Forlimpopoli Marisa venne a prendermi con Mohamed , marito marocchino della sua amica marocchina Mojouba. Anni prima, Majouba aveva lavorato come donna delle pulizie per Marisa. Poi aveva trovato un altro lavoro, ma la sua famiglia era rimasta affezionata a Marisa e quando aveva bisogno di un passaggio,era Mohamed che la scarrozzava. “Hanno tre figlie bellissime” dice Marisa mentre risalivamo i tornanti della collina di Bertinoro. Mentre li aspettavo davanti alla stazione, mi lasciai affascinare dalla fabbrica abbandonata sulla sinistra. “Era uno zuccherificio” mi dice Mohamed. “Uno dei più importanti d’Italia. Qualche anno fa, una direttiva dell’unione Europea ha imposto all’italia di chiudere alcuni stabilimenti per diminuire la produzione di zucchero, fra cui questo di Forlimpopoli”.  “Tutti i campi che vedi erano coltivati a barbabietola da zucchero” continua Marisa, con il solito chihuahua che le si arrampica sul collo. “Sono figlia di contadini, contadina nel sangue per sempre. Anche noi coltivavamo barbabietole che dopo il raccolto mio padre portava allo stabilimento”. Mi immagino Marisa cantare fra le piante di barbabietola le melodie che ho sentito nei campi di Chokwue , ma in dialetto romagnolo anziché in shangane.
 “Questo cane non la smette mai di mordicchiarmi” dice del cane. Mohamed commenta: “è perché ti vuole bene”. Mi dà la sensazione di uno scambio di battute che si ripete varie volte al giorno.   
A casa, io mi siedo sulla stessa poltrona dell’altra volta. E’ una giornata di sole che va e viene. Sotto di noi, ai piedi della collina di Bertinoro, comincia l’immensa distesa della pianura padana. Casa nostra, ci piaccia o non ci piaccia. “Mi sono ricordata una cosa” dice sedendosi sulla sua poltrona. “Il padre di Umberto, quello che fu fucilato dai fascisti nel ’43 insieme a suo fratello... Quando aveva solo 9 anni se ne andò in America a lavorare in un cantiere. E sai cosa si costruiva in quel cantiere? Una delle ville della famiglia Rosevelt. Antonio raccontava che il futuro presidente Rosevelt, che ogni tanto passava dal cantiere, invitava il ragazzino  a bere un bicchier d’acqua. Gli diceva lunghe frasi di cui Antonio capiva solo la parola boy, come lo chiamava il Rosevelt. Ma gli sembrava un uomo simpatico.Forse è per questo che Antonio non divenne un anarchico  come suo fratello Gaetano, ma un repubblicano. E Umberto, figlio dell’uno e nipote dell’altro, né anarchico né repubblicano: comunista. Andò in montagna per unirsi alla guerriglia partigiana a diciassette anni non ancora compiuti. Seppe della fucilazione del padre e dello zio con molti giorni di ritardo”. Fa una pausa mentre accarezza il cane. Deve aver sentito tante volte certi racconti da sentirli propri come se li avesse vissuti. “Invece l’Enrica, ti ricordi dell’Enrica, la sorella diUmberto?” Sì, rispondo, “è quella con cui eri andata in Zambia a tirare Umberto fuori dal carcere, e lei aveva avuto una crisi isterica di riso davanti al responsabile ”. Marisa sorride. “Proprio lei. Beh, aveva sedici anni la notte in cui vennero a prendere suo padre. I fascisti lo tirarono giù da letto. L’Enrica si appese alla gamba di suo padre mentre lo portavano fuori. Fu trascinata anche lei fino alla strada. Urlava come una pazza e non mollava. La presero a calci finchè non lasciò la gamba di suo padre, e la lasciarono per terra”.   
Non dico niente. Marisa riprende il filo da un po’ più indietro. “Insomma coi soldi guadagnati in America i fratelli tornarono a Bertinoro all’inizio degli anni ’30 e aprirono un piccolo emporio. Quei negozietti in cui si vendeva di tutto, che adesso non ci sono più.
Dopo aver fucilato Antonio e Gaetano, i fascisti requisirono il negozio. Alle vedove sai cosa restituirono? Una scatola intera di “pagherò”.I poveracci di Bertinoro all’emporio lasciavano conti infiniti da pagare. I Fusaroli non sapevano dir di no a nessuno”.   
Ci spostiamo sul tavolo per sfogliare tre enormi album di foto. Un viaggio nel tempo e nel mondo. Marisa da giovane è stata una donna bellissima. Vacillo un po’ prima di azzardarmi a chiederle: “Ma non ti hanno mai detto che assomigliavi a Sophia Loren?” Lei gongola un po’. “sì, me lo dicevano”, ma poi  si imbarazza e cambia argomento. Mi immagino questa donna bellissima a dirigere la mensa di una raffineria nel sud della Tanzania, dar da mangiare cappelletti a operai e ribelli mozambicani in esilio, impastare e lavare pentole e fare conti e tenere a bada fiumi di avances con le mani sui fianchi e la lingua tagliente e la preoccupazione costante e nascosta per il suo uomo eternemente coinvolto in qualche lotta di liberazione.  
Ci sono anche diverse foto di lei con Samora Machel e la moglie Graça, che oggi è sposata con Nelson Mandela. Ma la foto più divertente ritrae Marisa ridere in compagnia di una bianca piuttosto anziana. “Violet” spiega. “Un’inglese militante del partito comunista sudafricano, in esilio in Tanzania. Era già piuttosto anzianotta quando la conobbi, e un po’ arteriosclerotica, a volte cercava di picchiarmi senza motivo. Secondo me era matta schianta come un banchetto anche senza l’arterioscelerosi. Mi faceva un ridere…”.
 Arriva l’ora di pranzo: mi insegna a fare i passatelli in brodo. Vengono buonissimi. Mi chiede un po’ di me, dei miei viaggi. Nella sua vita di giramondo sui generis, un rimpianto ce l’ha: non esser mai stata in Brasile. “Del resto se andavo in brasile mi innamoravo di un brasiliano e non andava mica bene”. A proposito di Brasile, finiamo di mangiare in tempo per l’inizio della sua telenovela preferita: Terra Nostra, sui migranti italiani nel sud del brasile all’inizio del secolo. Suona il campanello: è Zara, la figlia maggiore di Mohamed e Majouba. Viene sempre a guardare Terra Nostra con Marisa. Ha dieci anni e da grande vuole fare la pediatra.  E’ lei che poi mi accompagna alla fermata dell’autobus per la stazione di Forlimpopoli, ma prima insiste perché passi in tabaccheria a comprare il biglietto.
Mentre l’autobus scende la collina e io guardo i campi dove una volta si coltivava barbabietola,penso a Antonio e Gaetano Fusaroli,ancora ragazzini, migranti in America. Penso a Mohamed che mi spiega le direttive europee sullo zucchero e a Majouba che vuol bene a Marisa perché è stata più amica che datrice di lavoro. Poi penso al decreto legge sulla sicurezza razzista e repressivo sfornato dal governo pochi giorni fa. Ne ho parlato con Marisa. “Marisa, non ti sembra che stiano tornando?”le ho chiesto. Mi ha guardato da un mondo lontano, “Sono già qui” ha mormorato.
Ma in casa sua, dove Zara va e viene per guardare una telenovela, arriveranno troppo tardi.

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