Caro Roberto,
scrivo perchè ho una passione in comune con te: quella di raccontare storie. Nel mio piccolo, da quando ho finito l’università quattro anni fa, non ho quasi fatto altro che girare il mondo alla ricerca di storie da raccontare. Storie individuali e, quindi, storie di popoli interi. Storie piccole che, sviluppate con l’ingranditore nella camera oscura della ragione, diventano la Storia intera, quella dell’umanità.
So che anche tu hai questa bussola innestata da quale parte dentro, e sei infinitamente bravo a seguirla. Sei bravo a raccontare storie, svelare verità nascoste, spogliare gli uomini degli orpelli di cui si conciano per sembrare migliori. Per questo è grande il tuo errore a non averla tenuta d’occhio anche martedì 14 dicembre, quella bussola, e aver preteso che la tua lettura fosse importante comunque, aver preteso di conoscere una Storia indipendente dalle storie. Nell’elevarti a interprete delle lotte di movimento degli ultimi trent’anni hai peccato di presunzione e di giudizio, due peccati mortali per chi vive della passione del racconto. Perchè le storie, quelle di carne e ossa, le hai tralasciate tutte, hai voluto non vederle, le hai relegate nel luogo da cui quelli con la nostra passione dovrebbero tirarle fuori- l’oblio, l’indifferenza; il bianco o nero.
C’è la mia storia, cominciata politicamente a Genova, lo spartiacque della mia vita. Vuoi una storia nella storia? A un certo punto, martedì, si è sparsa in uno spezzone del corteo la voce che la fiducia non fosse passata: scene di giubilo, abbracci, applausi. Durate pochi secondi, il tempo sufficiente a ricordarmi una scena simile di nove anni prima, quando allo stadio Carlini si sparse la voce- subito smentita- che il G8 fosse stato sospeso.
Poco dopo, è giunta la notizia del voto di fiducia a Berlusconi.
Tutti hanno parlato della delusione che ha attraversato il corteo, ma io, contastorie, parlo a te, contastorie, di un altro sentimento: il bisogno romantico di un finale migliore. Sì, io in quel momento ho pensato che era meglio così. Perchè una storia come quella di Berlusconi in Italia non può finire con uno striminzito voto in parlamento, con una pallida condanna scritta da una classe politica un po’ (ma solo un po’) migliore di lui. Ci vuole un finale migliore, lo sai, o questa storia non vorrà ascoltarla nessuno, diventerà nè brutta nè bella, semplicemente squallida. E ci rimarrà come un groppo in gola per generazioni, anche molto tempo che sarà finita, come ho visto succedere in Cile dopo la placida uscita di scena di Pinochet - i cileni non si sono mai ripresi, sai, Roberto? Nell’essere sconfitto solo per un soffio, e nel rimanere in ballo, di fatto, fino alla morte, Pinochet li ha costretti in un rimpianto da cui non usciranno mai.
L’ho capito dalla storia di Clara, trent’anni. Quella di martedì a Roma era la prima manifestazione della sua vita. La sua storia è molto diversa dalla mia, ma anche lei, come me, ha tirato un sospiro di sollievo quando in piazza del Popolo sono cominciati i disordini. Non ha avuto bisogno di strati e strati di militanza e di analisi politiche per sentire- con la sua, di bussole- che se la manifestazione fosse finita in nulla, col mondo intero che ci guardava indignato come da sedici anni a questa parte, un nodo in gola non ce l’avrebbe tolto più nessuno.
E infine l’ho capito dalle storie che non conosco, ma che posso provare a immaginare. Le tante piccole storie che hanno bisogno di una catarsi in questo clima avvilito, così tante che è questo paese intero, ormai, a boccheggiare per il bisogno di catarsi. E se mi dici che spaccare una vetrina o picchiare un finanziere non è certo una catarsi, ti dirò, sono d’accordo con te: ma nell’essere dentro la storia si agisce da esseri umani, si va a tentoni, si improvvisa. Forse persino si esagera. Dici che ogni sasso lanciato è stato un voto in più a Berlusconi: fin troppo facile risponderti che ogni persona rimasta a casa, anzichè scendere in piazza, è un voto in più a Berlusconi.
Perchè io sogno un 14 dicembre in cui ci siano tutti, in cui siamo in così tanti che i carabinieri alzino le mani e ci facciano passare. Operai e stagisti,disoccupati, impiegati e clown, pensionati senza pensione e bimbi senza asilo, italiani vecchi e italiani nuovi. Tutti. Immagino le massaie scendere in piazza con le pentole e farsi strada tra i poliziotti per condurre i loro figli a Montecitorio, a occupare il palazzo della vergogna. Mi immagino,sogno un finale così.
Per una storia che valga la pena di essere raccontata.
venerdì 17 dicembre 2010
lunedì 25 ottobre 2010
Istant-Blue
Ersin e Selen, ventinove anni entrambi, vorrebbero andare in vacanza ad Amsterdam per festeggiare il loro terzo anno insieme, ma il visto viene puntualmente loro negato per le ragioni più disparate. “Non importa che io qui abbia un lavoro ben pagato, mi considerano un potenziale immigrato clandestino”. Ne discutono in un caffè di Istiklal Caddesi, l'arteria pulsante della parte europea e moderna di Istanbul. Se non fosse per l'argomento della conversazione- il problema dei visti per spostarsi in Europa- sembrerebbe davvero di essere in un piacevole bar di Parigi o Barcellona.
Con loro c'è Meltem, 28 anni di cui l'ultimo trascorso a Londra per perfezionare l'inglese, laureata in disegno grafico. “L'ultimo anno della mia vita è stato il primo in cui ho iniziato a sentirmi vecchia” dice. Quanti sono 28 anni a Istanbul, se hai alle spalle una convivenza fallita e ti ritrovi a dover cercare un lavoro da zero?
La loro generazione è la prima che ha cominciato davvero a vivere all'europea. La libertà con cui vivono relazione e sessualità ne è la misura. Per ora Meltem dorme sul divano del fratello, modellista grafico, in un appartamento alle spalle della piazza di Taksim. Anche lui convive da anni e non ha nulla da ridire sulla vita da single della sorella e delle sue relazioni prima del matrimonio. Certo aiuta il fatto che i loro genitori siano liberali di sinistra, lontani dal moralismo islamico ma anche dalla nostalgia per Ataturk, il padre della Turchia moderna. Non è a causa dei suoi genitori che Meltem ha finito per sentirsi un pesce fuori d'acqua a casa propria.
“Così come la Turchia deve trovare una propria strada, che non sia nè la deriva islamista nè la copia carbone dell'occidente, così noi giovani turchi dobbiamo trovare una strada tra il nuovo conservatorismo che si sta diffondendo e l'individualismo sregolato che vediamo nei nostri coetanei europei”.
Parlare della Turchia non è certo parlare di Istanbul, sorta di città-stato che conta in sé tanti strati di storia e di geografia da essere difficilmente collocabile nello spazio e nel tempo. La cui unica scansione collettiva è quella che divide i momenti della giornata grazie al canto dei muezzin dai minareti delle moschee più belle del mondo. Al tramonto, ora della penultima preghiera, i pescatori del ponte di Galata raccolgono la loro attrezzatura per tornare a casa, osservati dagli stormi di cicogne che in questa stagione migrano attraversando il Bosforo. Allora le piazze di Eminonu e Karakoy, sulle due sponde del Corno d'Oro, si affollano delle migliaia di pendolari che aspettano sulle banchine il traghetto su cui sorseggieranno un elma çay, il tè alla mela, mentre rientrano a casa. “Una grande città può farti sentire invisibile e sola anche se ci sei cresciuta dentro, anche se è tua” dice Meltem. “E' quello che succede quando tutti i tuoi coetanei lavorano e non hanno più tempo per incontrarti”, anche perchè l'orario settimanale lavorativo in genere è di 44 ore. “Le tue migliori amiche hanno avuto figli e non riuscite più a vedervi da sole”. Come succede ovunque, con l'aggravante che qui quello delle ragazze che si trasformano in donne felicemente single è un fenomeno piuttosto recente.
Dopo un anno a Londra, una giovane turca si sente una straniera anche in una città che forse in fatto di cosmopolitismo è seconda solo alla capitale britannica. Meltem ci è andata anche per trovare un amico di vecchia data, che ci si è trasferito per vivere in santa pace la propria omosessualità.
Ecco un altra misura di se e quanto Istanbul oggi più che mai rappresenti una cerniera tra Europa e islam. Forse l'outing è più complicato che in nord europa, ma qui si tiene un gay pride ogni anno e dal resto del paese, oltre che da diversi paesi islamici, gay e lesbiche vengono qui a trovare un po' di respiro e, talvolta, trasformarsi in degli attivisti. Del resto, anche se “contraria alla morale”e perciò multabile, l'omossessualità qui non è perseguibile per legge. Hilmi, 25 anni, occhialuta aria da imbranato, è venuto dall'Anatolia: viveva in un paesino in cui dichiarare la propria sessualità lo avrebbe condannato allo stigma a vita. Leggendo nei fondi di caffè turco qualcuno saggiamente l'ha convinto a partire alla volta di E Polis, La Città.
Ma la storia nella storia della sessualità a Istanbul è quella di Demet Demir, cinquant'anni di cui la prima metà da uomo e il resto da donna. Sopracciglia folte, sguardo severo che si addolcisce alla prima battuta, Demet ha smesso di prostituirsi cinque anni fa e medita di tornare a vivere con l'anziana madre che, dopo aver compiuto un pellegrinaggio alla Mecca per ripristinare il senno- e il sesso- del figlio, s'è rassegnata. “Ero una militante di sinistra già negli anni '70, ma per socialisti e comunisti di tutto il mondo all'epoca l'omosessualità era bandita. Figuriamoci in Turchia”.
Entra nel partito Verde Radicale ma nell'88, poco dopo il colpo di Stato dei militari, viene arrestata e rimane in carcere quasi un anno. Si può immaginare cosa significasse essere un transessuale in un carcere turco durante la dittatura militare. “Un eterosessuale non sarebbe sopravvissuto alle torture fisiche e psicologiche che ho superato io”. Uscita dal carcere più agguerrita che mai, negli anni '90 Demet diviene un simbolo della liberazione sessuale quanto mai all'avanguardia per Istanbul, per la Turchia e per tutto il mondo islamico. Nel 1996 è l'unica a resistere stoicamente agli sgomberi forzati della polizia di Ulker Street, la via della prostituzione nel cuore di Beyoglu, in occasione della conferenza Onu Habita III: “Sono rimasta prigioniera in casa per settimane. Mi ci sono barricata con acqua e viveri, da sola. Sono stati i giorni più difficili della mia lotta”. Nella sua vita di prostituta e militante, comunista e transessuale, Demet viene arrestata più di trecento volte, molte delle quali per poche ore, sufficienti ai poliziotti per abusare di lei. “Di notte, al buio, nessuno è veramente musulmano. E la Turchia stenterebbe a credere ai nomi di molti miei clienti abituali”.
Ogni guerra contro i mulini a vento ha anche le sue battaglie vinte: la sua resistenza nella casa di Ulker Street si trasforma in un caso planetario e molti partecipanti alla conferenza ONU vengono a darle sostegno finché la polizia, su ordine del governo, non è costretta a desistere. Il Partito Libertà e Solidarietà allora le propone di candidarsi come consigliere municipale: è, innanzitutto, una storica affermazione all'interno della sinistra turca. Non ottenne il seggio, ma la campagna elettorale e un momento di enorme visibilità per tutto il movimento, e sullo slancio Demet crea la prima Commissione interna al partito sulle libertà sessuali: “In quel periodo ci azzardammo a fare il primo gay pride. In trenta persone. A quello di giugno di quest'anno eravamo seimila”.
La questione dei diritti umani degli omosessuali svela un altro paradosso turco: è stata proprio il mix tra occidentalizzazione e islam a far sorgere le più grosse forme di discriminazione. Sotto l'impero ottomano era largamente tollerata. Oggi la comunità e i movimenti LGBTT sono i più convinti sostenitori dell'entrata della Turchia in Europa, ma, raccolti come comunità nella parte europea, sono molto lontani non solo dal resto del paese profondo, ma anche da quella parte della città- immensa- che non rientra nelle cartoline.
“La parte europea della città ormai è un luogo troppo votato al turismo. Comoda e ricca, ma immune ai cambiamenti. La vera Istanbul, vita notturna compresa, si è spostata a Kadikoy, nella parte asiatica”. A dirlo è Nalan, nata in Bulgaria trenta anni fa e trasferitasi qui con la famiglia nel 1989, all'agognata apertura delle frontiere. “Più che la Turchia...in Europa vorrei entrarci io”. Adora vivere a Istanbul, dove fa la ricercatrice di scienza ambientale, ma rimpiange l'assenza di moralismo della società bulgara. “A scandire la vita della gente, qui, sono le leggi non scritte”. Poche settimane fa una ragazza in minigonna è stata aggredita da una folla di giovani inferociti a Taksim, la piazza nel cuore della Istanbul europea, presunta roccaforte della libertà di costume. Un'altra legge non scritta, secondo Nalan, è il fatto che siano gli uomini a fare e disfare regole che le donne dovrebbero accettare passivamente, anche quando sono manager aziendali.
Lei fa parte di quella sparuta minoranza di ragazze che legge i giornali, si informa. “Temo una deriva islamica del governo Erdogan, anche se non credo che sia dietro l'angolo come qualcuno paventa. Sinceramente credo che questa classe dirigente abbia in mente più che altro di fare i soldi”.
Del resto islamizzare la Turchia non è facile come si potrebbe pensare di un paese in cui il 99% degli abitanti si dichiara musulmano. In tutte le scuole e le università pubbliche le ragazze che portano il velo sono costrette a toglierselo prima di entrare a lezione. Nalan non riesce a credere che in molte scuole italiane ci sia ancora il crocifisso nelle aule: l'ennesima dimostrazione che infondo l'Europa che pretende tante garanzie sui diritti umani alla Turchia, da lei ha anche qualcosa da imparare.
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lunedì 27 settembre 2010
C'era una volta a L'Avana
O forse era Santiago de Cuba, quando a diciott’anni scoprii che fra gli uomini una parte non piccola ha quel fondo viscido.Quando scoprii anche che ci sono luoghi interi da cui faresti sparire tutti, tranne i vecchi, e che se quei vecchi fossero eterni invecchieresti volentieri al cospetto loro e delle loro sigarette senza filtro- le Popular da fumare fino in fondo, ma così fino in fondo che l’ultimo centimetro si fumava tenendolo stretto tra due monetine da un peso per non bruciarsi le dita.
Nella casa particular dove abitavo c’era un manager svedese che viveva a Shangai da sette anni e mi spiegò la crisi economica apocalittica che sarebbe arrivata - si era appena nel 2002. Forse lui pensava che sarebbe arrivata ben prima e s’è giocato qualche anno gratis di ottimismo. D’altra parte ammetteva che nessuna relazione d’amore in vita sua gli era durata più di tre mesi ed io, anche se della vita non avevo proprio nessuna esperienza, pensavo già che infondo possono capitare cose peggiori di una grossa grassa crisi economica.
Proprio di fronte a noi abitava un ragazzo un po’ strabico con un jolly tatuato sull’interno del gomito che fumava canne su canne rollate con la carta dell’elenco telefonico. Ne riforniva mezza città pedalando su una bmx da bambino.
Diventai amica di una ragazza della mia età, che se la faceva con un notaio milanese nauseante e mi portava nelle rare baraccopoli a conoscere il suo vero fidanzato e ci facevamo risate che dopo un po’ mi preoccupavo di quanto stavo ridendo, e imparai a non giudicare chi baratta il proprio corpo con un televisore a colori, non perchè muoia dalla voglia di un televisore a colori, ma perchè muore dalla voglia di essere diverso dal vicino di casa.
Ernesto invece, fidanzato a distanza e a gettoni con una francese di cui a volte non ricordava il nome, mi portava alle feste reggae sui tetti dell’Avana Vieja, e di colpo c’era da chiedersi cosa stesse combinando il mondo fuori da Cuba per non precipitarsi lì su due piedi nudi. Quando tornavamo a casa albeggiava ma il Malecòn, il lungomare più bello del mondo, era ancora infestato di ragazzini che vendevano noccioline e i pensionati avevano già requisito dai giornalai tutte le copie del Granma, il giornale di partito, per rivenderle per la strada al doppio del prezzo e rimpinguare così la magra pensione.
E ogni mattina salivo su un taxi particular, una macchina anni ’50 che faceva un casino tale che non si riusciva a scambiare una parola con gli altri tre passeggeri, e dal Vedado arrivavo in centro e bussavo col sacchetto del pane fresco a casa di Tania, un’anziana maestra che mi rimboccava la grammatica spagnola raccontandomi di quando il Papa era sbarcato a Cuba, e che era rimasta innamorata tutta la vita di uno svizzero comunista che non era mai più tornato a prenderla, e che non aveva paura della morte perchè ne aveva già viste di tutti i colori, e chiamava tutti “mi vida”, anche quelli che le telefonavano perchè avevano sbagliato numero.
E proprio per questo, per farmi chiamare mi vida da sconosciute e sconosciuti, anzichè gli autobus per turisti io prendevo quelli per cubani, anche se a noi stranieri costavano poco meno degli altri e facevano schifo e i sedili erano duri come il 3 Via Kennedy-Quarnaro di quando andavo a scuola.
E conobbi anche una noia e una solitudine tremende, di quelle che non vedi l’ora che arrivino l’ora di pranzo e l’ora di cena, e che la cena si protragga il più possibile verso la notte,e che ci sia un posto vicino a casa per vedere la telenovela per passare mezz'ora, e che il sonno poi non tardi a chiudere la giornata.
E anche quei momenti li riassaporo con una tenerezza e una nostalgia infinite, perchè è così, proprio così, che è iniziato tutto.
Nella casa particular dove abitavo c’era un manager svedese che viveva a Shangai da sette anni e mi spiegò la crisi economica apocalittica che sarebbe arrivata - si era appena nel 2002. Forse lui pensava che sarebbe arrivata ben prima e s’è giocato qualche anno gratis di ottimismo. D’altra parte ammetteva che nessuna relazione d’amore in vita sua gli era durata più di tre mesi ed io, anche se della vita non avevo proprio nessuna esperienza, pensavo già che infondo possono capitare cose peggiori di una grossa grassa crisi economica.
Proprio di fronte a noi abitava un ragazzo un po’ strabico con un jolly tatuato sull’interno del gomito che fumava canne su canne rollate con la carta dell’elenco telefonico. Ne riforniva mezza città pedalando su una bmx da bambino.
Diventai amica di una ragazza della mia età, che se la faceva con un notaio milanese nauseante e mi portava nelle rare baraccopoli a conoscere il suo vero fidanzato e ci facevamo risate che dopo un po’ mi preoccupavo di quanto stavo ridendo, e imparai a non giudicare chi baratta il proprio corpo con un televisore a colori, non perchè muoia dalla voglia di un televisore a colori, ma perchè muore dalla voglia di essere diverso dal vicino di casa.
Ernesto invece, fidanzato a distanza e a gettoni con una francese di cui a volte non ricordava il nome, mi portava alle feste reggae sui tetti dell’Avana Vieja, e di colpo c’era da chiedersi cosa stesse combinando il mondo fuori da Cuba per non precipitarsi lì su due piedi nudi. Quando tornavamo a casa albeggiava ma il Malecòn, il lungomare più bello del mondo, era ancora infestato di ragazzini che vendevano noccioline e i pensionati avevano già requisito dai giornalai tutte le copie del Granma, il giornale di partito, per rivenderle per la strada al doppio del prezzo e rimpinguare così la magra pensione.
E ogni mattina salivo su un taxi particular, una macchina anni ’50 che faceva un casino tale che non si riusciva a scambiare una parola con gli altri tre passeggeri, e dal Vedado arrivavo in centro e bussavo col sacchetto del pane fresco a casa di Tania, un’anziana maestra che mi rimboccava la grammatica spagnola raccontandomi di quando il Papa era sbarcato a Cuba, e che era rimasta innamorata tutta la vita di uno svizzero comunista che non era mai più tornato a prenderla, e che non aveva paura della morte perchè ne aveva già viste di tutti i colori, e chiamava tutti “mi vida”, anche quelli che le telefonavano perchè avevano sbagliato numero.
E proprio per questo, per farmi chiamare mi vida da sconosciute e sconosciuti, anzichè gli autobus per turisti io prendevo quelli per cubani, anche se a noi stranieri costavano poco meno degli altri e facevano schifo e i sedili erano duri come il 3 Via Kennedy-Quarnaro di quando andavo a scuola.
E conobbi anche una noia e una solitudine tremende, di quelle che non vedi l’ora che arrivino l’ora di pranzo e l’ora di cena, e che la cena si protragga il più possibile verso la notte,e che ci sia un posto vicino a casa per vedere la telenovela per passare mezz'ora, e che il sonno poi non tardi a chiudere la giornata.
E anche quei momenti li riassaporo con una tenerezza e una nostalgia infinite, perchè è così, proprio così, che è iniziato tutto.
martedì 7 settembre 2010
Alla frontiera
Al popolo più numeroso e perseguitato della storia:il popolo di quelli che si spostano.
A chi ha saltato il cenale in un modo elegante,e chi l'ha fatto nella maniera più imbranata.
Ai Ruandesi rifugiati in Congo, che non si decidono a tornare a casa perchè quando un ispettore chiede loro da dove vengono non se lo ricordano, e quando chiede loro dove vogliono andare, non se lo ricordano.
Ai Congolesi rifugiati in Congo, che non saprebbero proprio da che parte iniziare a raccontare.
A chi dice che la sua vita è una fuga, ma è pur sempre la sua vita.
A Joseph e Hassan che, dopo aver attraversato a piedi mezzo continente, si sono inventati di essere fratelli e cuciono vestiti da festa in una striminzita stanza di Maputo, senza lamentarsi neanche per sbaglio.
A Elizabeth, la kenyaya che varca una frontiera dopo l'altra, nella speranza che almeno una la renderà libera.
Alle contadine mozambicane che si sono distratte e troppi anni fa hanno lasciato partire i loro uomini per le miniere sudafricane; a quegli uomini, che picconando al muro scavano i ricordi di chi ha picconato prima di loro.
A quelli che sono partiti e a quelli che sono scappati, se qualcuno ha la stravaganza di voler fare due colonne separate.
A Juvenal, che ripara la sua bicicletta sotto al suo baobab, chiedendosi quando Diamantino si stancherà dei soldi dei Musungo e tornerà finalmente a sposare Lucilaide.
Alla sorella di Bukuku, che dopo averlo visto perdere tutte le rivoluzioni possibili, se n'è andata a fare la cassiera a Dubai, e quando finisce il turno va a quel galattico centro commerciale dove si vede la neve finta, che pero'non le piace mai, e delusa mette in una scatola una banconota al giorno per la prossima battaglia di Bukuku.
A quelli che hanno saltato sperando di trovare erba e sono atterrati sulla ghiaia, e da allora vivono sognando il ricordo della loro partenza, o ricordando il sogno che doveva essere il loro approdo. Finchè l'essere stranieri diventa “nè dolore nè fatica nè fastidio, ma semplicemente l'unico modo di essere da qualche parte”.
A quelli che sono venuti in Africa a cercare Moby Dick, e quando si sono rassegnati al fatto che non l'avrebbero mai trovata...hanno continuato a cercarla.
Ai gorilla che, dalla sommità del loro vulcano, osservano questi umani andirivieni e inventano complicate leggende per dargli un senso purchè sia.
All'innata, impareggiabile e struggente capacità degli esseri umani di trovare l'alba dentro all'imbrunire, e di sfruttare la lunga notte che viene dopo per seminare l'orto alla luce imperfetta della luna.
A chi ha saltato il cenale in un modo elegante,e chi l'ha fatto nella maniera più imbranata.
Ai Ruandesi rifugiati in Congo, che non si decidono a tornare a casa perchè quando un ispettore chiede loro da dove vengono non se lo ricordano, e quando chiede loro dove vogliono andare, non se lo ricordano.
Ai Congolesi rifugiati in Congo, che non saprebbero proprio da che parte iniziare a raccontare.
A chi dice che la sua vita è una fuga, ma è pur sempre la sua vita.
A Joseph e Hassan che, dopo aver attraversato a piedi mezzo continente, si sono inventati di essere fratelli e cuciono vestiti da festa in una striminzita stanza di Maputo, senza lamentarsi neanche per sbaglio.
A Elizabeth, la kenyaya che varca una frontiera dopo l'altra, nella speranza che almeno una la renderà libera.
Alle contadine mozambicane che si sono distratte e troppi anni fa hanno lasciato partire i loro uomini per le miniere sudafricane; a quegli uomini, che picconando al muro scavano i ricordi di chi ha picconato prima di loro.
A quelli che sono partiti e a quelli che sono scappati, se qualcuno ha la stravaganza di voler fare due colonne separate.
A Juvenal, che ripara la sua bicicletta sotto al suo baobab, chiedendosi quando Diamantino si stancherà dei soldi dei Musungo e tornerà finalmente a sposare Lucilaide.
Alla sorella di Bukuku, che dopo averlo visto perdere tutte le rivoluzioni possibili, se n'è andata a fare la cassiera a Dubai, e quando finisce il turno va a quel galattico centro commerciale dove si vede la neve finta, che pero'non le piace mai, e delusa mette in una scatola una banconota al giorno per la prossima battaglia di Bukuku.
A quelli che hanno saltato sperando di trovare erba e sono atterrati sulla ghiaia, e da allora vivono sognando il ricordo della loro partenza, o ricordando il sogno che doveva essere il loro approdo. Finchè l'essere stranieri diventa “nè dolore nè fatica nè fastidio, ma semplicemente l'unico modo di essere da qualche parte”.
A quelli che sono venuti in Africa a cercare Moby Dick, e quando si sono rassegnati al fatto che non l'avrebbero mai trovata...hanno continuato a cercarla.
Ai gorilla che, dalla sommità del loro vulcano, osservano questi umani andirivieni e inventano complicate leggende per dargli un senso purchè sia.
All'innata, impareggiabile e struggente capacità degli esseri umani di trovare l'alba dentro all'imbrunire, e di sfruttare la lunga notte che viene dopo per seminare l'orto alla luce imperfetta della luna.
martedì 31 agosto 2010
Mercì pour chanter
I bambini di strada di Ruengheri ti accolgono gonfiando preservativi e strappando l'elastico dalle mutande Unicef per fabbricare fionde che disarmeranno fionde rivali.
Ma sotto ai banani del Rwanda, si sa, l'erba non cresce .
E nella stagione secca una polvere perenne tinge di una trasparenza rossastra le colline di Kigali, e i biciclettari che trasportano passeggeri su improvvisati portapacchi tossiscono polvere e si asciugano il sudore con fazzoletti da lord inglesi. I vecchi ingobbiti da una lunga serie di ricordi ingombranti intanto scrutano il cielo immobile oltre alle spalle dei poliziotti, che sono i più alti di tutti.
Un giorno di fine agosto, però, arriva finalmente la pioggia. La gente esce di casa a prendersene un po' per salutarla, ognuno a modo suo, senza appariscenze- tutti con quella riservatezza che li distingue dal resto del continente.
La lunga siccità anche quest'anno è finita. I canali d'irrigazione finalmente disegnano sorrisi nella terra intorno alle piantagioni di tè (muschio, il tè sembra muschio!) che costeggiano la strada verso il confine con l'Uganda.
E la mattina del giorno dopo, tutti si salutano con un'umore diverso. Non c'è bisogno di chiedersi le novità ( il saluto tradizionale: amakuro?nimesa! Novità?buone!) perchè l'indomani la buona notizia è la stessa per tutti. E' arrivata la pioggia, siamo tutti più vecchi di un anno. Persino la natura. Che si risveglia, puntuale, nell'arco di una notte.
Il giorno dopo la prima pioggia della stagione,questo giorno di euforia collettiva, sonnecchio sull'autobus fra Kigali e Byumba, non ancora del tutto sicura di dove mi trovo. E' allora che succede- come sempre, in qualche modo succede- l'Africa mi accoglie.
La donna sul sedile davanti al mio, la testa appoggiata al finestrino, si mette a cantare una ninna nanna infinita, con una voce che copre il frastuono dell'autobus e i clacson degli altri viandanti. Canta per almeno un'ora di fila, e quasi tutti fermano le loro parole per ascoltarla, o almeno per rispettare chi l'ascolta. O forse sono solo grati che una voce così bella prenda, senza chiedere niente in cambio, il posto delle loro. E mentre cala la sera e sulle colline intorno alla strada si accendono i fuochi dei contadini, io mi sento in mezzo agli indiani d'America prima che fossero spazzati via-addirittura mi sembra di vederli che cantano questa stessa canzone tra fumi e tende. Saranno gli occhi chiusi. Sarà questa orgogliosa malinconia africana che pervade tutto, anche le storture che non si giustificano, anche le sconfitte plateali. Sarà questa ninna nanna e la sua vaga saggezza che cullerebbe qualsiasi essere umano del mondo.
Mercì pour chanter, mormoro, quando il viaggio finisce e riapriamo gli occhi.
martedì 13 luglio 2010
meridiane di meridione
Sembra di camminare su un marciapiede di Kampala, capitale dell’Uganda. Per strada si incrociano solo africani, le insegne dei negozi sono tutti in inglese, intorno all’immondizia che straborda dai cassonetti si formano nugoli di mosche.
Ma non è una strada di Kampala. E’ la Domitiana, strada principale di Castelvolturno, provincia di Caserta. Il comune più africano d’Italia e, contemporaneamente, la cloaca della Campania: qui, la questione rifiuti non si è mai risolta. A mala pena è mai entrata nell’ordine del giorno.
Castelvolturno è salita agli onori della cronaca nel settembre del 2008, quando un commando della Camorra comandato dal sanguinario Setola aprì il fuoco su sette africani fuori da una sala giochi. Era un avvertimento chiaro alla comunità africana, per presentare il potere della Camorra a chi ancora non avesse capito bene dove si trovava. Ma gli africani, di stanza qui come braccianti nei campi coltivati del casertano, si ribellarono all’intimidazione e per due giorni misero a ferro e fuoco la città, chiedendo che i responsabili finissero nelle mani della giustizia. Una lezione di cittadinanza in una delle zone più omertose e fuori controllo d’Italia, e che in cambio ha aperto le porte alla mlitarizzazione della città: polizia e carabinieri, ma anche un paio di jeep dell’esercito che pattugliano la statale Domitiana.
Da allora, Castelvolturno è uno dei simboli dello sfruttamento del lavoro migrante e della complicità mafiosa in Sud Italia. Nonostante Setola- il camorrista mandante della strage-e i suoi siano stati arrestati, basta passeggiare per la città per capire chi comanda, chi ha sempre comandato. Questa è la base della famiglia Coppola, che vi costruì addirittura un quartiere sul mare col proprio nome (il Villaggio Coppola), simbolo dell’abusivismo edilizio, più tardi parzialmente demolito da un sindaco particolarmente coraggioso. Negli anni ’70 e ‘80 Castelvolturno era bel posto di villeggiatura, e potrebbe esserlo ancora: ma oggi la spiaggia è una discarica a cielo aperto- poche settimane fa è stato rinvenuto persino un deposito di amianto- e le seconde case che i napoletani comprarono qui trenta o quarant’anni fa per i week-end al mare oggi sono affittate in nero ai ghanesi e nigeriani che vengono a lavorare nei campi. Per quindici o venti euro al giorno, naturalmente in nero.
“Califu-grounds”è il nome delle rotonde su cui gli africani aspettano dalle prime luci dell’alba un lavoro a giornata. “Califu”, come gli intermediari che in Libia li portavano da una tappa a quella successiva della loro odissea verso l’Europa, talvolta imbrogliandoli, così vengono battezzati anche gli autisti campani che li caricano in macchina verso qualche frutteto, incassando in cambio del trasporto una porzione del loro già magrissimo salario. “A volte poliziotti in borghese si fingono Califus per caricarci in macchina e portarci in questura” racconta Appiah, ghanese, da poco più di un anno in Italia. “L’arma su cui contano è la nostra paura. Per questo è fondamentale che facciamo rete tra noi e che siamo ben consapevoli dei nostri diritti”. Ogni mercoledì pomeriggio all’ex Canapificio, un centro sociale di Caserta, si ritrovano per fare il punto della situazione, organizzare qualcosa di simile a uno sciopero, e soprattutto ascoltare la propria situazione dai volontari dello Sportello Legale. “Abbiamo cercato di aiutare molti a ottenere un permesso di soggiorno con un escamotage: rientrare nella sanatoria del settembre scorso per assistenti domestici. Ma molte volte il tentativo non è andato a buon fine per la scarsa collaborazione del presunto datore di lavoro. Anche quelli in buona fede sono stati intimiditi dalle nuove leggi contro il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” spiega Mimma, attivista del Centro Sociale. E aggiunge: “Eppure se non fosse per gli africani, l’economia di questa zona sarebbe completamente crollata. Senza di loro non si raccoglierebbe più la frutta nei campi, e le seconde case dei napoletani a Castelvolturno sarebbero rimaste vuote”.
Ma ora nuovi interessi gravitano intorno alla città; e come sempre, dietro a grandi progetti edilizi c’è la Camorra. “Di qui sono di stanza i Casalesi, la mafia del Mattone”spiega Filippo, un comboniano in missione qui “Presto si capirà se nella strategia della Camorra gli immigrati possono restare a raccogliere la frutta o bisogna liberarsene per permettere a Castelvolturno di diventare un polo turistico”. Sono già stati stanziati miliardi per cambiare i connotati alla darsena della città e per creare un porto da cui far partire i traghetti verso le isole. Se le quotazioni marine di Castelvolturno dovessero salire, c’è da scommettere che mafia e politica troveranno presto il modo di liberare le case e le strade della città dalle migliaia di lavoratori africani.
Destinazione Rosarno
Qual è il destino di un immigrato, tanto più se clandestino, in Italia? Sempre quello di fare la spola tra un’opportunità di lavoro e l’altra. Sperando di non pestare piedi invisibili come è successo qualche centinaio di chilometri più a sud di Castelvolturno, a Rosarno, nell’ultima fetta tirrenica della Calabria. Un nome che tutta Italia ha visto rimbalzare sui titoli dei giornali nel gennaio scorso, quando è esplosa la rivolta dei braccianti africani della raccolta delle arance, esausti della violenza e delle vessazioni dei giovani rosarnesi, che il 6 gennaio ferirono due di loro sparando con fucili ad aria compressa.
La vicenda finì con la deportazione di un centinaio di lavoratori clandestini verso i più vicini CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) e la fuga di quasi tutti i regolari, spaventati dal clima d’odio e dalla presenza massiccia della polizia. “Erano quindici anni che c’era questo problema di persone costrette a vivere come bestie”spiega il parroco Don Memè. “Ma il ministero dell’Interno, anziché occuparsene, ha lasciato, o voluto, che scoppiasse il pandemonio per poi mostrare la mano pesante. A mio parere anche il casus belli è stato creato ad arte”. Oggi, tre mesi dopo i disordini, molti africani sono tornati. Non si accampano più nella Rognetta, l’ex fabbrica in cui si erano rifugiati durante il pogrom di gennaio, poi rasa al suolo dalle autorità. Alcuni vivono più stretti che possono in qualche casa in affitto, moltissimi nei casolari dei datori di lavoro, o sotto qualche albero nei campi di raccolta. Sono tornati perché altrove non hanno trovato lavoro nemmeno per i venti euro al giorno che vengono loro offerti qui. Ecco qual è, in fondo, il destino di un migrante: quello di non avere alternative. Di tornare nella bocca del leone per avere qualcosa con cui riempire la sua. Ora tutti qui a Rosarno si affrettano a dire che la ‘Ndrangheta non c’entrava. Che l’organizzazione mafiosa più potente del mondo non si interessa certo di qualche migliaio di arance raccolte per poche lire. Chissà. Certo è difficile credere che non abbia nulla a che fare col modo in cui è stata gestita la vicenda, coi ragazzini armati di fucili ad aria compressa e spediti a provocare i braccianti, che quest’anno, a causa la crisi delle fabbriche del nord, erano diventati troppi: quasi tremila. E in questo lembo di terra, dalle cui colline è ben visibile il porto di Gioia Tauro- lo scalo marittimo per eccellenza della ‘Ndrangheta, la sensazione è che nulla si muova senza il consenso della mafia, che quando non opera per raccogliere capitali lo fa per agglutinare consenso, per serrare le fila. La gente si stava stancando di tanti africani per la strada? Togliamo di mezzo quelli di troppo; gli altri torneranno.
Granelli di sabbia in un ingranaggio invisibile
Ecco perché è così difficile- in fin dei conti eversivo di un ordine secolare- creare un’alternativa. Lo sanno quelli del Consorzio Goel, un insieme di cooperative basate nella Locride, a un tiro di schioppo da Rosarno e Gioia Tauro, dall’altra parte dell’Aspromonte, sulla costa Ionica. “Noi non entriamo in tutti i settori dell’economia da cui capiamo di potere trarre vantaggio materiale”spiega Vincenzo Linarello, presidente di Goel. “Bensì in quelli strategicamente utili all’Ndrangheta, per mostrare che fare le cose eticamente non solo è più giusto,ma funziona meglio”. Dalla moda all’agricoltura, dall’inserimento lavorativo di disabili ai collettivi di artisti. E, ultimamente, persino all’erogazione di servizi: il progetto di welfare comunitario “Aiutamondi”, partito recentemente con finanziamenti della Fondazione Sud, è un’avanguardia assai interessante per un territorio come questo. “Abbiamo iniziato proponendo a un campione delle domande su cosa mancava più di tutto nella zona, in termini di servizi”, spiega Emanuela, direttrice del Consorzio “e abbiamo ottenuto qualche sorpresa: la gente chiedeva soprattutto tutela legale rispetto all’amministrazione pubblica e l’accesso a iniziative culturali, come la possibilità di frequentare gratuitamente corsi di teatro e musica”. L’idea è di far incontrare due carenze che da queste parti creano un circolo vizioso: quella di servizi e quella di occupazione. “In Aiutamondi (in dialetto “aiutiamoci”), la gente paga il servizio di cui è utente con ciò che ha ma non riesce a mettere sul mercato: può essere una cassetta di frutta come la sua competenza di muratore, o di avvocato”. Presto, con l’aiuto delle associazioni di categoria, verrà creato un tariffario per stabilire il metro di pagamento di ogni servizio a cambio di una prestazione professionale. “Quello dell’Ndrangheta è un preciso sistema che si basa sulla precarietà e quindi sulla dipendenza” dice Vincenzo. “La gente confonde i diritti con favori da ricambiare col voto”. Per spezzare questa catena, una serie di cooperative si sono unite sette anni fa in consorzio per inserire lo strumento dell’impresa sociale nella lotta contro la mafia e le massonerie deviate. Dal 2005, anno nero dell’omicidio del vicepresidente regionale Fortugno, e di una recrudescenza di attacchi e intimidazioni a danno di tutta la società civile a opera dell’Ndrangheta, il Consorzio lancia l’idea dell’Alleanza per la Locride e la Calabria: un appello a tutta Italia per fare rete, in primo luogo d’informazione e solidarietà. E che ha ricevuto adesioni oltre ogni aspettativa. “Così, a partire dal 2006, la rete si attiva in tutto il paese a ogni intimidazione. E gli attacchi hanno cambiato natura: ora, attraverso il controllo dei media locali e il beneplacito di molte istituzioni colluse, si cerca di screditarci con campagne diffamatorie condotte ad arte”.
Contare sulla risonanza solidale nel resto d’Italia è linfa vitale anche per chi dall’altra parte dello Stretto di Messina cerca di fare terra bruciata intorno a mafia e sfruttamento. Altri esempi luminosi di ostinati Davide contro giganti Golia. A Cassabile, nel Siracusano, questa è la stagione della patata e, di nuovo, dello sfruttamento del lavoro migrante; anche qui, il problema a monte è quello del bassissimo prezzo pagato agli agricoltori diretti, e della speculazione degli intermediari, spesso legati a Cosa Nostra. La Rete Antirazzista Siciliana ha tirato fuori dal cilindro una proposta per i medio-piccoli agricoltori: la campagna si chiama “Io non assumo in nero” e propone agli imprenditori che assumono regolarmente i braccianti di entrare in un circuito di vendita “etico”, i Gruppi di Acquisto Solidale sparsi in tutta Italia, con tanto di trasporti assicurati da un’impresa di camion confiscata alla mafia.
E se davvero l’unica alternativa praticabile fosse quella di creare un marchio ad hoc per i prodotti “etici”? Ne sa qualcosa Libera Sicilia, la famosa associazione creata da Don Ciotti per creare lavoro e produzione etica nei terreni confiscati alla mafia. Nella Piana degli Albanesi, nel Palermitano, a pochi passi dallo spiazzo di Portella delle Ginestre dove si consumò il massacro del primo maggio 1947, sorgono le cooperative Placido Rizzotto e Pio La Torre, affiliate a Libera. “Sono felice perché non ho dovuto lasciare la mia terra” dice Salvatore, presidente della Pio la Torre. “Ero disoccupato quando ho sentito parlare del concorso per diventare socio della cooperativa che poi avrebbe avuto in appalto la gestione dei terreni di Cosa Nostra confiscati nella Piana. Non ero neppure un militante antimafia: lo sono diventato negli ultimi anni”. Da quando il percorso già difficile delle cooperative ha cominciato a incappare in troppi, misteriosi incidenti di percorso: terreni bruciati, macchinari sabotati… “Noi, in queste terre, non cominciamo da zero. Ma da sottozero”.
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lunedì 22 marzo 2010
Rio de janeiro senza favelas
Rumori di una favela di Rio de Janeiro. Le pedine del domino che vengono schiaffate sul tavolo da due anziani. Un altoparlante appeso all’angolo di un vicolo che trasmette le minacce apocalattiche di un predicatore evangelico. Lo sferragliare del Bondie, la funicolare che si arrampica sulla collina, il morro, per portare a casa anche gli abitanti delle case più in alto, più inaccessibili e più povere- ma quelle con la vista migliore sulla baia.
Dona Marta è una delle più storiche favelas della città. Popola dalla prima metà del secolo scorso un morro all’interno di Botafogo, uno dei quartieri chic di Rio, e che insieme a Copacabana, Ipanema e Leblon forma la cosiddetta zona sud, quella abitata dalla classe media e ricca carioca. “Vivo da cinquant’anni nella zona migliore di Rio” si vanta Elisvaldo, un carpentiere che all’ora del tramonto si avvia verso casa per la stretta salita che taglia Dona Marta. Ben diversa la condizione dei suoi colleghi favelados che abitano la zona nord, uno sterminato complesso di favelas lontano dal cuore ricco della city, dai suoi trasporti e servizi che funzionano, dalle sue innumerevoli opportunità di lavoro.
Ma si può scommettere che nel giro di qualche anno Elisvaldo e tanti altri abitanti di Dona Marta andranno ad ingrossare le fila della desolata Zona Nord. Probabilmente entro il biennio d’oro 2014 – 2016, quando Rio ospiterà prima i mondiali di calcio in Brasile e poi –nientemeno- le olimpiadi. Prima di questi due avvenimenti la città che splende e che conta deve liberarsi dalle sua favelas troppo in vista e dalla reputazione che le circonda: narcotraffico e sparatorie. Come riuscirci?
Le incursioni di guerra del Bope, il battaglione reso famoso dal film Tropa de Elite, lasciavano sull’asfalto cadaveri più o meno coinvolti col narcotraffico, che comunque trova un bacino potenzialmente infinito in questi luoghi dimenticati dall’arricchimento del paese. E con l’affermazione di Rio come città ospite delle Olimpiadi 2016, si è capito definitivamente che non c’era il tempo di prendere il narcotraffico con le cattive. E agli interventi del Bope sono subentrati quelli della “Policia Pacificadora”, un corpo che entra nelle favelas e le occupa fino alla completa ‘scomparsa dei bandidos’. Stavolta, stranamente, senza resistenza opposta dai miliziani, senza spargimenti di sangue. E stranamente, in ben otto casi su dieci, in favelas della Zona sud
-Non è la prima volta che il governo fa un accordo di “pace armata” con una delle fazioni coinvolte nello spaccio di droga- spiega l’avvocato Joao Tancredo, presidente della Commissione Diritti Umani dell’ordine dei giurisi carioca. “Ci aveva già provato il presidente Alencar all’inizio degli anni ’90, con il divieto alla polizia di entrare nelle favelas di notte. E basta avere qualche coordinata di Rio per notare che tutte le zone in cui ora c’è la Policia Pacificadora erano, sono, quelle sotto il controllo del Comando Vermelho”. Che, secondo l’avvocato, avrebbe accettato di diminuire l’uso e la distribuzione di armi a patto che gli venga garantita la gestione dello spaccio, a sua volta in vista degli affari d’oro che si profilano nei prossimi anni. “La presenza della Policia Pacificadora, più che altro, diventa una garanzia del fatto che una fazione rivale non cerchi di entrare nella favela”.
Questo corpo di polizia, copiato da una strategia adottata qualche anno fa a Bogotà- e che aveva visto sì diminuire la criminalità, ma solo sul breve periodo - non è l’unica novità per gli abitanti delle favela della zona sud , che contano centinaia di migliaia di abitanti: a preparare l’esodo degli attuali abitanti partecipano anche la regolarizzazione fondiaria delle favelas e dei servizi di base, in particolare luce e acqua: progetto pilota la stessa Dona Marta, la prima a ricevere la Policia.
Il riconoscimento di ogni abitante come proprietario regolare di una casa- e quindi soprattutto di un pezzetto di terreno – è stata giustamente salutata con favore dei favelados. Ma non è che il primo passo di un’enorme speculazione immobiliare che, lungimirante, punta a mettere le mani sui morros meglio localizzati e chegodono delle viste migliori della città.
Rio de Janeiro è una città che non può più espandersi, stretta com’è tra la foresta della Tijuca e la Baia di Guanabara. Specialmente la sua zona più ambita, quella delle spiagge meridionali che guardano le acrobazie dei surfisti e l’alba sul famoso Pao deAzucar, non hanno più un metro edificabile. Ecco perché la pressione sulle favelas, aumentata esponenzialmente negli ultimi mesi: riconoscere un titolo fondiario agli abitanti significa mettere quei terreni e quelle case sul mercato. Comprandole, gli speculatori potranno poi costruirvi mansioni da rivendere a cinquanta volte tanto. “Per la prima volta, quest’anno degli stranieri hanno comprato una casa nella parte bassa di Dona Marta. Per ora la usano solo durante il Carnevale”, aggiunge Elisvaldo.
Ma come convincere in massa gli antichi abitanti a cederle?
“Semplice: con la regolarizzazione di acqua, gas, luce elettrica”spiega Cecilia di Justiça Global, una ONG che si occupa di distribuzione delle risorse. A ruota della Policia Pacificadora, infatti, entra la LIGHT, una concessionaria di servizi elettrici che impianta un nuovo sistema di erogazione dove prima quasi tutti erano allacciati abusivamente: quasi impossibile per un favelado sostenere i costi di una bolletta ai prezzi della zona sud della cidade maravilhosa. “Ho dovuto già licenziare due dipendenti, presto immagino che dovrò chiudere” spiega Marcelo Martins, il panettiere di Dona Marta. “Ho aumentato di poco il prezzo del pane, ma non basta a equilibrare costi e benefici. E se aumento ancota il prezzo, la gente di qui non potrà più permetterselo”.
Aumentano elettricità, acqua e pane. Molte volte questi rincari attingono dalle tasche di disoccupati a cui contemporaneamente vengono offerte alcune decine di migliaia di euro per vendere la casa e andarsene altrove, presumibilmente nella zona nord della città. “Sono già in molti a pensare di andarsene” conferma Sebastiào, un’abitante della zona alta, la più povera della favela, e a cui è stata già staccata la luce per non aver pagato in tempo. Peggio ancora sarà quando entrerà in vigore il nuovo sistema dell’acqua, con un contatore prepagato che smette di erogare acqua se non lo si ricarica.
Dona Marta e le altre favelas della zona sud, grazie a regolarizzazione di case e servizi, diventeranno nei prossimi anni zone migliori. Ma non per le stesse persone.
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giovedì 11 marzo 2010
curve pauliste
San Paolo non è una città per ex fumatori. Il grigio con cui è forgiata esenta i viziati di ogni ordine ed età che, appena possono, con un pacchetto in una mano e un accendino nell'altra, danno il loro piccolo personale contributo all'inquinamento della megalopoli, espirando voluttuose volute e infarcendo d'invidia non solo chiunque abbia acceso una sigaretta in vita sua, ma anche chi vi abbia mai anche solo fantasticato, succhiando il fondo delle matite da bambino.
Naturalmente San Paolo è molto più del suo grigiume. San Paolo è molto perchè è qualcosa di tutto. Viene il dubbio che ci siano più cose a San Paolo che in cielo e in terra. Ci si potrebbe sbizzarrire a farsi venire una voglia che non possa essere soddisfatta all'ombra di qualcuno dei suoi palazzi; se ne uscirebbe comunque rimborsati.
Jandira
E tutto sommato, complice la tentazione di accendersi una sigaretta alla faccia di tutto, non è così male camminarla, essere urtata dai suoi passanti, sentirsi comprata dai suoi negozi, chiederle per favore un po' di verde, trovarlo in qualche piazza improvvisamente tropicale; perdersi nel dedalo della sua metropolitana, consolarsi con un sacchettino di paes de quiejo in miniatura (otto per novantanove centesimi!) pronunciare a mezza voce i nomi, quasi tutti tronchi, delle sue stazioni. Non è male anche perchè è cosa saputa che poi da una delle maggiori, Barra Funda - molto meno inquietante del nome che si ritrova- si prende il treno per Jandira, un municipio da cui vive e lavora da vent'anni padre Giancarlo- un prete padovano che ha avuto la vita strettamente intrecciata non solo alle sorti del Brasile... ma anche a quelle di Reggio Emilia.
Di tutte le rivoluzioni a cui ha partecipato in vent'anni di periferia brasiliana e che mi racconta in ordine sparso, quella che vorrei qui raccontare è solo la più recente.
La Comuna Urbana
I venditori ambulanti che distribuivano per qualche spicciolo sigarette e caramelle sulla linea ferroviaria Barra Funda-Itapevì misero gli occhi su una porzione di terra libera da case, che separava la ferrovia dal torrente, nel municipio di Jandira. Si misero insieme e la occuparono, dandole un nome che non avrebbe portato troppo fortuna. Vila Esperança.
Arrivarono centinaia di nuovi occupanti in pochi mesi. La favela si arrampicava sulle sponde di un torrente di città, di quelli che a ogni pioggia si gonfiano e allagano tutte le baracche portandosi via le più fragili. Era un aspetto cui al momento dell'occupazione nessuno aveva pensato. Dopo la prima piena si ritrovarono tutti a dormire sul tetto della stazione dei treni, e così fu per anni, a ogni pioggia torrenziale di quelle che periodicamente funestano Sao Paolo. Perciò, ogni volta che sentiva la pioggia bussare alla finestra, Gianchi si metteva gli stivali di gomma e scendeva alla favela per andare a tirare fuori, letteralmente, la gente dall'acqua, e accogliere almeno anziani e bambini nel capannone che faceva allo stesso tempo da asilo, da chiesa e da assembleario della comunità. Finchè il sole non tornava a seccare il fango e a far riaffiorare le bambole, sulla testa delle quali si tornava a costruire un tetto per l'ennesima volta.
La vera calamità per Vila Esperança non fu la vicinanza del fiume,ma l'ingresso del narcotraffico e, con lui, di un autentico arsenale di guerra distribuito tra le due fazioni che presto si crearono per il controllo dello spaccio di droga. “Io abitavo nel mezzo, in una zona non controllata definitivamente dagli uni nè dagli altri” mi ha raccontato Mainha, che cresce sette nipoti nella sua baracca dopo aver cresciuto sette figli, dei quali alcuni sono morti complice alcool e il narcotraffico. “Abbiamo vissuto per anni schivando pallottole vaganti. Una volta sono tornata a casa dal mercato e ho trovato un bandito che, per scappare ai rivali o alla polizia, mi si era nascosto sotto al letto”. Erano tre o quattro la settimana i cadaveri che, buttati nel torrente, si incastravano nelle palafitte più in basso. Le due fazioni del narcotraffico, protagoniste di una carneficina senza quartiere, trovarono un accordo solo su due cose: pagare la dovuta propina alla polizia per stare alla larga, e proibire a Giancarlo di andare a tenere la messa nella favela e di predicare contro di loro, convincendo gli abitanti a lottare per il diritto a un pezzo di terra in condizioni migliori e libero dal narcotraffico.
Tutto sembrava destinato a restare così a tempo indeterminato: le piene del fiume. Le pallottole vaganti. La droga. La precarietà. Ma un nuovo personaggio era destinato a entrare nella storia.
Rejeanie
Rejeanie è una donna tra i trenta o i quarant'anni. Non è bellissima, eppure se un regista volesse girare un film sulla sua storia, dovrebbe scegliere per interpretarla qualcuna un po' all'Angelina Jolie. Mi viene incontro per raccontarmi 'la sua versione dei fatti' in un giorno di pioggia, al cantiere dove sorgerà la nuova Comuna Urbana. Capelli lunghi e fradici, braghe militari, camminata da uomo. Zigomi pronunciati, sorriso inaspettatamente fragile. Quattro figlie a carico. Un marito in galera. Alle spalle tredici anni da tenente del PCC, il Primero Comando da Capital, la mafia più potente di Sao Paulo. E un presente da militante dei Sem Terra e da leader comunitaria.
“Io non ero un abitante di Vila Esperança. Frequentavo la favela solo per organizzare il lavoro dei nostri spacciatori, anche se nessuna delle fazioni che si scannavano là dentro era affiliata al Comando. Non importava: nessuno avrebbe provato a metterci i bastoni tra le ruote.Fra un affare e l'altro, diventai amica di una donna della favela. E' inutile spiegare perchè e come due donne diventano amiche. Attraverso i suoi occhi vidi la violenza di ogni giorno, la paura, la peggiore delle torture. Così, convinsi i miei superiori a comprare la favela. Semplicemente, la comprammo alle due fazioni e le mandammo via. E io mi ci trasferii.
Fine delle pallottole vaganti. Il Comando aveva il controllo assoluto e, così, garantiva la sicurezza a tutti. Pian piano, la gente cominciò a chiedermi quello che desiderava, e una delle cose era il ritorno di questo padre Giancarlo. Andai a casa sua, gli dissi che ero del Comando, e che la gente voleva che tornasse a dire la messa. E che noi non avevamo niente in contrario. Lui si grattò la barba, cercando di capire se era una trappola. Alle fine disse: d'accordo, dì a tutti che domenica sarò lì. Non mancò nessuno”.
Gianchi naturalmente non si accontentò di tornare a celebrar messa. Bisognava guardare avanti, riallacciare la corrente della lotta per una vita libera dal narcotraffico. Si fece vivo con l'MST, il movimento dei sem terra che sentiva vicino da sempre e con cui collaborava già per altre comunità, e con loro iniziò la lotta di Vila Esperança per il diritto a una casa dignitosa. Elaborarono un progetto per farsi finanziare la costruzione di un nuovo quartiere alla periferia della città, nel quadro di un programma del governo Lula. Ma il regolamento per chi avesse voluto avanzare la richiesta era chiaro: niente spaccio e niente armi. Sarebbe stata, e sarà, la prima Comuna Urbana del Movimento dei Sem Terra.
La favela si ruppe. Da una parte chi seguiva il prete e l'MST, dall'altra chi dava a ragione a Rejeanie: “Io dicevo, niente cazzate. Non esistono favelas senza il narcotraffico. E' meglio stabilire da subito chi comanderà ed evitare stragi”. I due diventarono acerrimi avversari nella guerra per il futuro di Vila Esperança.
E poi, la vita di Rejeanie iniziò a cambiare. Così dice. O forse fu lei a cambiare, e la vita cambiò con lei.
Si accorse che ogni volta che metteva piede fuori dalla favela, doveva corrompere la polizia per fare qualche metro. Che questo succedeva regolarmente davanti agli occhi delle sue bambine, che stavano diventando ragazze. Che forse avrebbe partecipato ai funerali dei loro fidanzatini, ammazzati da qualche pallottola del narcotraffico o dal crack che lei faceva circolare. Poi, anche se lei era sempre riuscita a maneggiare droga senza usarla, non era sicura che loro avrebbero saputo fare lo stesso.
Si rese conto che forse molte famiglie sarebbero riuscite a entrare nel nuovo progetto, e la favela sarebbe scomparsa, e lei sarebbe finita semplicemente a fare la stessa cosa altrove, pedina di una gerarchia che, infondo, non le interessava scalare.
E poi c'erano i discorsi dei Sem Terra. Doveva remare contro di loro ma, ascoltandoli, una parte di lei cominciò ad allentare la resistenza a quella corrente, a quella esperança.
“Che bisogna fare per passare dalla sua parte?” chiese un giorno a Gianchi, col suo solito modo indifferente, da dura, sorprendendolo alla fine di una riunione. Come se fosse una donna tra le tante. Ma sapevano entrambi che un cambiamento di fronte della Rejeanie avrebbe rotto l'impasse.
Il giorno dopo affidò a un corriere il messaggio: fai sapere agli alti gradi del Comando che voglio uscire, costi quel che costi. In genere dentro al traffico si rimane fino a quando...fino a quando. Ma siccome era una donna e, a quanto pareva, qualcuno dall'interno la teneva in grande considerazione, non la condannarono a morte, bensì a pagare fino all'ultimo spicciolo che aveva. Per cui Rejeanie, la regina della favela, la Cleopatra di Vila Esperança, si ritrovò miserabile tra i poveri.
Però ha un lavoro, nella cooperativa che sta costruendo la nuova Comuna Urbana. Il suo lavoro consiste nel costruire la casa in cui, a partire da ottobre, abiterà con le sue figlie, al posto della baracca di plastica e lamiera di oggi. Lavora con ogni tempo e temperatura, tanto che la gente della favela l'ha eletta fra i coordinatori del progetto. E una volta che il quartiere sarà vivo e abitato, avrà un altro impiego, stavolta nella Panetteria Comunitaria. Non solo: “già per il prossimo carnevale le mie ragazze faranno sbavare i maschi sculettando nell' Unidos da Lona Preta”, la scuola di samba della favela.
“Cammino ogni giorno su un muro, indecisa su da che parte lasciarmi cadere” ammette, a modo suo tranquilla. “Non fingo di essere un'eroina del bene. Sapevo di avere davanti, in un modo o nell'altro, un sacrificio. Ho scelto questo. So anche che non passerò mai inosservata, e che per molti rimarrò sempre una tenente del Comando, perciò forse tanto varrebbe tornare a esserlo. Invece sono di nuovo al fronte, ma come Sem Terra”.
Il destino di certe persone è di essere davanti, sempre davanti. Nel bene e nel male.
sabato 27 febbraio 2010
L'Amazzonia che non scuoce
E' il cuore dell'America del Sud, la congiunzione dell'Amazzonia di tre paesi: Bolivia, Perù e Brasile. Porto Velho, capitale della Rondonia: arrivava qui la ferrovia proveniente dalla Bolivia che gli inglesi costruirono in cambio della cessione dell'Acre al Brasile, alle fine della guerra Araguaia del 1910. Oggi il trasporto su strada ha soppiantato quello su binari, ma lo scopo è sempre lo stesso: imbarcare materie prima sul fiume Madeira, che nasce sulla Ande boliviane e costeggia Porto Velho per sfociare nel Rio delle Amazzoni, sul quale i carichi navigheranno fino a Belèm e da lì oltreoceano.
Anche la natura del carico è cambiata nel tempo. I minerali della Bolivia hanno lasciato il posto alla gomma dell'albero di seringa e al legno pregiato da inviare nel nord del mondo.
Ma il via vai non è mai stato intenso come per il carico del nuovo millennio. La BR 364, strada statale che congiunge la Rondonia al sudest del paese, è una via vai di camion da lunedì a lunedì. Pare ne arrivino circa milletrecento al giorno: trasportano quasi tutti soia. La piantina alta meno di mezzo metro che ha già reso deserti verdi il Mato grosso e il Mato grosso do Sul, i due stati che più si sono votati alla monocoltivazione intensiva per la produzione del boidiesel. Sarebbe un tragitto più breve dirigerli verso est, e imbarcarli dal porto di Niteroi o dallo Stato di Sao Paulo. Ma la transamazzonica fluviale è decisamente meno costosa: il Brasile ha reso la propria parte di foresta una rampa di lancia per l'export. Pur di seguire questo percorso, alcuni camionisti aspettano tre giorni per poter finalmente scaricare la soia su una chiatta diretta a Belèm. Intanto, ammazzano il tempo in questa città asfissiante e senza molto da dire, senz'anima come tutte le città cresciute vorticosamente intorno a un business che devasta il contesto in cui si sviluppa. Porto Velho non è altro che un'appendice storpia del business rappresentato dal suo fiume. Tant'è vero che ne sta essendo schiacciata: presto il porto non sarà più l'unica ragione dell'andirivieni in città.
Se in pochi anni la città è passata da cinquecentomila a un milione e mezzo di abitanti, è per la costruzione di un opera faraonica di produzione di energia idroelettrica sul fiume Madeira, nientemeno che il maggior affluente del Rio delle Amazzoni. Che si è già trasformato in un enorme cantiere: sconfitta l'opposizione di movimenti sociali e comunità di base, si concretizza il Complexo Rio Madeira, un faraonico progetto all'interno dell'Integrazione di Infra Struttura Regionale Sud Americana IIRSA. Quattro centrali idroelettriche, di cui due in Brasile, uno in Bolivia e una quarta binazionale per un totale di seimila Megawatt prodotti; due laghi artificiali in corrispondenza delle centrali brasiliane, una linea di trasmissione energetica fino a San Paolo, un'autostrada (promette la compagnia Oderbrecht, che guida il consorzio dei costruttori) che perforerà le Ande diretta ai porti del Perù sull'oceano Pacifico. Un costo di cinquanta miliardi di euro, quasi tutti di denaro pubblico (il principale finanziatore è il BNDES). Ma mentre le imprese che compongono il consorzio avranno l'energia disponibile a prezzo di costo, quella che rivenderanno al pubblico sarà a prezzo di mercato, con un lucro inestimabile e destinato a lievitare negli anni. “La battaglia contro la realizzazione del Progetto è stata persa” ammette Orcelio del movimento dei danneggiati dalle dighe (MaB). “Ora bisogna combattere quella per il diritto a giuste indennizzi”. Chi è in contrattazione con le piccole comunità che verranno sommerse dopo la costruzione delle dighe, però, sono le stesse imprese (come la franco-belga Suez Tractebel), che propongono aut-aut inaccettabili e costruiscono in alternativa le cosiddette “agrovilas”, quartieri dormitorio lontani dal fiume di cui i riberinhos erano abituati a vivere. Come Mutumparanà, una comunità di pescatori e garimpeiros (i cercatori di minerali sul letto del fiume) che vivono in palafitte sulla riva del fiume duecento chilometri a ovest di Porto Velho. E che, accettino o no gli indennizzi, saranno sommersi nel giro di due anni. Così le decine di comunità di indigeni Caripuna e Caritiana, alcune delle quali vivono senza aver avuto contatti con la nostra civiltà.
Al di là delle migliaia di ribeirinhos minacciati dalla costruzione delle dighe, il Complexo Rio Madeira rappresenta in toto l'applicazione di un modello che mette a repentaglio l'intero biosistema amazzonico: ecco perchè nella primavera del 2008 ha provocato le dimissioni di Marina Silva, la compagna di lotte di Chico Mendes, acriana come lui e ministra dell'Ambiente dal primo governo Lula, e che si candiderà col Partito Verde alle presidenziali di ottobre.
Del resto, per mantenere il ritmo di crescita accelerata mantenuta negli ultimi anni, il Brasile ha sempre più bisogno di energia. E qual'è la frontiera di espansione energetica più a buon mercato, se non la stessa Amazzonia che, con i suoi fiumi, offre un potenziale immenso sotto forma di energia idroelettrica? L'Amazzonia non scuoce mai. E' sempre buona da mangiare.
sabato 20 febbraio 2010
sao paulo-porto velho
In Brasile si è già iniziata a combattere la futura guerra mondiale tra razionalità e irrazionalità. Tutti contro tutti. Sono razionali i mega investimenti per rubare acqua e cuore all' amazzonia. Sono razionali i deserti delle monocoltivazioni. E' irrazionale il venditore ambulante di pamuya, lo squisito e rovente impasto di mais, formaggio e carne avvolto da foglie di pannocchia. E' irrazionale l'arcobaleno doppio che alimenta il narcisismo del cielo dopo la pioggia, a Riberào Preto, poche ore prima del tramonto.
Riberao Preto è una delle prima fermate dell'autobus da San Paolo a Porto Velho, dopo mezza dozzina di ore di viaggio. Mi capita come compagno di viaggio il signor Joao- di nuovo un Joao dai capelli bianchi, come da Moçimboa da Praia a Pemba, Mozambico.
Nato nello stato di Minais Gerais quarantacinque anni fa e trasferitosi nell'amazzonia quasi disabitata in cerca di terra e lavoro, Joao ha intrapreso questo viaggio a ritroso col figlio minore, Cleito, quattordicenne, per andare a trovare la madre di Cleito, nel frattempo trasferitasi a San Paolo. Anche se ci conosciamo da pochi minuti, mi dice che non vede l'ex moglie da quando si sono separati e che, per quanto avrebbe voluto risposarsi, non ha trovato ancora una donna da amare altrettanto.
Poco dopo di noi sale sull'autobus la passeggera che movimenterà i due giorni d'autobus: Maria, vestito verde, zeppe fosferescenti e sintomi di nanismo (primo tra tutti, mi arriva all'ombelico). Si fa notare subito cantando a squarciagola inni evangelici. Poi attacca bottone con Joao facendo domande assassine sulla sua fede. In pochi minuti Joao scopre di essere condannato alle fiamme eterne; cerca disperatamente di scrollarsi di dosso l'inferno brandendo una bibbia che porta con sè e citando quel che ricorda del catechismo. Ma Maria, forte dell'elezione che Dio le avrebbe concesso salvandola dalla tragedia del volo della Gol del 1983 (di cui sostiene di essere stata una dei quattro superstiti) gli toglie ogni speranza. A meno che, naturalmente, si converta alla fede evangelica, entrando in una qualsiasi delle circa diciannovemila congregazioni nate in Brasile negli ultimi vent'anni, e abbandoni la troppo blanda fede cattolica, che lo lascerebbe fuori dalla Nuova Gerusalemme.
Naturalmente è piuttosto surreale assistere a una discussione di questo tenore, per lo più tra due perfetti estranei. Ma in Brasile, Dio, a ragione o torto, per fede o per business, è sulla bocca di tutti.
E' irrazionale discutere di queste cose, ma in qualche modo i civili dovranno pur difendersi, in questa guerra. E intanto che ci difendiamo, attraversiamo cinquantadue ore del campo di battaglia: dall'industriale San Paulo, ai pascoli malinconici di Minas Gerais, agli altipiani a singhiozzo della Goias, ai campi di soia transgenica del Mato Grosso,deserti verdi in cui non compare anima viva, tranne gli uomini volanti che sganciano pesticidi dagli aeroplanini che ci ronzano sulla testa. E anche nei loro getti a mezz'aria vediamo formarsi l'arcobaleno. Ma questo, si sa è il paese delle contraddizioni.
In Amazzonia,quella sua branchia detta Rondonia, si entra infine di notte, di soppiatto, per non disturbare ciò che è già sconvolto. La Rondonia orientale, la prima che si incontra, è una foresta spelacchiata e che si aggrappa alla stagione delle piogge per rievocare il verde violento che il progresso ha risparmiato solo come idea. Ma avvicinandoci a Porto Velho, sulla strada verso l'Acre, la foresta trova una sorta di -temporanea- rivincita.
Continua...
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