Nonostante tutto c'e', ancora oggi, l'Avana.
E' ancora li', qui, con tutta la sua randagia bellezza e la sua miriade di personaggi in cerca d'autore;con i suoi muri scrostati che parlano e ricordano scene erotiche consumate a discapito dell'intonaco; del suo odore puzza e profumo di benzina creata ad arte da alchimisti senza la gloria che avrebbero meritato.
Col suo rumore perenne di motori ingolfati e antichi, con le sue macchine americane anni trenta quaranta cinquanta alla faccia dei pochi gatti havaneros e delle loro molteplici vite. Con la sua frutta a buon mercato, il suo sesso a pagamento, la sua allegria musicale troppo spesso mascherata da superficialita' da grattare via con uno sguardo disarmato, che disarmi.
L'avana col suo lungomare piu' bello del mondo, dove nei giorni di vento i bambini sostituiscono i pescatori sul muretto che separa le donne dalle sirene, a giocare con le onde che ci si infrangono contro per poi innalzarsi verso il cielo, fatte spumosi fuochi d'artificio.
C'e' ancora l'avana, e c'e' ancora la sua testarda rivoluzione, che avrebbe potuto essere meglio; che avrebbe potuto anche essere molto peggio. C'e'nell'aria dell'Avana una tristezza, quella che tante persone debbano essere prigioniere di un sistema giusto. Ma c'e' anche, e soprattutto, la tristezza che la garanzia vitale del minimo garantito per tutti abbia coltivato una serpeggiante avidita' che, in misura diversa, ammorba un popolo intero, elevata a sinistro marchio di fabbrica (un simbolo del dollaro cucito sul retro delle orbite, a filtrare ogni sguardo). Un peccato, una lezione che forse dice qualcosa sull'essere umano di qualsiasi latitudine. E non e' qualcosa di buono.
Eppure ci sono, ancora oggi, le perle. Quelle che ho raccolto in qualche settimana di vita nel Centro Havana, il cuore piu' vero e manifesto della citta', e come tutti i cuori: crudele, dolce, infame, meraviglioso. Folle di una follia che a volte luccica di rassicurante magia, ma che altre va fatta scorrere senza guardarla, perche' ci sono storie e territori che non solo non si possono capire; si possono a malapena ascoltare.
Ad esempio c´e´, ancora oggi, a l´avana...Fara.
Fara che e´diventata una leggenda del quartiere San Leopoldo, vortice centralissimo a tre isolati dal malecon. Leggenda,dicevamo, da quando nel 1996 e´volata dal quarto piano del carcere, quello dove venivano rinchiusi omosessuali e travestiti, e gli infermieri che l´hanno raccolta dopo una visita sommaria l´hanno portata direttamente all obitorio. Ed e´li´che dopo qualche ora Fara si sveglio', si mise seduta e, pudica, si torno' ad avvolgere con il lenzuolo che le copriva le imprevista nudita´. Ed il custode si prese un tale spavento che non ebbe nulla da ridire che Fara uscisse sulle sue gambe, e coperta dal lenzuolo uscisse a respirare la notte della sua Avana, e camminasse come un fantasma per le sue strade deserte. E la leggenda vuole anche che, dopo tanto deambulare stordito e claudicante, Fara decidesse infine di andare a casa, dove ci si preparava mestamente ad accogliere il corpo e a vegliarlo poiche´la notizia del trapasso aveva fatto da aperitivo alla cena, ed entrando esclamasse ´´non gettate le corone di fiori che arriveranno domattina, le vendero´e mi ci comprero´vestiti da signora. Nemmeno da morta avrei taciuto il mio essere donna, nemmeno con le labbra cucite come si cuciono ai morti´´. E da allora Fara e´assai rispettata nel quartiere e nessuno le nega una patata ripiena di carne tritata o un bicchierino di rum, poiche´non e´bene inimicarsi che si e´mostrato impermeabile al richiamo dell ´aldila´, e tuttora si prende gioco della morta sfoggiando beffarde cicatrice a forma di sorriso.
E la prima volta che l'ho incontrata camminava scalza per la calle San Lazaro, e per prima cosa ho pensato che anch'io, se non fosse per quella sorta di magnete che ho sui talloni e che attira i vetri rotti, camminerei cosi'per le strade e per i tetti de la avana: silenziosa come chi vuole sentire senza essere sentito, vigile e veloce come un gatto.
E nonostante tutto c'e' ancora, a l'Avana...la pioggia.
La pioggia che quando cade coglie tutti di sorpresa, inonda le strade, sgocciola sui letti imbarcati del centro Avana. E la gente, abituata si' alle tempesta ma non curiosamente alla possibilita´di bagnarsi, corre a ripararsi sotto la prima veranda, e fra perfetti estranei, in attesa di una tregua del cielo, si parla del piu' e del meno, di boxe, di pettegolezzi, di come aggirare la penultima legge. E appena il cielo riprende fiato prima di tornare a starnutire ci si saluta per sempre, come se invece che sotto a una qualsiasi veranda si fosse stati bloccati con altri estranei in un ascensore sospeso fra due strati del tempo, quello in cui ci si bagnava anche la testa e quello in cui invece ci si bagnano solo i piedi.
C´'e' ancora oggi, a l'avana, Magalita.
Magalita disturbata nel suo sonnelino pomeridiano dal nuovo marito, che vagamente arcigno le dice: ''senti, c'e´una giovane italiana alla porta che sostiene di essere stata qui nove anni fa e chiede di te e del tuo ex marito'', Magalita che spalanca gli occhi ed esclama: ''Serena Corsi!'', e si precipita a raccontarsi e ad ascoltare le peripezie della ragazzina hippy che all'epoca dei fatti rievocati si guardava intorno disorientata da cosi' tanti negri alla fermata dell'autobus.
C'e' ancora, a l'avana, Yoel, che di questi nove anni ne ha passati otto in galera, e lo dice scrollando le spalle e scuotendo la testa come se volesse scusarsi della brutta figura: eppure e' ancora lui, con la sua irrequietezza cronica e la sua generosita' sconfinata da bandolero stanco, il suo viso smunto da uomo senza sonno e la sua ingenuita´malinconica, che lo lascia spaesato a stupirsi che tutti siano cosi' cambiati e cosi' cresciuti mentre lui non poteva fare altro che rimanere immobile ad aspettare.
C'è' Gabriel, con cui all'epoca mi sbaciucchiavo sotto gli alberi immensi del Vedado, che e' diventato un sociologo calvo e che racconta episodi bellissimi sull'amore tra i suoi genitori, di quegli amori che ne capita uno su un milione.
c'e' Jesus, con la sua cicatrice dalla bocca all'orecchio e il suo passato da pirata urbano, animale e figlio sputato del centro avana, che a 13 anni perse la verginita´in un cinema mentre sullo schermo julio iglesias cantava idiozie e fuori si distribuivano secchi di latte casa per casa; a ventitre' anni gli riusci' la difficile impresa di ingravidare due ragazze duverse nello stesso mese e da allora ha vissuto di conseguenza, saltimabanco sulla sottile fune della legalita' cubana. Oggi ha 40 anni, e' un ex bandito che non vuole piu' saperne di droghe e di combattimenti tra cani,e anche se e' sempre l'ultimo a lasciare le feste )o forse proprio per questo) si sente molto solo e della vita trscorsa porta con se´una ferma convinzione (il cuore si graffia molte volte, ma sanguina una sola) e un sogno (cadere di faccia, almeno una volta nella vita, in un mucchio di neve fresca). Intanto si prepara a interpretare se' stesso in un film di un regista russo a cui ha raccontato le cose piu' incredibili che gli sono successe; e non sono poche.
Non ci sono, a l'Avana, Ernesto e Gilenys, fuggiti in Europa e respirare piu' liberta e piu' miseria, piu' denaro liquido e piu' barbarie.
Chissa' che sensazione dara' a loro, mantenere una promessa e tornare un giorno, dopo tanto tempo, a l'Avana.
(continua)
martedì 8 novembre 2011
mercoledì 7 settembre 2011
appunti su Genova
In questi vicol i topi hanno battuto i gatti.
Una meretrice agè, seduta su una seggiola pieghevole da spiaggia, stende i piedi per controllarsi lo smalto e sospira.
Una negoziante colombiana e una cliente ghanese si capiscono sul fatto che chi è rimasto in Patria non capisce quanto sia faticoso il lunario in italia. La ghanese esce dal negozio dopo aver ottenuto uno sconto sulla sporta di burro d'arachidi, cipolle e coriandolo.
Al bar che fa angolo sulla Commenda di Prè un ecuadoriano cerca di dettare la schedina del totocalcio a un ricevitore cinese; le gag di incomprensione fanno ridere tutti gli avventori, e sorridere i due protagonisti.
Nei parrucchieri africani le giovani fresche di tratta incontrano per la prima volta le loro Mamàn.
Sotto i cornicioni, poliziotti in borghese e venditori di notizie succulente aspettano la prossima novità. Un cane sciolto ne incontra uno randagio.
Insegne di macellerie in spagnolo, odore di carne d'agnello stufata e di orata fritta, mucchi di spazzatura e canti evangelici che la domenica mattina prendono il volo da finestre del terzo piano.
Città di bellezza diffusa e di incanto a buon mercato, ma anche di incubi a cielo aperto in cui inciampare alla prima distrazione.
Lavanderia a gettoni dove qualcuno, se potesse, si centrifugherebbe in carne ed ossa; frigoriferi da cui ammiccano succhi di guayaba fosforescenti, saturi di imbrogli dolcissimi.
Un suonatore di violino ungherese, una bambina cinese a cui qualcuno ha messo in mano un'armonica a bocca; un call center battezzato, con desolato ottimismo, euro-bangla.
E in mezzo a tutto questo, e a tutto questo all'ennesima potenza, un fumante cappuccino italiano e un rettangolo di focaccia ligure, e chi lo sorseggia godendosi ogni scampolo di poesia che vede, anche quella che non c'è- meglio tralasciare il fatto che la poesia può anche essere oscura come la notte, e tagliente e spietata. Esserci, c'è sempre.
Una terrazza introdotta da una veranda in stile liberty, una vetrata affumicata verde con riccioli di ferro che copiano le bozze delle nuvole.
Un bagno notturno come non capitava da tempo, per scoprire che quando il mondo emerso finalmente tace o quasi, quello immerso non è affatto silenzioso, ma risuona di bollicine intorno alle orecchie come se si fosse a mollo nello champagne.
E che i poipi, tra tutti gli animali, sono quelli che hanno gli occhi più simili a quelli dell'uomo.
Una meretrice agè, seduta su una seggiola pieghevole da spiaggia, stende i piedi per controllarsi lo smalto e sospira.
Una negoziante colombiana e una cliente ghanese si capiscono sul fatto che chi è rimasto in Patria non capisce quanto sia faticoso il lunario in italia. La ghanese esce dal negozio dopo aver ottenuto uno sconto sulla sporta di burro d'arachidi, cipolle e coriandolo.
Al bar che fa angolo sulla Commenda di Prè un ecuadoriano cerca di dettare la schedina del totocalcio a un ricevitore cinese; le gag di incomprensione fanno ridere tutti gli avventori, e sorridere i due protagonisti.
Nei parrucchieri africani le giovani fresche di tratta incontrano per la prima volta le loro Mamàn.
Sotto i cornicioni, poliziotti in borghese e venditori di notizie succulente aspettano la prossima novità. Un cane sciolto ne incontra uno randagio.
Insegne di macellerie in spagnolo, odore di carne d'agnello stufata e di orata fritta, mucchi di spazzatura e canti evangelici che la domenica mattina prendono il volo da finestre del terzo piano.
Città di bellezza diffusa e di incanto a buon mercato, ma anche di incubi a cielo aperto in cui inciampare alla prima distrazione.
Lavanderia a gettoni dove qualcuno, se potesse, si centrifugherebbe in carne ed ossa; frigoriferi da cui ammiccano succhi di guayaba fosforescenti, saturi di imbrogli dolcissimi.
Un suonatore di violino ungherese, una bambina cinese a cui qualcuno ha messo in mano un'armonica a bocca; un call center battezzato, con desolato ottimismo, euro-bangla.
E in mezzo a tutto questo, e a tutto questo all'ennesima potenza, un fumante cappuccino italiano e un rettangolo di focaccia ligure, e chi lo sorseggia godendosi ogni scampolo di poesia che vede, anche quella che non c'è- meglio tralasciare il fatto che la poesia può anche essere oscura come la notte, e tagliente e spietata. Esserci, c'è sempre.
Una terrazza introdotta da una veranda in stile liberty, una vetrata affumicata verde con riccioli di ferro che copiano le bozze delle nuvole.
Un bagno notturno come non capitava da tempo, per scoprire che quando il mondo emerso finalmente tace o quasi, quello immerso non è affatto silenzioso, ma risuona di bollicine intorno alle orecchie come se si fosse a mollo nello champagne.
E che i poipi, tra tutti gli animali, sono quelli che hanno gli occhi più simili a quelli dell'uomo.
sabato 4 giugno 2011
LA MAREA DI SAO LUIS
Per ascoltare "La Marea di Sao Luis" andato in onda su Radio Kairos con la voce di Carla Vitantonio, copiate questo link.
http://lucelucilla.podomatic.com/entry/2011-05-31T08_22_42-07_00
Lei non aveva mai visto nessuno viaggiare con tutti quei libri. E pensare che di viaggiatori ne aveva incontrati ormai di tutti i tipi: di quelli che viaggiano così tanto che si portano dietro l'aurea inquietante di non avere più niente da imparare. Di quelli che hanno viaggiato così poco che in realtà pensano solo alla fine del viaggio, all’umore di quando torneranno. Di quelli che hanno viaggiato abbastanza e si perdono ore e ore a sfiorare cartine e, se li guardi, non capisci cosa vedono: il fatto è che più tempo si impiega ad attraversare un posto, più tempo si può passare a guardarlo, tatuato su una cartina come dentro di sè.
A meno che quel posto sia il proprio.
Fra i libri di Elizeo non c'erano cartine geografiche. E quando passava accanto a quella gigante del Brasile, appesa nel salotto della pensione, i suoi occhi non ci si fermavano mai. Perchè il Brasile era il suo posto, e lui evitava accuratamente di sfiorarlo con le mani e mangiarlo con gli occhi, come facevano gli stranieri.
Se ne stava spesso appoggiato a una finestra di quell’ostello nel cuore del cuore del Reviver, il centro storico di una città sconosciuta ai più, una bolla di insondabile magia nella parte di nordest brasiliano che sconfina, finalmente, in Amazzonia. Sao Luis do Maranhao.
A Sao Luis, invece di un lungomare, ci sono una manciata di gradini che scendono nell'acqua. Sono solo tre quelli che si vedono quando la marea è alta; non ne basta invece una decina per arrivare a lambire il fango che si crea quando l'oceano si ritira e lascia sguarnita la baia. Da quei gradini, l'alta marea dà un senso di potenza, talvolta di euforia. La bassa marea invece svuota e impoverisce, toglie l’aria, sarebbe capace di spazzare via qualunque speranza residua in un pensiero solitario.
Sensazioni così distanti possono essere sentite dallo stesso spettatore nell'arco di poche ore. Questo, la vicinanza con l'equatore e l'influenza di una luna a portata di mano, rendono Sao Luis una risacca di energia da cui scappare o da cui lasciarsi portare, costi quel che costi.
La ragazza italiana era incuriosita dal suo stare alla finestra a quell'ora un po' anonima che nelle città brasiliane precede il via vai che precede la cena che precede di poco la telenovela delle nove. O forse era solo confusa dalla marea che cambiava continuamente, e le mani di quell'uomo le sapevano di solidità. Forse era questo: la montagna di libri che aveva intravisto nella stanza di lui le aveva dato la speranza di parlare di libri con qualcuno per una notte intera, per prendere una boccata di normalità dall'apnea delle stranezze di Sao Luis. Perchè le stranezze di Sao Luis non sono cosa da lasciare incolumi.
In pochi mesi era già stata ospite di un carpentiere con una paralisi facciale che costruiva case senza porte, mentre un poeta calvo e sempre ubriaco la coglieva agli angoli di strade sempre diverse offrendole bicchieri d'acqua o di cachaça, come se fosse la stessa cosa, manciate di sue coetanee si prostituivano a vecchi irlandesi innamorandosene perdutamente e maledendo le loro mogli, e cose strane le succedevano persino con gli oggetti, un libro le era piovuto dal cielo sul selciato della strada dove camminava. Dicevamo: forse la ragazza italiana aveva solo bisogno di passare una notte intera a parlare di letteratura per chiudere fuori dalla porta tutti quei personaggi in cerca d'autore, alcuni dei quali, se non bastasse, sembrava avessero il brutto vizio di leggerle il pensiero (o sarà che i personaggi lo fanno sempre, per testare le resistenze di possibili autori?).
Fu lei a fare il primo passo, una volta che uscì dalla sua stanza per andare a mangiare uno spiedino dalla vecchia sul molo, quella che, avvolta in un turbante d’unto e di fumo di braciere, sapeva di strega alla farofa. Elizeo era appoggiato al davanzale del salotto e guardava la strada pedonale sotto di lui, come se aspettasse di veder comparire qualcuno. Comparve lei, ma alle sue spalle. Lui fu sollevato e grato alla sua intraprendenza.
Dopo i due passarono ore stesi nel letto di lui. Senza sfiorarsi. Entrambi avevano solo voglia di stare un po' in compagnia. Sdraiati vicini, leggevano un libro ciascuno come una coppia sposata da tempo, ma si conoscevano da meno di cinquanta ore. Si erano detti quasi tutto. Lui aveva pianto, lei era riuscita a trattenersi. Ci sono incontri in cui, decisamente, tocca all'altro piangere.
Dalla brezza che entrava dalla finestra riconoscevano la fase della marea nella baia di San Luis Do Maranhao: quando era sufficiente a muovere le tende sporche, e a drizzare un filo di pelle d'oca sui corpi vestiti al minimo, allora la marea stava crescendo. Quando era l'aria spessa della stanza a cercare di uscire dalla finestra, prosciugandoli, la marea si abbassava, lasciando nel canale di Sao Marcos un pantano di pesci morti e di gabbiani amanti di quella routine.
Lei l'aveva trovato subito bellissimo, ma nel modo contaminato in cui si trova bello qualcuno perchè ci ricorda qualcun'altro. In realtà, non erano belli nè Elizeo ne il qualcun'altro. Ma lei, in quei giorni, aveva voglia di casa.
Le sue mani, le mani di Elizeo. Forti e veloci a intrecciare collane. A soppesare pietre preziose. A legarsi i capelli riccioli in un batter d’occhio. A lavarsi il corpo piccolo e asciutto. Lui invece non l'aveva trovata bella, ma i guizzi del suo sguardo l'avevano incuriosito. E poi aveva, per la prima volta dopo anni e anni, bisogno di conforto. Di un'amica che non sapesse nulla di lui, eppure lo aiutasse a scalare una montagna senza appigli. Oppure che gli dicesse, una volta per tutte, mi sembra che tu non ne abbia il coraggio, Elizeo: torna indietro.
La prima ora di parole era stata un flusso inarrestabile. Vento in poppa, la marea cresceva e avanzava sui gradini del molo. Libri e filosofia. Luoghi del mondo e lingue. Storie e personaggi. Durante la seconda ora cominciarono a trovare i primi ostacoli, disincontri di pensiero, certezze dell'uno che l'altro aveva raccolto in un altro segmento di vita e poi rabbiosamente scartato, e viceversa. Alla fine della terza ora si erano capiti così bene che provavano una vaga, reciproca antipatia. E ancora di più avevano bisogno di essere ascoltati l'uno dall'altra. Sulla strada del ritorno alla pensione lei si fermò sul marciapiede e confessò di non aver risposto a una lettera molto importante. E lui, senza smettere di camminare, le ricordò che il silenzio è l'unica risposta esatta.
Quando entrarono in camera di lui, lei rimase di nuovo accecata da tutti quei libri. Aveva attraversato mezza America Latina con uno zaino pieno di libri sulle spalle, quasi tutti classici. Perchè porti con te tutti questi libri? Per farmi coraggio, rispose lui. I libri mi ricordano che la mia è solo una storia tra le tante.
La sua storia. Era partito per l'Avana da San Paolo dieci anni prima, a ventotto appena compiuti, figlio della prima borghesia brasiliana. Ci doveva rimanere almeno due anni per un prestigioso dottorato in filosofia e, come unica appendice a un futuro che si annunciava glorioso, si lasciava dietro una fidanzata storica che peraltro fantasticava di lasciare dopo qualche mese di vita cubana. Dopo tre settimane dal suo arrivo a l'Avana, però lei lo chiamò per dirgli che era incinta. Elizeo non ebbe dubbi, le disse che non ne voleva sapere. Scese in strada e camminò per la città, che per una volta decise di ignorarlo. Tanto in qualche modo doveva finire, si disse. Decise di bere, per una volta non assillato da jineteras che speravano di barattare una notte di sesso da copione col suo portafogli pieno. Quella sera, stranamente, il mondo rimaneva alla larga. La mattina seguente si svegliò perfettamente lucido e senza il minimo mal di testa. Quella sera tornò a ubriacarsi, ma di nuovo, il giorno dopo, era più lucido che mai. Per due settimane si ubriacò ogni notte. Temeva che se fosse rimasto nella sua stanza la nostalgia lo avrebbe rapito e avrebbe telefonato alla sua fidanzata, spendendo un patrimonio e forse giocandosi il futuro. Ma l'incredibile era che per quanto bevesse, il giorno dopo si svegliava sempre senza un filo di risacca, sempre più lucido e brillante nelle sue ricerche. L'ultima di quelle mattine si risvegliò da un incubo: la sua ex fidanzata era morta dissanguata dopo l'aborto clandestino. Angosciato, chiamò a casa di lei. La linea ronzava come avrebbe dovuto fare la sua testa. La madre gli rispose secca: “Mia figlia è a L'Avana ” e riagganciò.
Elizeo rimase a letto. Non si mosse finchè lei non bussò alla porta. Preferivo aspettare la tua chiamata da qui, gli disse. Lui pensò, indistintamente, che qualcosa negli ultimi tempi doveva averla resa più bella. Cercò di sdraiarla sul letto, lei sussurrò: “ho abortito”. Lui sentiva la voce di lei storpiata, piena di eco. Iniziava la risacca, una risacca accumulata in giorni e settimane, che ora saliva con ritmo inesorabile di marea. Alla fine, lei si rivestì e, guardandolo con attenzione, disse: ho già scopato con un altro. Non mi fai più niente. Buona vita.
Passò tre mesi in un manicomio cubano. I suoi genitori mandarono sua sorella a prenderlo, ma lui rifiutò di venire via con lei. Dal manicomio fu trasferito a una clinica psichiatrica in cui una psicologa mulatta si prese a cuore il brasiliano dallo strano male fino a diventare, col tempo, la persona più importante della sua vita. Per i dieci anni a venire fu il suo unico punto di riferimento al mondo.
Ce ne mise tre, di quegli anni, a raccogliere il coraggio sufficiente a separarsi dalle sue calibrate parole di consolazione. Ripartì alla volta del Messico: in una spiaggia fuori l'Avana aveva conosciuto un colombiano che si occupava del commercio di pietre preziose al confine con gli Stati Uniti. Nella scelta e nella lavorazione delle pietre Elizeo si rivelò un autentico talento e, dopo qualche anno da socio del colombiano, cominciò a lavorare da solo: Stati Uniti, Messico, Panama, Colombia, poi di nuovo Stati Uniti, Messico, Panama, Colombia...
Colombia. Un giorno in un caffè di Bogotà, dove un cliente gli aveva dato buca, si mise a chiacchierare con due ragazze che l'avevano notato per “le mani belle come quelle di mio nonno Josè” – così aveva detto la più mora delle due.
Le ragazze condividevano un appartamento nel quartiere bohemienne della città. Dopo due giorni di racconti sulle sue peripezie da commerciante di pietre preziose- non chiesero nulla del suo passato più passato, meglio così, altrimenti avrebbe mentito come faceva sempre- Elizeo si era trasferito da loro. Aveva un po' di denaro da parte e voleva goderselo così, in quella città che l’aveva sempre attratto, coi suoi pericoli e le sue nefandezze, e il suo romanticismo da rubare a ogni costo.
I tre crearono un limbo di serenità che lui non sospettava potesse aspettarlo da qualche parte. Era almeno dieci anni più vecchio di loro, ma da tempo non si sentiva così a suo agio con qualcuno. Qualcuno a cui insegnare e di cui prendersi cura. Forse non gli era mai successo.
Leggevano ad alta voce e parlavano fino all'alba. Cucinavano insieme. Alle ragazze capitavano uomini idioti dei quali lui ridendo diceva, all'una o all'altra, è tonto, ma tu sei stronza. Si sentiva perfino abbastanza bene da chiamare sua madre circa una volta al mese, e non un paio di volte l'anno come si era abituato a fare -ne erano passati otto da quando era partito per l'Avana e non era mai più tornato; ma quando per telefono lei gli chiedeva di spedirgli almeno una foto, lui diceva di sì e poi non lo faceva, e continuava a interromperla quando lei provava a dargli notizie sulle persone che aveva lasciato a San Paolo.
Stava così bene che un giorno scrisse alla sua psicologa cubana per dirle che non sarebbe tornato a trovarla quella primavera, come aveva sempre fatto. Lei non gli chiese perchè, o dov'era, e con chi, rispose solo quello che ormai gli rispondeva sempre: è ora che tu torni a casa, Elizeo.
Due anni più tardi, appoggiato sul davanzale di una pensione nel cuore di Sao Luis Do Maranhao, Elizeo era ancora a pezzi per la fine della storia d'amore con una delle due colombiane, quella delle mani e del nonno, che l'aveva trascinato in una spirale di gelosia e possesso da cui potevano uscire solo mettendo fra l'uno e l'altra qualcosa di grande e spaventoso come l'Amazzonia.
“Eppure io non sono sempre stato come mi vedi” disse lui alla ragazza italiana durante la quinta ora di quella notte, quella in cui pianse come un bambino, quella in cui l’aria era uscita dalla stanza per spingere tutta l’acqua della baia in mare aperto. “Io ho conosciuto il mondo, e sono stato felice”.
Se non altro tutto quel dolore lo aveva portato a decidere finalmente di tornare a casa. Per la strada più lunga: via terra, attraverso la foresta. Almeno fino a Sao Luis. Le raccontò che era stato un viaggio bellissimo, nuovo in ogni giorno, guastato solo dai momenti in cui commetteva l'errore di entrare in un internet cafè per vedere se lei gli aveva scritto, e cosa gli aveva scritto, di chi si era innamorata, e quanto stava bene senza di lui. Era arrivato a Sao Luis in un'alba di lunedì, con il centro vuoto che echeggiava i suoi passi, e la Pousada Internacional dall'altra parte della prima strada. E un biglietto aereo da lì a San Paolo fissato per cinque giorni dopo, che gli pulsava nella tasca.
L'ultima tappa prima di tornare a casa. Si era buttato sul letto della stanza in fondo al corridoio e poi, visto che il sonno non arrivava, si era messo a estrarre tutti i suoi libri dallo zaino, uno per uno, religiosamente. Era un rito che aveva sempre funzionato. Ma ora eccolo, quel pensiero che non lasciava la sua testa, martellante, spaventoso: lo stavano aspettando. Tutti quelli che avevano conosciuto il primo Elizeo a San Paolo dovevano essere informati del suo imminente ritorno, dopo dieci anni di pellegrinaggi e nuove vite. Immaginava la notizia diffondersi veloce come quella di una morte. Manco solo io, si disse. Lo sanno tutti tranne me, che sto tornando a casa.
Fammi una foto, disse alla ragazza italiana l'ultima ora di quella notte prima della partenza, all'improvviso. Fammi una foto con la tua macchina digitale, che la spediamo a mia sorella.
Perchè, se domani la rivedi? Chiese lei.
No, non domani. Nè lei nè nessun altro. Quando arrivo all’aeroporto di San Paolo, mi rimbarco direttamente per l'Avana. Ho deciso.
Sarà terribile, disse lei d'istinto, ti sembrerà di essere di nuovo sul volo di dieci anni fa, quando partivi per il dottorato a l’Avana.
Lui tacque.
Bisogna tornare a casa almeno per dire addio, aggiunse ancora la ragazza italiana, brancolando nel buio, pestando uova, tacendo infine.
Intanto l’acqua, di ritorno dal suo viaggio nell’oceano, era tornata fedele a riempire la baia, e così l’aria salata a lambire le tende e ad accarezzare le lenzuola, conciliando sonno e sogni.
Lei si risvegliò nella stanza vuota. Elizeo si era preso zaino e vestiti, ma aveva lasciato lì tutti i suoi libri.
Ovunque avesse deciso di andare, c'era andato a mani vuote.
http://lucelucilla.podomatic.com/entry/2011-05-31T08_22_42-07_00
Lei non aveva mai visto nessuno viaggiare con tutti quei libri. E pensare che di viaggiatori ne aveva incontrati ormai di tutti i tipi: di quelli che viaggiano così tanto che si portano dietro l'aurea inquietante di non avere più niente da imparare. Di quelli che hanno viaggiato così poco che in realtà pensano solo alla fine del viaggio, all’umore di quando torneranno. Di quelli che hanno viaggiato abbastanza e si perdono ore e ore a sfiorare cartine e, se li guardi, non capisci cosa vedono: il fatto è che più tempo si impiega ad attraversare un posto, più tempo si può passare a guardarlo, tatuato su una cartina come dentro di sè.
A meno che quel posto sia il proprio.
Fra i libri di Elizeo non c'erano cartine geografiche. E quando passava accanto a quella gigante del Brasile, appesa nel salotto della pensione, i suoi occhi non ci si fermavano mai. Perchè il Brasile era il suo posto, e lui evitava accuratamente di sfiorarlo con le mani e mangiarlo con gli occhi, come facevano gli stranieri.
Se ne stava spesso appoggiato a una finestra di quell’ostello nel cuore del cuore del Reviver, il centro storico di una città sconosciuta ai più, una bolla di insondabile magia nella parte di nordest brasiliano che sconfina, finalmente, in Amazzonia. Sao Luis do Maranhao.
A Sao Luis, invece di un lungomare, ci sono una manciata di gradini che scendono nell'acqua. Sono solo tre quelli che si vedono quando la marea è alta; non ne basta invece una decina per arrivare a lambire il fango che si crea quando l'oceano si ritira e lascia sguarnita la baia. Da quei gradini, l'alta marea dà un senso di potenza, talvolta di euforia. La bassa marea invece svuota e impoverisce, toglie l’aria, sarebbe capace di spazzare via qualunque speranza residua in un pensiero solitario.
Sensazioni così distanti possono essere sentite dallo stesso spettatore nell'arco di poche ore. Questo, la vicinanza con l'equatore e l'influenza di una luna a portata di mano, rendono Sao Luis una risacca di energia da cui scappare o da cui lasciarsi portare, costi quel che costi.
La ragazza italiana era incuriosita dal suo stare alla finestra a quell'ora un po' anonima che nelle città brasiliane precede il via vai che precede la cena che precede di poco la telenovela delle nove. O forse era solo confusa dalla marea che cambiava continuamente, e le mani di quell'uomo le sapevano di solidità. Forse era questo: la montagna di libri che aveva intravisto nella stanza di lui le aveva dato la speranza di parlare di libri con qualcuno per una notte intera, per prendere una boccata di normalità dall'apnea delle stranezze di Sao Luis. Perchè le stranezze di Sao Luis non sono cosa da lasciare incolumi.
In pochi mesi era già stata ospite di un carpentiere con una paralisi facciale che costruiva case senza porte, mentre un poeta calvo e sempre ubriaco la coglieva agli angoli di strade sempre diverse offrendole bicchieri d'acqua o di cachaça, come se fosse la stessa cosa, manciate di sue coetanee si prostituivano a vecchi irlandesi innamorandosene perdutamente e maledendo le loro mogli, e cose strane le succedevano persino con gli oggetti, un libro le era piovuto dal cielo sul selciato della strada dove camminava. Dicevamo: forse la ragazza italiana aveva solo bisogno di passare una notte intera a parlare di letteratura per chiudere fuori dalla porta tutti quei personaggi in cerca d'autore, alcuni dei quali, se non bastasse, sembrava avessero il brutto vizio di leggerle il pensiero (o sarà che i personaggi lo fanno sempre, per testare le resistenze di possibili autori?).
Fu lei a fare il primo passo, una volta che uscì dalla sua stanza per andare a mangiare uno spiedino dalla vecchia sul molo, quella che, avvolta in un turbante d’unto e di fumo di braciere, sapeva di strega alla farofa. Elizeo era appoggiato al davanzale del salotto e guardava la strada pedonale sotto di lui, come se aspettasse di veder comparire qualcuno. Comparve lei, ma alle sue spalle. Lui fu sollevato e grato alla sua intraprendenza.
Dopo i due passarono ore stesi nel letto di lui. Senza sfiorarsi. Entrambi avevano solo voglia di stare un po' in compagnia. Sdraiati vicini, leggevano un libro ciascuno come una coppia sposata da tempo, ma si conoscevano da meno di cinquanta ore. Si erano detti quasi tutto. Lui aveva pianto, lei era riuscita a trattenersi. Ci sono incontri in cui, decisamente, tocca all'altro piangere.
Dalla brezza che entrava dalla finestra riconoscevano la fase della marea nella baia di San Luis Do Maranhao: quando era sufficiente a muovere le tende sporche, e a drizzare un filo di pelle d'oca sui corpi vestiti al minimo, allora la marea stava crescendo. Quando era l'aria spessa della stanza a cercare di uscire dalla finestra, prosciugandoli, la marea si abbassava, lasciando nel canale di Sao Marcos un pantano di pesci morti e di gabbiani amanti di quella routine.
Lei l'aveva trovato subito bellissimo, ma nel modo contaminato in cui si trova bello qualcuno perchè ci ricorda qualcun'altro. In realtà, non erano belli nè Elizeo ne il qualcun'altro. Ma lei, in quei giorni, aveva voglia di casa.
Le sue mani, le mani di Elizeo. Forti e veloci a intrecciare collane. A soppesare pietre preziose. A legarsi i capelli riccioli in un batter d’occhio. A lavarsi il corpo piccolo e asciutto. Lui invece non l'aveva trovata bella, ma i guizzi del suo sguardo l'avevano incuriosito. E poi aveva, per la prima volta dopo anni e anni, bisogno di conforto. Di un'amica che non sapesse nulla di lui, eppure lo aiutasse a scalare una montagna senza appigli. Oppure che gli dicesse, una volta per tutte, mi sembra che tu non ne abbia il coraggio, Elizeo: torna indietro.
La prima ora di parole era stata un flusso inarrestabile. Vento in poppa, la marea cresceva e avanzava sui gradini del molo. Libri e filosofia. Luoghi del mondo e lingue. Storie e personaggi. Durante la seconda ora cominciarono a trovare i primi ostacoli, disincontri di pensiero, certezze dell'uno che l'altro aveva raccolto in un altro segmento di vita e poi rabbiosamente scartato, e viceversa. Alla fine della terza ora si erano capiti così bene che provavano una vaga, reciproca antipatia. E ancora di più avevano bisogno di essere ascoltati l'uno dall'altra. Sulla strada del ritorno alla pensione lei si fermò sul marciapiede e confessò di non aver risposto a una lettera molto importante. E lui, senza smettere di camminare, le ricordò che il silenzio è l'unica risposta esatta.
Quando entrarono in camera di lui, lei rimase di nuovo accecata da tutti quei libri. Aveva attraversato mezza America Latina con uno zaino pieno di libri sulle spalle, quasi tutti classici. Perchè porti con te tutti questi libri? Per farmi coraggio, rispose lui. I libri mi ricordano che la mia è solo una storia tra le tante.
La sua storia. Era partito per l'Avana da San Paolo dieci anni prima, a ventotto appena compiuti, figlio della prima borghesia brasiliana. Ci doveva rimanere almeno due anni per un prestigioso dottorato in filosofia e, come unica appendice a un futuro che si annunciava glorioso, si lasciava dietro una fidanzata storica che peraltro fantasticava di lasciare dopo qualche mese di vita cubana. Dopo tre settimane dal suo arrivo a l'Avana, però lei lo chiamò per dirgli che era incinta. Elizeo non ebbe dubbi, le disse che non ne voleva sapere. Scese in strada e camminò per la città, che per una volta decise di ignorarlo. Tanto in qualche modo doveva finire, si disse. Decise di bere, per una volta non assillato da jineteras che speravano di barattare una notte di sesso da copione col suo portafogli pieno. Quella sera, stranamente, il mondo rimaneva alla larga. La mattina seguente si svegliò perfettamente lucido e senza il minimo mal di testa. Quella sera tornò a ubriacarsi, ma di nuovo, il giorno dopo, era più lucido che mai. Per due settimane si ubriacò ogni notte. Temeva che se fosse rimasto nella sua stanza la nostalgia lo avrebbe rapito e avrebbe telefonato alla sua fidanzata, spendendo un patrimonio e forse giocandosi il futuro. Ma l'incredibile era che per quanto bevesse, il giorno dopo si svegliava sempre senza un filo di risacca, sempre più lucido e brillante nelle sue ricerche. L'ultima di quelle mattine si risvegliò da un incubo: la sua ex fidanzata era morta dissanguata dopo l'aborto clandestino. Angosciato, chiamò a casa di lei. La linea ronzava come avrebbe dovuto fare la sua testa. La madre gli rispose secca: “Mia figlia è a L'Avana ” e riagganciò.
Elizeo rimase a letto. Non si mosse finchè lei non bussò alla porta. Preferivo aspettare la tua chiamata da qui, gli disse. Lui pensò, indistintamente, che qualcosa negli ultimi tempi doveva averla resa più bella. Cercò di sdraiarla sul letto, lei sussurrò: “ho abortito”. Lui sentiva la voce di lei storpiata, piena di eco. Iniziava la risacca, una risacca accumulata in giorni e settimane, che ora saliva con ritmo inesorabile di marea. Alla fine, lei si rivestì e, guardandolo con attenzione, disse: ho già scopato con un altro. Non mi fai più niente. Buona vita.
Passò tre mesi in un manicomio cubano. I suoi genitori mandarono sua sorella a prenderlo, ma lui rifiutò di venire via con lei. Dal manicomio fu trasferito a una clinica psichiatrica in cui una psicologa mulatta si prese a cuore il brasiliano dallo strano male fino a diventare, col tempo, la persona più importante della sua vita. Per i dieci anni a venire fu il suo unico punto di riferimento al mondo.
Ce ne mise tre, di quegli anni, a raccogliere il coraggio sufficiente a separarsi dalle sue calibrate parole di consolazione. Ripartì alla volta del Messico: in una spiaggia fuori l'Avana aveva conosciuto un colombiano che si occupava del commercio di pietre preziose al confine con gli Stati Uniti. Nella scelta e nella lavorazione delle pietre Elizeo si rivelò un autentico talento e, dopo qualche anno da socio del colombiano, cominciò a lavorare da solo: Stati Uniti, Messico, Panama, Colombia, poi di nuovo Stati Uniti, Messico, Panama, Colombia...
Colombia. Un giorno in un caffè di Bogotà, dove un cliente gli aveva dato buca, si mise a chiacchierare con due ragazze che l'avevano notato per “le mani belle come quelle di mio nonno Josè” – così aveva detto la più mora delle due.
Le ragazze condividevano un appartamento nel quartiere bohemienne della città. Dopo due giorni di racconti sulle sue peripezie da commerciante di pietre preziose- non chiesero nulla del suo passato più passato, meglio così, altrimenti avrebbe mentito come faceva sempre- Elizeo si era trasferito da loro. Aveva un po' di denaro da parte e voleva goderselo così, in quella città che l’aveva sempre attratto, coi suoi pericoli e le sue nefandezze, e il suo romanticismo da rubare a ogni costo.
I tre crearono un limbo di serenità che lui non sospettava potesse aspettarlo da qualche parte. Era almeno dieci anni più vecchio di loro, ma da tempo non si sentiva così a suo agio con qualcuno. Qualcuno a cui insegnare e di cui prendersi cura. Forse non gli era mai successo.
Leggevano ad alta voce e parlavano fino all'alba. Cucinavano insieme. Alle ragazze capitavano uomini idioti dei quali lui ridendo diceva, all'una o all'altra, è tonto, ma tu sei stronza. Si sentiva perfino abbastanza bene da chiamare sua madre circa una volta al mese, e non un paio di volte l'anno come si era abituato a fare -ne erano passati otto da quando era partito per l'Avana e non era mai più tornato; ma quando per telefono lei gli chiedeva di spedirgli almeno una foto, lui diceva di sì e poi non lo faceva, e continuava a interromperla quando lei provava a dargli notizie sulle persone che aveva lasciato a San Paolo.
Stava così bene che un giorno scrisse alla sua psicologa cubana per dirle che non sarebbe tornato a trovarla quella primavera, come aveva sempre fatto. Lei non gli chiese perchè, o dov'era, e con chi, rispose solo quello che ormai gli rispondeva sempre: è ora che tu torni a casa, Elizeo.
Due anni più tardi, appoggiato sul davanzale di una pensione nel cuore di Sao Luis Do Maranhao, Elizeo era ancora a pezzi per la fine della storia d'amore con una delle due colombiane, quella delle mani e del nonno, che l'aveva trascinato in una spirale di gelosia e possesso da cui potevano uscire solo mettendo fra l'uno e l'altra qualcosa di grande e spaventoso come l'Amazzonia.
“Eppure io non sono sempre stato come mi vedi” disse lui alla ragazza italiana durante la quinta ora di quella notte, quella in cui pianse come un bambino, quella in cui l’aria era uscita dalla stanza per spingere tutta l’acqua della baia in mare aperto. “Io ho conosciuto il mondo, e sono stato felice”.
Se non altro tutto quel dolore lo aveva portato a decidere finalmente di tornare a casa. Per la strada più lunga: via terra, attraverso la foresta. Almeno fino a Sao Luis. Le raccontò che era stato un viaggio bellissimo, nuovo in ogni giorno, guastato solo dai momenti in cui commetteva l'errore di entrare in un internet cafè per vedere se lei gli aveva scritto, e cosa gli aveva scritto, di chi si era innamorata, e quanto stava bene senza di lui. Era arrivato a Sao Luis in un'alba di lunedì, con il centro vuoto che echeggiava i suoi passi, e la Pousada Internacional dall'altra parte della prima strada. E un biglietto aereo da lì a San Paolo fissato per cinque giorni dopo, che gli pulsava nella tasca.
L'ultima tappa prima di tornare a casa. Si era buttato sul letto della stanza in fondo al corridoio e poi, visto che il sonno non arrivava, si era messo a estrarre tutti i suoi libri dallo zaino, uno per uno, religiosamente. Era un rito che aveva sempre funzionato. Ma ora eccolo, quel pensiero che non lasciava la sua testa, martellante, spaventoso: lo stavano aspettando. Tutti quelli che avevano conosciuto il primo Elizeo a San Paolo dovevano essere informati del suo imminente ritorno, dopo dieci anni di pellegrinaggi e nuove vite. Immaginava la notizia diffondersi veloce come quella di una morte. Manco solo io, si disse. Lo sanno tutti tranne me, che sto tornando a casa.
Fammi una foto, disse alla ragazza italiana l'ultima ora di quella notte prima della partenza, all'improvviso. Fammi una foto con la tua macchina digitale, che la spediamo a mia sorella.
Perchè, se domani la rivedi? Chiese lei.
No, non domani. Nè lei nè nessun altro. Quando arrivo all’aeroporto di San Paolo, mi rimbarco direttamente per l'Avana. Ho deciso.
Sarà terribile, disse lei d'istinto, ti sembrerà di essere di nuovo sul volo di dieci anni fa, quando partivi per il dottorato a l’Avana.
Lui tacque.
Bisogna tornare a casa almeno per dire addio, aggiunse ancora la ragazza italiana, brancolando nel buio, pestando uova, tacendo infine.
Intanto l’acqua, di ritorno dal suo viaggio nell’oceano, era tornata fedele a riempire la baia, e così l’aria salata a lambire le tende e ad accarezzare le lenzuola, conciliando sonno e sogni.
Lei si risvegliò nella stanza vuota. Elizeo si era preso zaino e vestiti, ma aveva lasciato lì tutti i suoi libri.
Ovunque avesse deciso di andare, c'era andato a mani vuote.
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martedì 10 maggio 2011
L'EQUIVALENTE AFRICANO DI UNA BALLA DI FIENO
Questo il podcast su cui potete ascoltare dalla voce di Carla Vitantonio su Radio Kairòs la storia di Umberto e Marisa Fusaroli, sette decadi tra Romagna e Mozambico. Passione e libertà.
http://lucelucilla.podomatic.com/entry/2011-05-10T04_32_02-07_00
Non sono la prima emiliana a mettere piede in Mozambico.
Figuriamoci. E siccome era la mia prima volta in Africa, m'è venuto in mente di conoscere qualcuno che c'era stato in decenni differenti.
Sono andata in treno, provincia di Forlì, a incontrare questi Fusaroli Casadei un paio di settimane prima di partire per il Mozambico. Dal finestrino l’Emilia si è inesorabilmente trasformata in Romagna, la pianura era tutta una balla di fieno.La nostra campagna è bella in questa stagione, rassegnata alla fine dell’estate ma ancora sgombera dalle nebbie autunnali.
Alla stazione di Forlimpopoli mi viene a prendere Antonio detto Gaetano, figlio di Umberto Fusaroli e della moglie Marisa (anche mia nonna di Livorno si chiama Marisa). Ha degli occhiali da sole da killer che mi lasciano un po’ per plessa, ma quando se li toglie svela un’aria da pacioccone romagnolo. Fa il pilota per l’Alitalia, e sono i giorni in cui sta per fallire definitivamente. Mentre guida, mi spiega i punti della trattativa: mi sembra che abbiano ragione loro, i piloti, a non volerla accettare. Comunque mi riprometto di leggere l’indomani Il Manifesto sull’intera vicenda.
I Fusaroli Casadei se ne andarono dall’Italia all’inizio degli anni sessant’anni , delusi dalla piega che avevano preso la storia e la sinistra in Italia dopo la liberazione.
Andarono da un vecchio amico che viveva nell’allora Rhodesia (oggi Zimbabwe) di Ian Smith, un ex mercenario inglese che aveva fondato il suo impero sull’ideologia razzista. Da lì, Umberto prese contatti col Frelimo – il Frente di Liberazione del Mozambico, che confinava a est con la Rhodesia - e , lavorando come traduttore per il governo di Smith, raccoglieva intanto preziose informazioni per il Frelimo. Appena prima che il cerchio della polizia rhodesiana si chiudesse su di lui, un collega inglese che gli si era affezionato lo avvertì che entro poche ore sarebbe stato arrestato e fucilato. Umberto caricò sulla Volkswagen i suoi libri e il suo fucile da caccia, salutò Marisa e scappò sgommando verso il confine con lo Zambia. Passò la frontiera alle primi luci dell’alba, sfondando-letteralmente- il blocco dei Rhodesiani.
Fu bloccato alcuni chilometri dopo dalla polizia dello Zambia: convinse le autorità a non rispedirlo indietro ma, piuttosto, dii incarcerarlo a Lusaka, capitale dello Zambia. Qui trovò un ufficiale che parlava qualche parola di italiano e lo pregò di telefonare a Marisa, ancora in Rhodesia, per fargli sapere dove si trovava e cosa avrebbe dovuto fare : partire alla volta dell’Italia, dove lasciò il piccolo Antonio e convinse Enrica, la sorella di Umberto, a seguirla in Africa per cercare di liberare il fratello. Le due si recarono prima in Tanzania, dove si trovavano la maggior parte dei leader del Frelimo mozambicano in esilio. L’idea era di far intercedere il Frelimo presso l’autorità dello Zambia per far liberare Umberto: giunte a Dar es Saalam, le due romagnole furono ricevute dal generale guerrigliero Chissano, che vent'anni più tardi sarebbe stato il secondo presidente del Mozambico democratico. Marisa racconta che, quando Chissano entrò, Enrica si girò verso di lei con gli occhi fuori dalle orbite ed esclamò: “ Mo Marisa, mo saran tut axè di bel li niger?” (“Marisa, ma saranno tutti così belli i negri ?!).
Chissano diede loro una lettera di raccomandazione e le due partirono alla volta di Lusaka. Giunte al carcere, chiesero di incontrare Umberto Fusaroli. I carcerieri negarono che si trovasse lì. Marisa si scaldò così tanto, col poco inglese che conosceva, da intimorire o intenerire i due soldati di guardia, che la portarono a parlare col direttore del carcere. Nonostante la tragicità della situazione, o forse in sua conseguenza, L’Enrica scoppiò a ridere in faccia all’ufficiale grande e gross perché le sembrava che avesse modi da frocio. Dovette rifugiarsi in bagno per calmare la ridarella, mentre Marisa si spendeva per convincere il soldato a restituire suo marito. Alla fine le portarono a incontrare Umberto, che in tutto quel tempo non aveva avuto contatti dall’esterno e che, vedendo comparire moglie e sorella, svenne sul posto .
All’aeroporto Umberto si dispiacque di dover lasciare in Zambia il suo fucile da caccia, che affidò a un impiegato dell’aeroporto, consapevole che non l’avrebbe mai più visto. Anni dopo Samora Machel, eroe della liberazione mozambicana e primo presidente del Mozambico libero, sarebbe sceso da un aereo proveniente dallo Zambia col fucile di Fusaroli in mano. “Ehi, Fusaroli! Guarda un po’ cos’ho trovato in Zambia!”. Come aveva fatto ? Chi lo sa. Uomini così non ne esistono più, assicura Marisa.
Una volta in Tanzania, il Frelimo procurò un lavoro come cuoca a Marisa per mantenere sé e il figlio Antonio mentre Umberto diventava a tutti gli effetti guerrigliero del fronte. Indispensabile la sua esperienza come partigiano dei GAP : “dobbiamo essere come pulci sulla pancia dell’elefante”, diceva ai suoi. Intanto, i membri della Frelimo in Tanzania frequentavano il ristorante di Marisa e si facevano passare la paura dei proiettili mangiando le sue tagliatelle.
Nel ’74 la rivoluzione dei garofani in Portogallo mise fine al regime e quindi alla guerra civile: il potere coloniale crollò come un castello di carte. Umberto, Marisa e Samora Machel, trio inseparabile, appresero della fine del colonialismo dalla radio: alla notizia Samora si mise le mani nei capelli e dice: “ Ma come facciamo? Ci mancano i quadri…” .
E così, un’armata brancaleone raffazzonata alla bell’e meglio formò il governo del Mozambico indipendente. Samora primo ministro, un portoghese dissidente diplomato in ragioneria come presidente della Banca centrale, Umberto ministro del Turismo … e dietro le quinte, le tagliatelle e i cappelletti di Marisa. Che, avvolta dai ricordi, di tanto in tanto affonda nella lingua in cui questi ricordi erano parlati: “ per un periodo vivemmo in una Machamba…come si dice in italiano Machamba? Ah sì: fattoria”.
Il paese era allo sbando. I portoghesi si erano portati via persino le matite. Avevano rubato tutto quello che c’era da rubare, e siccome non potevano portare via i palazzi, avevano colato cemento in tutte le tubature. Ma si era vinta una scommessa con la storia e adesso c’era da ritirare l’ingombrante premio. Toccò a Marisa allestire il primo ricevimento diplomatico del presidente Machel, che durante i preparativi una volta la rimproverò vedendola salire su una scala a pioli: “Scendi subito di lì! Che succede se ti fai male? Che facciamo noi senza di te?”. Quella sera il piccolo Antonio, stanco di aspettare l’inizio della cena di gala, sgattaiolò in cucina e si strafogò di cosce di pollo. Samora lo scoprì, gli porse la mano per stringergliela e disse: “Complimenti: già ti piacciono le gambe!”.
Ripete Marisa: non ce ne son mica più di uomini così . Infatti l’hanno ammazzato. Sì: sul volo 1771 da Lusaka a Maputo, in un giorno di ottobre del 1986. Oggi sappiamo che non fu un incidente imputabile alla vodka bevuta dal pilota russo, come scrissero i media occidentali, ma un sofisticato complotto ideato dal Sudafrica dell’apartheid (che dai suoi confini finanziava la guerriglia fascista della Renamo) con la complicità di alcuni membri corrotti del governo di Samora.
Per Umberto e Marisa , la morte di Samora fu “un colpo da cui non ci siamo mai più ripresi”, ma non un fulmine a ciel sereno. Pochi anni prima, Umberto aveva lavorato nel controspionaggio sudafricano, facendo il doppio gioco per ottenere preziose informazioni da riferire a Samora. I due sapevano bene che nel governo dilagava la corruzione, e i tentativi di arginarla prendevano sempre più il gusto amaro di una battaglia contro i mulini a vento. “L’ultima volta che l’ho visto, tremava come una foglia” sospira Marisa. Alla loro guerra persa contro i corrotti, comunque, Umberto non rinunciò a combattere in solitario: diventò procuratore anti-mafia e si trasformò nell’incubo di una delle più potenti famiglie mafiose del paese.
E’ per questo che nella primavera del ’91 un commando lo aspettava davanti al cancello di casa per crivellare la sua jeep di pallottole. Tre colpi lo raggiunsero, un proiettile gli sfiorò la giugulare: quando Marisa arrivò in ospedale, lui era così coperto di sangue che gli infermieri dovevano buttargli secchiate d’acqua addosso per trovare i buchi dei proiettili. Nonostante tutto , era ancora cosciente e vedendola esclamò : “ Cosa urli? La Marisa che conosco io non urla. Corri nel mio ufficio e prendi i documenti della cartella grigia”. In trance, lei ubbidì. Poi tornò in ospedale preparata al peggio. Ma lui era ancora lì,vivo, ricucito e incazzato nero. Pochi giorni dopo si presentò al suo capezzale un ragazzo, raccontandogli di essere stato assoldato come suo killer ma di essersi rifiutato all’ultimo momento perché una sua cugina aveva lavorato per anni come impiegata nell’ufficio di Fusaroli. Era disposto a denunciare i mandanti. Umberto preparò una conferenza stampa a casa sua: quando arrivarono i giornalisti, lui uscì di casa per andare a prendere il ragazzo che doveva testimoniare. Di nuovo, a un incrocio di Maputo, la sua auto fu crivellata di colpi. Erano passati 45 giorni dall’attentato precedente. Di nuovo, Marisa corse all’ospedale convinta che sia la fine. Ma al suo arrivo Umberto era già fuori pericolo e gli chiese di andare a casa col testimone e di tenere la conferenza stampa al suo posto. Marisa si presentò ai giornalisti comprensibilmente fuori di testa, trascinando il testimone –leggermente ferito nell’agguato- che diede la sua testimonianza in diretta televisiva.
A questo punto, a Marisa viene da sorridere. Forse ci sono istanti in cui, all’improvviso, si rende conto della grandezza. Forse sta rivedendo la sé stessa di diciassette anni prima a quella conferenza stampa. O quella di trent’anni fa, che accendeva fuochi nella savana di Beira per cucinare cappelletti alla delegazione di Reggio Emilia che portava aiuti via nave al Mozambico socialista di Samora Machel. O ancora prima, scortata dalla polizia della Rhodesia col figlio neonato fra le braccia, espulsa in quanto moglie di un comunista fuggiasco; o con l’Enrica nel carcere di Lusaka, da quel negrone pezzo grosso con la voce da frocio, disposta a tutto per far liberare il suo partigiano eterno .
Accarezza il Chiwawa mestruato, e conclude come se niente fosse : “Comunque, io le storie più incredibili non ce le ho su di me : ce le ho sugli animali. Le cose che io ho visto fare agli animali…ci vorrebbe un libro”.
Altro che grandi uomini, grandi idee e grandi sogni. A quel sogno, il loro, Umberto e Marisa hanno rinunciato infine nel 1997, tornando a vivere a Bertinoro di Forlì. Così Umberto riassumeva la sua vita: “In vita mia ho vinto tutte le guerre di liberazione che ho combattuto…e perso tutte le paci seguenti”. E’ morto per non aver rispettato la precedenza a un incrocio, a ottantaquattro anni, il 21 settembre 2007.
La seconda volta che andai in visita da Marisa Fusaroli Casadei fu dopo il mio ritorno dal Mozambico, a febbraio. Mi alzai che era ancora buio per prendere il treno delle sei, e l’alba sulla campagna emiliana che lentamente si trasformava in romagnola ospitava le case sventrate lungo la ferrovia, simili alle vecchie case coloniche dei portoghesi abbandonate nella savana mozambicana fra Chokwue e Chiqualaquala.
Alla stazione di Forlimpopoli Marisa venne a prendermi con Mohamed , marito marocchino della sua amica marocchina Mojouba. Anni prima, Majouba aveva lavorato come donna delle pulizie per Marisa. Poi aveva trovato un altro lavoro, ma la sua famiglia era rimasta affezionata a Marisa e quando aveva bisogno di un passaggio,era Mohamed che la scarrozzava. “Hanno tre figlie bellissime” dice Marisa mentre risalivamo i tornanti della collina di Bertinoro. Mentre li aspettavo davanti alla stazione, mi lasciai affascinare dalla fabbrica abbandonata sulla sinistra. “Era uno zuccherificio” mi dice Mohamed. “Uno dei più importanti d’Italia. Qualche anno fa, una direttiva dell’unione Europea ha imposto all’italia di chiudere alcuni stabilimenti per diminuire la produzione di zucchero, fra cui questo di Forlimpopoli”. “Tutti i campi che vedi erano coltivati a barbabietola da zucchero” continua Marisa, con il solito chihuahua che le si arrampica sul collo. “Sono figlia di contadini, contadina nel sangue per sempre. Anche noi coltivavamo barbabietole che dopo il raccolto mio padre portava allo stabilimento”. Mi immagino Marisa cantare fra le piante di barbabietola le melodie che ho sentito nei campi di Chokwue , ma in dialetto romagnolo anziché in shangane.
“Questo cane non la smette mai di mordicchiarmi” dice del cane. Mohamed commenta: “è perché ti vuole bene”. Mi dà la sensazione di uno scambio di battute che si ripete varie volte al giorno.
A casa, io mi siedo sulla stessa poltrona dell’altra volta. E’ una giornata di sole che va e viene. Sotto di noi, ai piedi della collina di Bertinoro, comincia l’immensa distesa della pianura padana. Casa nostra, ci piaccia o non ci piaccia. “Mi sono ricordata una cosa” dice sedendosi sulla sua poltrona. “Il padre di Umberto, quello che fu fucilato dai fascisti nel ’43 insieme a suo fratello... Quando aveva solo 9 anni se ne andò in America a lavorare in un cantiere. E sai cosa si costruiva in quel cantiere? Una delle ville della famiglia Rosevelt. Antonio raccontava che il futuro presidente Rosevelt, che ogni tanto passava dal cantiere, invitava il ragazzino a bere un bicchier d’acqua. Gli diceva lunghe frasi di cui Antonio capiva solo la parola boy, come lo chiamava il Rosevelt. Ma gli sembrava un uomo simpatico.Forse è per questo che Antonio non divenne un anarchico come suo fratello Gaetano, ma un repubblicano. E Umberto, figlio dell’uno e nipote dell’altro, né anarchico né repubblicano: comunista. Andò in montagna per unirsi alla guerriglia partigiana a diciassette anni non ancora compiuti. Seppe della fucilazione del padre e dello zio con molti giorni di ritardo”. Fa una pausa mentre accarezza il cane. Deve aver sentito tante volte certi racconti da sentirli propri come se li avesse vissuti. “Invece l’Enrica, ti ricordi dell’Enrica, la sorella diUmberto?” Sì, rispondo, “è quella con cui eri andata in Zambia a tirare Umberto fuori dal carcere, e lei aveva avuto una crisi isterica di riso davanti al responsabile ”. Marisa sorride. “Proprio lei. Beh, aveva sedici anni la notte in cui vennero a prendere suo padre. I fascisti lo tirarono giù da letto. L’Enrica si appese alla gamba di suo padre mentre lo portavano fuori. Fu trascinata anche lei fino alla strada. Urlava come una pazza e non mollava. La presero a calci finchè non lasciò la gamba di suo padre, e la lasciarono per terra”.
Non dico niente. Marisa riprende il filo da un po’ più indietro. “Insomma coi soldi guadagnati in America i fratelli tornarono a Bertinoro all’inizio degli anni ’30 e aprirono un piccolo emporio. Quei negozietti in cui si vendeva di tutto, che adesso non ci sono più.
Dopo aver fucilato Antonio e Gaetano, i fascisti requisirono il negozio. Alle vedove sai cosa restituirono? Una scatola intera di “pagherò”.I poveracci di Bertinoro all’emporio lasciavano conti infiniti da pagare. I Fusaroli non sapevano dir di no a nessuno”.
Ci spostiamo sul tavolo per sfogliare tre enormi album di foto. Un viaggio nel tempo e nel mondo. Marisa da giovane è stata una donna bellissima. Vacillo un po’ prima di azzardarmi a chiederle: “Ma non ti hanno mai detto che assomigliavi a Sophia Loren?” Lei gongola un po’. “sì, me lo dicevano”, ma poi si imbarazza e cambia argomento. Mi immagino questa donna bellissima a dirigere la mensa di una raffineria nel sud della Tanzania, dar da mangiare cappelletti a operai e ribelli mozambicani in esilio, impastare e lavare pentole e fare conti e tenere a bada fiumi di avances con le mani sui fianchi e la lingua tagliente e la preoccupazione costante e nascosta per il suo uomo eternemente coinvolto in qualche lotta di liberazione.
Ci sono anche diverse foto di lei con Samora Machel e la moglie Graça, che oggi è sposata con Nelson Mandela. Ma la foto più divertente ritrae Marisa ridere in compagnia di una bianca piuttosto anziana. “Violet” spiega. “Un’inglese militante del partito comunista sudafricano, in esilio in Tanzania. Era già piuttosto anzianotta quando la conobbi, e un po’ arteriosclerotica, a volte cercava di picchiarmi senza motivo. Secondo me era matta schianta come un banchetto anche senza l’arterioscelerosi. Mi faceva un ridere…”.
Arriva l’ora di pranzo: mi insegna a fare i passatelli in brodo. Vengono buonissimi. Mi chiede un po’ di me, dei miei viaggi. Nella sua vita di giramondo sui generis, un rimpianto ce l’ha: non esser mai stata in Brasile. “Del resto se andavo in brasile mi innamoravo di un brasiliano e non andava mica bene”. A proposito di Brasile, finiamo di mangiare in tempo per l’inizio della sua telenovela preferita: Terra Nostra, sui migranti italiani nel sud del brasile all’inizio del secolo. Suona il campanello: è Zara, la figlia maggiore di Mohamed e Majouba. Viene sempre a guardare Terra Nostra con Marisa. Ha dieci anni e da grande vuole fare la pediatra. E’ lei che poi mi accompagna alla fermata dell’autobus per la stazione di Forlimpopoli, ma prima insiste perché passi in tabaccheria a comprare il biglietto.
Mentre l’autobus scende la collina e io guardo i campi dove una volta si coltivava barbabietola,penso a Antonio e Gaetano Fusaroli,ancora ragazzini, migranti in America. Penso a Mohamed che mi spiega le direttive europee sullo zucchero e a Majouba che vuol bene a Marisa perché è stata più amica che datrice di lavoro. Poi penso al decreto legge sulla sicurezza razzista e repressivo sfornato dal governo pochi giorni fa. Ne ho parlato con Marisa. “Marisa, non ti sembra che stiano tornando?”le ho chiesto. Mi ha guardato da un mondo lontano, “Sono già qui” ha mormorato.
Ma in casa sua, dove Zara va e viene per guardare una telenovela, arriveranno troppo tardi.
http://lucelucilla.podomatic.com/entry/2011-05-10T04_32_02-07_00
Non sono la prima emiliana a mettere piede in Mozambico.
Figuriamoci. E siccome era la mia prima volta in Africa, m'è venuto in mente di conoscere qualcuno che c'era stato in decenni differenti.
Sono andata in treno, provincia di Forlì, a incontrare questi Fusaroli Casadei un paio di settimane prima di partire per il Mozambico. Dal finestrino l’Emilia si è inesorabilmente trasformata in Romagna, la pianura era tutta una balla di fieno.La nostra campagna è bella in questa stagione, rassegnata alla fine dell’estate ma ancora sgombera dalle nebbie autunnali.
Alla stazione di Forlimpopoli mi viene a prendere Antonio detto Gaetano, figlio di Umberto Fusaroli e della moglie Marisa (anche mia nonna di Livorno si chiama Marisa). Ha degli occhiali da sole da killer che mi lasciano un po’ per plessa, ma quando se li toglie svela un’aria da pacioccone romagnolo. Fa il pilota per l’Alitalia, e sono i giorni in cui sta per fallire definitivamente. Mentre guida, mi spiega i punti della trattativa: mi sembra che abbiano ragione loro, i piloti, a non volerla accettare. Comunque mi riprometto di leggere l’indomani Il Manifesto sull’intera vicenda.
I Fusaroli Casadei se ne andarono dall’Italia all’inizio degli anni sessant’anni , delusi dalla piega che avevano preso la storia e la sinistra in Italia dopo la liberazione.
Andarono da un vecchio amico che viveva nell’allora Rhodesia (oggi Zimbabwe) di Ian Smith, un ex mercenario inglese che aveva fondato il suo impero sull’ideologia razzista. Da lì, Umberto prese contatti col Frelimo – il Frente di Liberazione del Mozambico, che confinava a est con la Rhodesia - e , lavorando come traduttore per il governo di Smith, raccoglieva intanto preziose informazioni per il Frelimo. Appena prima che il cerchio della polizia rhodesiana si chiudesse su di lui, un collega inglese che gli si era affezionato lo avvertì che entro poche ore sarebbe stato arrestato e fucilato. Umberto caricò sulla Volkswagen i suoi libri e il suo fucile da caccia, salutò Marisa e scappò sgommando verso il confine con lo Zambia. Passò la frontiera alle primi luci dell’alba, sfondando-letteralmente- il blocco dei Rhodesiani.
Fu bloccato alcuni chilometri dopo dalla polizia dello Zambia: convinse le autorità a non rispedirlo indietro ma, piuttosto, dii incarcerarlo a Lusaka, capitale dello Zambia. Qui trovò un ufficiale che parlava qualche parola di italiano e lo pregò di telefonare a Marisa, ancora in Rhodesia, per fargli sapere dove si trovava e cosa avrebbe dovuto fare : partire alla volta dell’Italia, dove lasciò il piccolo Antonio e convinse Enrica, la sorella di Umberto, a seguirla in Africa per cercare di liberare il fratello. Le due si recarono prima in Tanzania, dove si trovavano la maggior parte dei leader del Frelimo mozambicano in esilio. L’idea era di far intercedere il Frelimo presso l’autorità dello Zambia per far liberare Umberto: giunte a Dar es Saalam, le due romagnole furono ricevute dal generale guerrigliero Chissano, che vent'anni più tardi sarebbe stato il secondo presidente del Mozambico democratico. Marisa racconta che, quando Chissano entrò, Enrica si girò verso di lei con gli occhi fuori dalle orbite ed esclamò: “ Mo Marisa, mo saran tut axè di bel li niger?” (“Marisa, ma saranno tutti così belli i negri ?!).
Chissano diede loro una lettera di raccomandazione e le due partirono alla volta di Lusaka. Giunte al carcere, chiesero di incontrare Umberto Fusaroli. I carcerieri negarono che si trovasse lì. Marisa si scaldò così tanto, col poco inglese che conosceva, da intimorire o intenerire i due soldati di guardia, che la portarono a parlare col direttore del carcere. Nonostante la tragicità della situazione, o forse in sua conseguenza, L’Enrica scoppiò a ridere in faccia all’ufficiale grande e gross perché le sembrava che avesse modi da frocio. Dovette rifugiarsi in bagno per calmare la ridarella, mentre Marisa si spendeva per convincere il soldato a restituire suo marito. Alla fine le portarono a incontrare Umberto, che in tutto quel tempo non aveva avuto contatti dall’esterno e che, vedendo comparire moglie e sorella, svenne sul posto .
All’aeroporto Umberto si dispiacque di dover lasciare in Zambia il suo fucile da caccia, che affidò a un impiegato dell’aeroporto, consapevole che non l’avrebbe mai più visto. Anni dopo Samora Machel, eroe della liberazione mozambicana e primo presidente del Mozambico libero, sarebbe sceso da un aereo proveniente dallo Zambia col fucile di Fusaroli in mano. “Ehi, Fusaroli! Guarda un po’ cos’ho trovato in Zambia!”. Come aveva fatto ? Chi lo sa. Uomini così non ne esistono più, assicura Marisa.
Una volta in Tanzania, il Frelimo procurò un lavoro come cuoca a Marisa per mantenere sé e il figlio Antonio mentre Umberto diventava a tutti gli effetti guerrigliero del fronte. Indispensabile la sua esperienza come partigiano dei GAP : “dobbiamo essere come pulci sulla pancia dell’elefante”, diceva ai suoi. Intanto, i membri della Frelimo in Tanzania frequentavano il ristorante di Marisa e si facevano passare la paura dei proiettili mangiando le sue tagliatelle.
Nel ’74 la rivoluzione dei garofani in Portogallo mise fine al regime e quindi alla guerra civile: il potere coloniale crollò come un castello di carte. Umberto, Marisa e Samora Machel, trio inseparabile, appresero della fine del colonialismo dalla radio: alla notizia Samora si mise le mani nei capelli e dice: “ Ma come facciamo? Ci mancano i quadri…” .
E così, un’armata brancaleone raffazzonata alla bell’e meglio formò il governo del Mozambico indipendente. Samora primo ministro, un portoghese dissidente diplomato in ragioneria come presidente della Banca centrale, Umberto ministro del Turismo … e dietro le quinte, le tagliatelle e i cappelletti di Marisa. Che, avvolta dai ricordi, di tanto in tanto affonda nella lingua in cui questi ricordi erano parlati: “ per un periodo vivemmo in una Machamba…come si dice in italiano Machamba? Ah sì: fattoria”.
Il paese era allo sbando. I portoghesi si erano portati via persino le matite. Avevano rubato tutto quello che c’era da rubare, e siccome non potevano portare via i palazzi, avevano colato cemento in tutte le tubature. Ma si era vinta una scommessa con la storia e adesso c’era da ritirare l’ingombrante premio. Toccò a Marisa allestire il primo ricevimento diplomatico del presidente Machel, che durante i preparativi una volta la rimproverò vedendola salire su una scala a pioli: “Scendi subito di lì! Che succede se ti fai male? Che facciamo noi senza di te?”. Quella sera il piccolo Antonio, stanco di aspettare l’inizio della cena di gala, sgattaiolò in cucina e si strafogò di cosce di pollo. Samora lo scoprì, gli porse la mano per stringergliela e disse: “Complimenti: già ti piacciono le gambe!”.
Ripete Marisa: non ce ne son mica più di uomini così . Infatti l’hanno ammazzato. Sì: sul volo 1771 da Lusaka a Maputo, in un giorno di ottobre del 1986. Oggi sappiamo che non fu un incidente imputabile alla vodka bevuta dal pilota russo, come scrissero i media occidentali, ma un sofisticato complotto ideato dal Sudafrica dell’apartheid (che dai suoi confini finanziava la guerriglia fascista della Renamo) con la complicità di alcuni membri corrotti del governo di Samora.
Per Umberto e Marisa , la morte di Samora fu “un colpo da cui non ci siamo mai più ripresi”, ma non un fulmine a ciel sereno. Pochi anni prima, Umberto aveva lavorato nel controspionaggio sudafricano, facendo il doppio gioco per ottenere preziose informazioni da riferire a Samora. I due sapevano bene che nel governo dilagava la corruzione, e i tentativi di arginarla prendevano sempre più il gusto amaro di una battaglia contro i mulini a vento. “L’ultima volta che l’ho visto, tremava come una foglia” sospira Marisa. Alla loro guerra persa contro i corrotti, comunque, Umberto non rinunciò a combattere in solitario: diventò procuratore anti-mafia e si trasformò nell’incubo di una delle più potenti famiglie mafiose del paese.
E’ per questo che nella primavera del ’91 un commando lo aspettava davanti al cancello di casa per crivellare la sua jeep di pallottole. Tre colpi lo raggiunsero, un proiettile gli sfiorò la giugulare: quando Marisa arrivò in ospedale, lui era così coperto di sangue che gli infermieri dovevano buttargli secchiate d’acqua addosso per trovare i buchi dei proiettili. Nonostante tutto , era ancora cosciente e vedendola esclamò : “ Cosa urli? La Marisa che conosco io non urla. Corri nel mio ufficio e prendi i documenti della cartella grigia”. In trance, lei ubbidì. Poi tornò in ospedale preparata al peggio. Ma lui era ancora lì,vivo, ricucito e incazzato nero. Pochi giorni dopo si presentò al suo capezzale un ragazzo, raccontandogli di essere stato assoldato come suo killer ma di essersi rifiutato all’ultimo momento perché una sua cugina aveva lavorato per anni come impiegata nell’ufficio di Fusaroli. Era disposto a denunciare i mandanti. Umberto preparò una conferenza stampa a casa sua: quando arrivarono i giornalisti, lui uscì di casa per andare a prendere il ragazzo che doveva testimoniare. Di nuovo, a un incrocio di Maputo, la sua auto fu crivellata di colpi. Erano passati 45 giorni dall’attentato precedente. Di nuovo, Marisa corse all’ospedale convinta che sia la fine. Ma al suo arrivo Umberto era già fuori pericolo e gli chiese di andare a casa col testimone e di tenere la conferenza stampa al suo posto. Marisa si presentò ai giornalisti comprensibilmente fuori di testa, trascinando il testimone –leggermente ferito nell’agguato- che diede la sua testimonianza in diretta televisiva.
A questo punto, a Marisa viene da sorridere. Forse ci sono istanti in cui, all’improvviso, si rende conto della grandezza. Forse sta rivedendo la sé stessa di diciassette anni prima a quella conferenza stampa. O quella di trent’anni fa, che accendeva fuochi nella savana di Beira per cucinare cappelletti alla delegazione di Reggio Emilia che portava aiuti via nave al Mozambico socialista di Samora Machel. O ancora prima, scortata dalla polizia della Rhodesia col figlio neonato fra le braccia, espulsa in quanto moglie di un comunista fuggiasco; o con l’Enrica nel carcere di Lusaka, da quel negrone pezzo grosso con la voce da frocio, disposta a tutto per far liberare il suo partigiano eterno .
Accarezza il Chiwawa mestruato, e conclude come se niente fosse : “Comunque, io le storie più incredibili non ce le ho su di me : ce le ho sugli animali. Le cose che io ho visto fare agli animali…ci vorrebbe un libro”.
Altro che grandi uomini, grandi idee e grandi sogni. A quel sogno, il loro, Umberto e Marisa hanno rinunciato infine nel 1997, tornando a vivere a Bertinoro di Forlì. Così Umberto riassumeva la sua vita: “In vita mia ho vinto tutte le guerre di liberazione che ho combattuto…e perso tutte le paci seguenti”. E’ morto per non aver rispettato la precedenza a un incrocio, a ottantaquattro anni, il 21 settembre 2007.
La seconda volta che andai in visita da Marisa Fusaroli Casadei fu dopo il mio ritorno dal Mozambico, a febbraio. Mi alzai che era ancora buio per prendere il treno delle sei, e l’alba sulla campagna emiliana che lentamente si trasformava in romagnola ospitava le case sventrate lungo la ferrovia, simili alle vecchie case coloniche dei portoghesi abbandonate nella savana mozambicana fra Chokwue e Chiqualaquala.
Alla stazione di Forlimpopoli Marisa venne a prendermi con Mohamed , marito marocchino della sua amica marocchina Mojouba. Anni prima, Majouba aveva lavorato come donna delle pulizie per Marisa. Poi aveva trovato un altro lavoro, ma la sua famiglia era rimasta affezionata a Marisa e quando aveva bisogno di un passaggio,era Mohamed che la scarrozzava. “Hanno tre figlie bellissime” dice Marisa mentre risalivamo i tornanti della collina di Bertinoro. Mentre li aspettavo davanti alla stazione, mi lasciai affascinare dalla fabbrica abbandonata sulla sinistra. “Era uno zuccherificio” mi dice Mohamed. “Uno dei più importanti d’Italia. Qualche anno fa, una direttiva dell’unione Europea ha imposto all’italia di chiudere alcuni stabilimenti per diminuire la produzione di zucchero, fra cui questo di Forlimpopoli”. “Tutti i campi che vedi erano coltivati a barbabietola da zucchero” continua Marisa, con il solito chihuahua che le si arrampica sul collo. “Sono figlia di contadini, contadina nel sangue per sempre. Anche noi coltivavamo barbabietole che dopo il raccolto mio padre portava allo stabilimento”. Mi immagino Marisa cantare fra le piante di barbabietola le melodie che ho sentito nei campi di Chokwue , ma in dialetto romagnolo anziché in shangane.
“Questo cane non la smette mai di mordicchiarmi” dice del cane. Mohamed commenta: “è perché ti vuole bene”. Mi dà la sensazione di uno scambio di battute che si ripete varie volte al giorno.
A casa, io mi siedo sulla stessa poltrona dell’altra volta. E’ una giornata di sole che va e viene. Sotto di noi, ai piedi della collina di Bertinoro, comincia l’immensa distesa della pianura padana. Casa nostra, ci piaccia o non ci piaccia. “Mi sono ricordata una cosa” dice sedendosi sulla sua poltrona. “Il padre di Umberto, quello che fu fucilato dai fascisti nel ’43 insieme a suo fratello... Quando aveva solo 9 anni se ne andò in America a lavorare in un cantiere. E sai cosa si costruiva in quel cantiere? Una delle ville della famiglia Rosevelt. Antonio raccontava che il futuro presidente Rosevelt, che ogni tanto passava dal cantiere, invitava il ragazzino a bere un bicchier d’acqua. Gli diceva lunghe frasi di cui Antonio capiva solo la parola boy, come lo chiamava il Rosevelt. Ma gli sembrava un uomo simpatico.Forse è per questo che Antonio non divenne un anarchico come suo fratello Gaetano, ma un repubblicano. E Umberto, figlio dell’uno e nipote dell’altro, né anarchico né repubblicano: comunista. Andò in montagna per unirsi alla guerriglia partigiana a diciassette anni non ancora compiuti. Seppe della fucilazione del padre e dello zio con molti giorni di ritardo”. Fa una pausa mentre accarezza il cane. Deve aver sentito tante volte certi racconti da sentirli propri come se li avesse vissuti. “Invece l’Enrica, ti ricordi dell’Enrica, la sorella diUmberto?” Sì, rispondo, “è quella con cui eri andata in Zambia a tirare Umberto fuori dal carcere, e lei aveva avuto una crisi isterica di riso davanti al responsabile ”. Marisa sorride. “Proprio lei. Beh, aveva sedici anni la notte in cui vennero a prendere suo padre. I fascisti lo tirarono giù da letto. L’Enrica si appese alla gamba di suo padre mentre lo portavano fuori. Fu trascinata anche lei fino alla strada. Urlava come una pazza e non mollava. La presero a calci finchè non lasciò la gamba di suo padre, e la lasciarono per terra”.
Non dico niente. Marisa riprende il filo da un po’ più indietro. “Insomma coi soldi guadagnati in America i fratelli tornarono a Bertinoro all’inizio degli anni ’30 e aprirono un piccolo emporio. Quei negozietti in cui si vendeva di tutto, che adesso non ci sono più.
Dopo aver fucilato Antonio e Gaetano, i fascisti requisirono il negozio. Alle vedove sai cosa restituirono? Una scatola intera di “pagherò”.I poveracci di Bertinoro all’emporio lasciavano conti infiniti da pagare. I Fusaroli non sapevano dir di no a nessuno”.
Ci spostiamo sul tavolo per sfogliare tre enormi album di foto. Un viaggio nel tempo e nel mondo. Marisa da giovane è stata una donna bellissima. Vacillo un po’ prima di azzardarmi a chiederle: “Ma non ti hanno mai detto che assomigliavi a Sophia Loren?” Lei gongola un po’. “sì, me lo dicevano”, ma poi si imbarazza e cambia argomento. Mi immagino questa donna bellissima a dirigere la mensa di una raffineria nel sud della Tanzania, dar da mangiare cappelletti a operai e ribelli mozambicani in esilio, impastare e lavare pentole e fare conti e tenere a bada fiumi di avances con le mani sui fianchi e la lingua tagliente e la preoccupazione costante e nascosta per il suo uomo eternemente coinvolto in qualche lotta di liberazione.
Ci sono anche diverse foto di lei con Samora Machel e la moglie Graça, che oggi è sposata con Nelson Mandela. Ma la foto più divertente ritrae Marisa ridere in compagnia di una bianca piuttosto anziana. “Violet” spiega. “Un’inglese militante del partito comunista sudafricano, in esilio in Tanzania. Era già piuttosto anzianotta quando la conobbi, e un po’ arteriosclerotica, a volte cercava di picchiarmi senza motivo. Secondo me era matta schianta come un banchetto anche senza l’arterioscelerosi. Mi faceva un ridere…”.
Arriva l’ora di pranzo: mi insegna a fare i passatelli in brodo. Vengono buonissimi. Mi chiede un po’ di me, dei miei viaggi. Nella sua vita di giramondo sui generis, un rimpianto ce l’ha: non esser mai stata in Brasile. “Del resto se andavo in brasile mi innamoravo di un brasiliano e non andava mica bene”. A proposito di Brasile, finiamo di mangiare in tempo per l’inizio della sua telenovela preferita: Terra Nostra, sui migranti italiani nel sud del brasile all’inizio del secolo. Suona il campanello: è Zara, la figlia maggiore di Mohamed e Majouba. Viene sempre a guardare Terra Nostra con Marisa. Ha dieci anni e da grande vuole fare la pediatra. E’ lei che poi mi accompagna alla fermata dell’autobus per la stazione di Forlimpopoli, ma prima insiste perché passi in tabaccheria a comprare il biglietto.
Mentre l’autobus scende la collina e io guardo i campi dove una volta si coltivava barbabietola,penso a Antonio e Gaetano Fusaroli,ancora ragazzini, migranti in America. Penso a Mohamed che mi spiega le direttive europee sullo zucchero e a Majouba che vuol bene a Marisa perché è stata più amica che datrice di lavoro. Poi penso al decreto legge sulla sicurezza razzista e repressivo sfornato dal governo pochi giorni fa. Ne ho parlato con Marisa. “Marisa, non ti sembra che stiano tornando?”le ho chiesto. Mi ha guardato da un mondo lontano, “Sono già qui” ha mormorato.
Ma in casa sua, dove Zara va e viene per guardare una telenovela, arriveranno troppo tardi.
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venerdì 22 aprile 2011
Curve di Jandira. Le storie di Rejeanie e Gianchi
copiando questo link potrete ascoltare il podcast del racconto sulle storie di Rejeanie e Gianchi,a Jandira di sao Paulo, andato in onda su Radio Kairos.
http://lucelucilla.podomatic.com/entry/2011-04-21T16_03_56-07_00
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martedì 29 marzo 2011
paura di non morire
Questa è la storia di erik. La prima. Quella da cui nasce il mio amore per le storie degli altri.
Potete ascoltarla con la voce di Carla Vitantonio e le musiche di Valentina del Greco
http://lucelucilla.podomatic.com/entry/2011-03-28T14_41_20-07_00
PAURA DI NON MORIRE
Immaginatevi un biondino a tinte chiare sulla cinquantina, che forse, se Kurt Cobain avesse raggiunto quell’età, gli avrebbe assomigliato un po’. Nell’unica foto che ho di lui, fuma una canna enorme, accovacciato a terra, e la massa di capelli biondi gli nasconde il volto e l’età proprio come a una rockstar.
Immaginatevi un appassionato di politica, di giornalismo, e di storie. Allora perché nella sua casa di Copenhagen, non c'erano fotografie? Disegni, soprammobili assurdi, buffi e geniali feticci costruiti con materiale di scarto ma... niente foto.
Negli anni seguenti il nostro pellegrinaggio a Copenhagen, io la coppia di amici che l’avevamo intrapreso parlammo spesso del contenuto variopinto di quella casa, cui eravamo approdati dopo un viaggio che, dentro alla storia che voglio raccontare, sa di parentesi felliniana -treno verso l'aeroporto di Malpensa, volo low cost per Amburgo, trenini locali notturni fino all'ultima città a nord della Germania, taxista taciturno fino al porto marittimo, attesa nella sala d’aspetto posizionata alla base di un faro, traghetto fino alla sponda danese-Copenhagen.
Tutto perchè Tina, una cara amica di Erik, ci aveva scritto che la sua malattia si era aggravata improvvisamente e che lui non sapeva se e quando avrebbe risposto alle nostre lettere. Prendemmo in parola un ordine che nella mail, in realtà, non compariva: quello di andare a addio a un uomo che era stato il nostro mito nell'ultimo anno - un anno di vita di quelli in cui succede tutto, dopo che per un po' non è successo granché. Un anno in cui un mito è un vero compagno di strada, e non è pensabile che sparisca senza lasciare tracce, figuriamoci che muoia.
L'avevamo salutato dodici mesi prima davanti a una tazza cioccolata a San Cristobal de Las Casas, Chiapas, nella sede di Indymedia di cui Erik era il coordinatore, redattore, e despota assoluto. Ma com'è che un danese si trasforma nell'incontro più memorabile di una lunga permanenza nel Chiapas zapatista?Andate in America Latina, ad imparare che l’unica spiegazione definitiva è quasi sempre il paradosso: prendere o lasciare.
Quando Tina ci scrisse, era la stagione in cui ci si sdraiava sui binari per fermare i treni carichi di armi in partenza per l'Iraq. In cui si alternavano le ore di studio a quelle di lavoro per formare un gruzzoletto e poter ripartire per l'America Latina. L'america latina: l'orizzonte per eccellenza. Uno dei pochi che, oltre a spronarci a camminare in qualche direzione purchè fosse, era anche misteriosamente raggiungibile. A portata di sogno e di mano.
Ed Erik per noi era, altrettanto misteriosamente, l'America Latina in persona. Viveva in Chiapas da anni, conosceva il Centramerica come le sue tasche, parlava spagnolo meglio di noi, e aveva una storia incredibile da raccontare per ogni paese che accidentalmente nominavamo.
Prima del Messico, ad esempio, era stato per diverso tempo in Perù, da cui aveva coperto per un giornale danese il sequestro di un centinaio di ostaggi nell'ambasciata giapponese da parte dei Tupac Amaru nel 1996. Dopo l’irruzione delle teste di cuoio ed il massacro di tutti i guerriglieri, Erik era tornato in Danimarca con le viscere contorte e pagine di appunti e rabbia che gli svolazzano dentro agli occhi.
Ma dopo il fiume di sangue dei guerriglieri, un'altra pozzanghera vermiglia lo aspettava. L'amico cui lasciava la casa quando era lontano si era sparato in faccia due giorni prima del suo ritorno. Nella sua cucina. Era troppo tardi per il funerale, ma nessuno aveva ancora lavato via il sangue dal pavimento. Inginocchiato a terra accanto a un secchio, spugna in mano, Erik si disse che quello era il suo modo di seppellirlo, e non si concesse di versare una sola lacrima. Di fronte ai suicidi non è necessario proclamarsi atei, diceva. Laicità e silenzio sono più che sufficienti.
Ma i guai non erano finiti. La mattina che seguì a quella notte di sangue su sangue, il direttore del giornale lo chiamò. Aveva una voce strana. La polizia peruviana aveva appena spiccato un mandato d'arresto internazionale contro Erik, sostenendo che l'appartamento affittato a suo nome proprio davanti all'ambasciata giapponese a Lima era servito ai Tupac Amaru per preparare l'attacco e poi per controllare le mosse di esercito e polizia. Tutto una montatura? Arrivato a questo punto dei suoi racconti, Erik scrollava le spalle e sorrideva, misterioso. E partiva con l’episodio di quando era andato a intervistare un leader della guerriglia in un carcere peruviano con cinque pagine di comunicazioni dei suoi compagni infilate nel culo per consegnargliele alla prima distrazione della guardia.
Per sua fortuna, la Danimarca non concesse l'estradizione, ma in Perù e in diversi paesi latini, ovviamente, non avrebbe potuto mai più mettere piede. Fra questi non c’era il Messico, e ci arrivò poco prima del massacro di Acteal in Chiapas, nel 1997, dopo il quale decise che avrebbe dedicato la sua vita (...il che alla fine quasi sempre vuole dire: una parte significativa di essa) alla causa zapatista. Ancora una volta, il destino ci si mise di mezzo: mentre viveva con due militanti americane, amandone una di traverso sull’amaca, un curandero lo guardò negli occhi e gli diagnosticò la morte nel fegato. Un brutto cancro da cui Erik, guardando a sua volta negli occhi i medici danesi che aggrottavano le sopracciglia, decise di non provare nemmeno a curarsi.
Il perché ce lo spiegò una delle ultime sere che passammo insieme a San Cristobal, davanti alla cioccolata calda che si preparava ogni volta che pioveva, quando guardando dalla finestra lui si ripeteva che sarebbe morto piuttosto che trascorrere un solo altro inverno in Danimarca, dove i medici sono capaci di estrarre la vita dalla morte ma dove lui non riusciva a estrarre una causa degna da una vita come la sua.
Non morì quella volta che noi arrivammo a Copenhagen dopo il nostro viaggio iniziatico e rocambolesco. Nè nei mesi successivi. Continuò a lavorare. E a vomitare. E a rinunciare a curarsi. E a diventare una persona sempre più difficile con cui avere a che fare- oppure, semplicemente, noi lo conoscevamo sempre meglio e il suo abisso si apriva, un po' alla volta, anche sotto ai nostri piedi.
Due anni dopo venne in Italia grazie a un ambizioso progetto della radio pubblica danese, che si era proposta di intervistare i reduci ancora vivi della guerra di Spagna, gli ex brigatisti internazionali, settant’anni dopo. Io gli avevo procurato un’intervista col comandante Giovanni Pesce, membro della brigata Garibaldi in Spagna e poi partigiano nei Gap milanesi nella resistenza italiana.
Dopo l'intervista, Erik si fermò da me una settimana. Era ottobre, io partivo di lì a poco per l'Argentina, così in quella settimana non dovevamo fare altro che montare l'intervista, guardare film in spagnolo e chiacchierare di tutto e del resto. Parlava soprattutto lui, a dire il vero, perché a me sembrava sprecata ogni parola che non aggiungesse un tassello alla sua storia. Forse è stato lui, penso adesso: il mio primo grande amore per le storie degli altri.
Erik era nato una cinquantina d'anni prima a Copenhagen. Era scappato di casa presto a causa del turbolento rapporto col padre, dopo di che era vissuto in strada accendendo fiamme sotto ai cucchiai più ossidati degli anni ’80, finché qualcuno gli aveva offerto di disintossicarsi e andare a lavorare come volontario da qualche parte in Africa. Erik aveva accettato, mosso dall’unica emozione che l’ebbe vinta su di lui, sempre, per una vita intera: la curiosità.
In Africa qualcuno si era accorto che oltre che a inchiodare assi forse il biondino sarebbe stato buono a scrivere i resoconti della missione, da rispedire in Danimarca. Lui accettò controvoglia, ma le annoiate cronache del lavoro dei missionari si trasformarono presto in un appassionato resoconto della situazione di un paese e della storia di un popolo.
Fu così che Erik divenne un giornalista.
Lavorò per un po' per un giornale danese, forte del suo talento, finché un amico tedesco non lo convinse a fare un viaggio in Portogallo, dove conosceva una comunità di fricchettoni che viveva ritirata sulle montagne. In quel periodo, Erik si trascinava in una storia d'amore con più tira e molla che pace, e l'idea gli sembrò un'adeguata exit strategy (“una fuga bella e buona, lo so”ammetteva, col suo accento spezzettato e nordico). Piantò in asso il lavoro al giornale e partì.
La vita nella comunità di tedeschi si rivelò piacevole più del previsto. Coltivava ortaggi e marijuana, si prendeva cura delle pecore. Si affezionò a una pecora già anziana e, quando questa stava per morire, lui le diede da mangiare funghetti allucinogeni: raccontò poi di non aver mai visto uno sguardo così beato come l'ultimo negli occhi di quella pecora, che poi stramazzò al suolo a gambe larghe come nei fumetti.
Mentre ancora elaborava il lutto della pecora si innamorò di una cantante portoghese finita un po' per caso e un po' per stanchezza in quella comunità di tedeschi nelle montagne del suo paese. La conquistò sgominando i topi che li tormentavano: ne catturò uno e lo inchiodò, vivo, alla porta di casa.
Lei non parlava danese e lui non parlava portoghese, così si dicevano il minimo indispensabile in un tedesco improvvisato. Ecco perchè sarebbe potuta durare per sempre, avrebbe riso decenni più tardi Erik. Solo che...solo che un giorno lei cercò e trovò un modo internazionale per dirgli che era incinta.
D'accordo, disse lui. Allora devo andare in Danimarca a mettere le mie cose in soffitta. Lei non capì la parola soffitta ma sorrise.
Quando Erik bussò alla porta di sua madre scoprì che nel frattempo suo padre era morto. Non gli importò: lo aveva sempre odiato. Non sono di quelli che si mettono gratis a rimpiangere i morti, si disse, una merda era e una merda rimane. Ma doveva fermarsi un po' per occuparsi di sua madre. Almeno aiutarla con la burocrazia che lo riguardava. E questo era un guaio. Avrebbe voluto rimanere in Danimarca il meno possibile, perché quando se n'era andato, l'aveva fatto senza dire addio a una persona, e i grandi fantasmi o si guardano in faccia tutti i giorni o è meglio non vederli mai più. Bussò a quella porta senza sapere cosa avrebbe detto.
La mattina dopo, svegliandosi accanto al fantasma, Erik trovò la forza di dirle che sarebbe presto diventato padre per via di una portoghese. E a sé stesso, scappando via, promise che non l’avrebbe mai più vista. Si fermò a bere un caffè in un bar, scottandosi la lingua pur di non pensare a come sarebbe stata la sua vita sotto a quelle coperte.
Accelerò i tempi di ritorno in Portogallo e riuscì a sedersi su un aereo tre settimane dopo. Ma, sbarcato a Lisbona, commise un errore tipico di chi, nonostante apparenze robuste, brancola nel buio: pensò che era il momento di dire, finalmente, addio al fantasma. Meglio al telefono che niente. Ormai, tanto, un continente intero li separava. Entrò in una cabina e fece il numero. La prima volta si scordò di aggiungere il prefisso danese. La seconda trovò occupato. La terza è l'ultima, si disse.
La terza volta lei gli rispose e colse l’occasione per annunciargli che era incinta di lui.
La mattina dopo, svegliandosi accanto alla portoghese, Erik trovò il coraggio di raccontarle tutto, o forse ebbe troppa paura di mantenere questo segreto tutta la vita. Implorò il suo perdono con l'aiuto di un interprete tedesco, e l'interprete dovette dare il suo meglio, o piuttosto sbagliò qualche sinonimo, perchè alla fine la portoghese lo perdonò davvero; anzi, spinta da un'inconcepibile solidarietà femminile - o da una suprema volontà d'ordine- lo convinse persino a tornare in Danimarca a “sistemare la cosa' ”.
Ed Erik non trovò il coraggio di risponderle che non ne aveva il coraggio.
Salì la scala dell'aeroplano come si sale al patibolo. Il fantasma andò a prenderlo all'aeroporto di Copenhagen e, mentre lo abbracciava, gli sussurrò una sola parola all'orecchio: “Proviamoci”. Lui scoppiò a piangere. Piangeva ancora quando per telefono disse alla portoghese che forse il fantasma era davvero l'amore della sua vita.
In realtà, sappiamo noi spettatori, il fantasma era solo un fantasma. All’ottavo mese di gravidanza, i due erano già ai calci, ai pugni e ai piatti fracassati contro le pareti.
Erik ripartì per il Portogallo. Non aveva la minima speranza di tornare con la cantante, voleva solo conoscere suo figlio o sua figlia, il bebè che doveva essere nato qualche settimana prima. Quando arrivò ai piedi della collina su cui aveva vissuto, uno dei suoi vecchi amici tedeschi lo vide e, senza dire una parola, raccolse un bastone da terra. “E' maschio o femmina?” chiese Erik. L'amico sollevò il bastone, minaccioso. Poi capì dal suo sguardo spento che Erik se ne sarebbe andato senza fare tante storie. “Maschio”.
Erik tornò sui suoi passi giù per la montagna, cercando di non chiedersi come sarebbe stata la sua vita su e giù per quel pendio portoghese. All'aeroporto di Lisbona entrò in una cabina, diversa da quella di otto mesi prima, per telefonare al suo vecchio direttore di giornale e dirgli che partiva.
Figlio di puttana, dove sei finito? Dove vai?
Dimmelo tu. Di sicuro vi serve un corrispondente da qualche parte nel mondo.
Ti dirò, rispose il capo, pare che il Perù sia in ebollizione.
Questa parte me le raccontò nella cucina di casa mia, in via Togliatti 18, nella prima periferia della città con la toponomastica più comunista d’Europa. Se ne stava appoggiato alle piastrelle bianche tappezzate di biglietti di buongiorni e buonenotti che ci scambiavamo noi inquiline. Che avrei dovuto fare? Concludeva. Che avrei dovuto fare di quei due amori e delle loro pance esorbitanti? E poi, per salvarsi, aggiungeva: è andata meglio così. Entrambe hanno trovato mariti migliori di quello che sarei stato io. Non parliamo poi del padre che si sono scampati quei due bambini. Anzi, quella bambina danese e quel bambino portoghese. Non li ho mai visti neanche in foto, nè loro me. Credo. Di loro so solo che non mangiano il miele, perchè io lo odio così tanto che i miei geni non accetterebbero compromessi.
E poi il suo fegato se lo portava a vomitare.
Quando se ne andò da casa mia eravamo molto amici. Pensavo lo avrei accompagnato, da amica distante e vicina, verso la morte.
Invece poche settimane dopo, quando mi trovavo già in Argentina, colse un'occasione stupida per litigare con me e non rispose più a nessuna email. Con i miei amici del mitico viaggio a Copenhagen fece lo stesso nel giro di poco tempo.
Grattandosi via con rabbia la polvere dorata di cui lo avevamo cosparso, Erik volle liberarsi di noi. Lo fece sempre in maniere orribili per essere sicuro che non si potessero mettere pezze; lo fece con noi e probabilmente con tutti gli altri, come se stesse ostinatamente cercando di andare da solo incontro alla fine. Forse pensava che se nessuno avesse saputo della sua morte nel momento in cui fosse arrivata, l'umiliazione sarebbe stata un po’ più digeribile.
Ma il destino si è preso gioco di lui. Ancora una volta. La malattia si è ritirata dalle sue tasche, oppure si è fermata a vivacchiare sul loro fondo scucito, come fanno le briciole. Lo so perchè, facendo ricerche su internet, ho scoperto che oggi, sei anni dopo, è ancora vivo, e ancora celebra la guerra di Spagna cronacando il turismo politico di nostalgici danesi.
Non ho voglia di scrivergli per chiedergli se nel frattempo è diventato un santo. Se come tanti ha approfittato della guarigione per votarsi a una religione religiosamente evitata per tutta la vita. O se la terra intorno a lui è ancora bruciata e, seduto al centro, lui si gode l'odore delle fotografie consumate, sciolte dal calore.
Della sua storia mi rimangono una domanda ed un monito: la domanda è se uno dei suoi figli sia riuscito a trovarlo quando era malato, mandando a monte il suo piano. Il monito lo tengo per me: forse ne parlerei solo con lui, il primo complice della mia passione per le storie degli altri, se un giorno, pentito o solo incuriosito, tornasse a cercarci. Lo farà?
Non lo so. Solo i presuntuosi pretendono di sapere dove si trova la parola fine di una storia. Infondo, finché le persone non muoiono, sono vive.
Potete ascoltarla con la voce di Carla Vitantonio e le musiche di Valentina del Greco
http://lucelucilla.podomatic.com/entry/2011-03-28T14_41_20-07_00
PAURA DI NON MORIRE
Immaginatevi un biondino a tinte chiare sulla cinquantina, che forse, se Kurt Cobain avesse raggiunto quell’età, gli avrebbe assomigliato un po’. Nell’unica foto che ho di lui, fuma una canna enorme, accovacciato a terra, e la massa di capelli biondi gli nasconde il volto e l’età proprio come a una rockstar.
Immaginatevi un appassionato di politica, di giornalismo, e di storie. Allora perché nella sua casa di Copenhagen, non c'erano fotografie? Disegni, soprammobili assurdi, buffi e geniali feticci costruiti con materiale di scarto ma... niente foto.
Negli anni seguenti il nostro pellegrinaggio a Copenhagen, io la coppia di amici che l’avevamo intrapreso parlammo spesso del contenuto variopinto di quella casa, cui eravamo approdati dopo un viaggio che, dentro alla storia che voglio raccontare, sa di parentesi felliniana -treno verso l'aeroporto di Malpensa, volo low cost per Amburgo, trenini locali notturni fino all'ultima città a nord della Germania, taxista taciturno fino al porto marittimo, attesa nella sala d’aspetto posizionata alla base di un faro, traghetto fino alla sponda danese-Copenhagen.
Tutto perchè Tina, una cara amica di Erik, ci aveva scritto che la sua malattia si era aggravata improvvisamente e che lui non sapeva se e quando avrebbe risposto alle nostre lettere. Prendemmo in parola un ordine che nella mail, in realtà, non compariva: quello di andare a addio a un uomo che era stato il nostro mito nell'ultimo anno - un anno di vita di quelli in cui succede tutto, dopo che per un po' non è successo granché. Un anno in cui un mito è un vero compagno di strada, e non è pensabile che sparisca senza lasciare tracce, figuriamoci che muoia.
L'avevamo salutato dodici mesi prima davanti a una tazza cioccolata a San Cristobal de Las Casas, Chiapas, nella sede di Indymedia di cui Erik era il coordinatore, redattore, e despota assoluto. Ma com'è che un danese si trasforma nell'incontro più memorabile di una lunga permanenza nel Chiapas zapatista?Andate in America Latina, ad imparare che l’unica spiegazione definitiva è quasi sempre il paradosso: prendere o lasciare.
Quando Tina ci scrisse, era la stagione in cui ci si sdraiava sui binari per fermare i treni carichi di armi in partenza per l'Iraq. In cui si alternavano le ore di studio a quelle di lavoro per formare un gruzzoletto e poter ripartire per l'America Latina. L'america latina: l'orizzonte per eccellenza. Uno dei pochi che, oltre a spronarci a camminare in qualche direzione purchè fosse, era anche misteriosamente raggiungibile. A portata di sogno e di mano.
Ed Erik per noi era, altrettanto misteriosamente, l'America Latina in persona. Viveva in Chiapas da anni, conosceva il Centramerica come le sue tasche, parlava spagnolo meglio di noi, e aveva una storia incredibile da raccontare per ogni paese che accidentalmente nominavamo.
Prima del Messico, ad esempio, era stato per diverso tempo in Perù, da cui aveva coperto per un giornale danese il sequestro di un centinaio di ostaggi nell'ambasciata giapponese da parte dei Tupac Amaru nel 1996. Dopo l’irruzione delle teste di cuoio ed il massacro di tutti i guerriglieri, Erik era tornato in Danimarca con le viscere contorte e pagine di appunti e rabbia che gli svolazzano dentro agli occhi.
Ma dopo il fiume di sangue dei guerriglieri, un'altra pozzanghera vermiglia lo aspettava. L'amico cui lasciava la casa quando era lontano si era sparato in faccia due giorni prima del suo ritorno. Nella sua cucina. Era troppo tardi per il funerale, ma nessuno aveva ancora lavato via il sangue dal pavimento. Inginocchiato a terra accanto a un secchio, spugna in mano, Erik si disse che quello era il suo modo di seppellirlo, e non si concesse di versare una sola lacrima. Di fronte ai suicidi non è necessario proclamarsi atei, diceva. Laicità e silenzio sono più che sufficienti.
Ma i guai non erano finiti. La mattina che seguì a quella notte di sangue su sangue, il direttore del giornale lo chiamò. Aveva una voce strana. La polizia peruviana aveva appena spiccato un mandato d'arresto internazionale contro Erik, sostenendo che l'appartamento affittato a suo nome proprio davanti all'ambasciata giapponese a Lima era servito ai Tupac Amaru per preparare l'attacco e poi per controllare le mosse di esercito e polizia. Tutto una montatura? Arrivato a questo punto dei suoi racconti, Erik scrollava le spalle e sorrideva, misterioso. E partiva con l’episodio di quando era andato a intervistare un leader della guerriglia in un carcere peruviano con cinque pagine di comunicazioni dei suoi compagni infilate nel culo per consegnargliele alla prima distrazione della guardia.
Per sua fortuna, la Danimarca non concesse l'estradizione, ma in Perù e in diversi paesi latini, ovviamente, non avrebbe potuto mai più mettere piede. Fra questi non c’era il Messico, e ci arrivò poco prima del massacro di Acteal in Chiapas, nel 1997, dopo il quale decise che avrebbe dedicato la sua vita (...il che alla fine quasi sempre vuole dire: una parte significativa di essa) alla causa zapatista. Ancora una volta, il destino ci si mise di mezzo: mentre viveva con due militanti americane, amandone una di traverso sull’amaca, un curandero lo guardò negli occhi e gli diagnosticò la morte nel fegato. Un brutto cancro da cui Erik, guardando a sua volta negli occhi i medici danesi che aggrottavano le sopracciglia, decise di non provare nemmeno a curarsi.
Il perché ce lo spiegò una delle ultime sere che passammo insieme a San Cristobal, davanti alla cioccolata calda che si preparava ogni volta che pioveva, quando guardando dalla finestra lui si ripeteva che sarebbe morto piuttosto che trascorrere un solo altro inverno in Danimarca, dove i medici sono capaci di estrarre la vita dalla morte ma dove lui non riusciva a estrarre una causa degna da una vita come la sua.
Non morì quella volta che noi arrivammo a Copenhagen dopo il nostro viaggio iniziatico e rocambolesco. Nè nei mesi successivi. Continuò a lavorare. E a vomitare. E a rinunciare a curarsi. E a diventare una persona sempre più difficile con cui avere a che fare- oppure, semplicemente, noi lo conoscevamo sempre meglio e il suo abisso si apriva, un po' alla volta, anche sotto ai nostri piedi.
Due anni dopo venne in Italia grazie a un ambizioso progetto della radio pubblica danese, che si era proposta di intervistare i reduci ancora vivi della guerra di Spagna, gli ex brigatisti internazionali, settant’anni dopo. Io gli avevo procurato un’intervista col comandante Giovanni Pesce, membro della brigata Garibaldi in Spagna e poi partigiano nei Gap milanesi nella resistenza italiana.
Dopo l'intervista, Erik si fermò da me una settimana. Era ottobre, io partivo di lì a poco per l'Argentina, così in quella settimana non dovevamo fare altro che montare l'intervista, guardare film in spagnolo e chiacchierare di tutto e del resto. Parlava soprattutto lui, a dire il vero, perché a me sembrava sprecata ogni parola che non aggiungesse un tassello alla sua storia. Forse è stato lui, penso adesso: il mio primo grande amore per le storie degli altri.
Erik era nato una cinquantina d'anni prima a Copenhagen. Era scappato di casa presto a causa del turbolento rapporto col padre, dopo di che era vissuto in strada accendendo fiamme sotto ai cucchiai più ossidati degli anni ’80, finché qualcuno gli aveva offerto di disintossicarsi e andare a lavorare come volontario da qualche parte in Africa. Erik aveva accettato, mosso dall’unica emozione che l’ebbe vinta su di lui, sempre, per una vita intera: la curiosità.
In Africa qualcuno si era accorto che oltre che a inchiodare assi forse il biondino sarebbe stato buono a scrivere i resoconti della missione, da rispedire in Danimarca. Lui accettò controvoglia, ma le annoiate cronache del lavoro dei missionari si trasformarono presto in un appassionato resoconto della situazione di un paese e della storia di un popolo.
Fu così che Erik divenne un giornalista.
Lavorò per un po' per un giornale danese, forte del suo talento, finché un amico tedesco non lo convinse a fare un viaggio in Portogallo, dove conosceva una comunità di fricchettoni che viveva ritirata sulle montagne. In quel periodo, Erik si trascinava in una storia d'amore con più tira e molla che pace, e l'idea gli sembrò un'adeguata exit strategy (“una fuga bella e buona, lo so”ammetteva, col suo accento spezzettato e nordico). Piantò in asso il lavoro al giornale e partì.
La vita nella comunità di tedeschi si rivelò piacevole più del previsto. Coltivava ortaggi e marijuana, si prendeva cura delle pecore. Si affezionò a una pecora già anziana e, quando questa stava per morire, lui le diede da mangiare funghetti allucinogeni: raccontò poi di non aver mai visto uno sguardo così beato come l'ultimo negli occhi di quella pecora, che poi stramazzò al suolo a gambe larghe come nei fumetti.
Mentre ancora elaborava il lutto della pecora si innamorò di una cantante portoghese finita un po' per caso e un po' per stanchezza in quella comunità di tedeschi nelle montagne del suo paese. La conquistò sgominando i topi che li tormentavano: ne catturò uno e lo inchiodò, vivo, alla porta di casa.
Lei non parlava danese e lui non parlava portoghese, così si dicevano il minimo indispensabile in un tedesco improvvisato. Ecco perchè sarebbe potuta durare per sempre, avrebbe riso decenni più tardi Erik. Solo che...solo che un giorno lei cercò e trovò un modo internazionale per dirgli che era incinta.
D'accordo, disse lui. Allora devo andare in Danimarca a mettere le mie cose in soffitta. Lei non capì la parola soffitta ma sorrise.
Quando Erik bussò alla porta di sua madre scoprì che nel frattempo suo padre era morto. Non gli importò: lo aveva sempre odiato. Non sono di quelli che si mettono gratis a rimpiangere i morti, si disse, una merda era e una merda rimane. Ma doveva fermarsi un po' per occuparsi di sua madre. Almeno aiutarla con la burocrazia che lo riguardava. E questo era un guaio. Avrebbe voluto rimanere in Danimarca il meno possibile, perché quando se n'era andato, l'aveva fatto senza dire addio a una persona, e i grandi fantasmi o si guardano in faccia tutti i giorni o è meglio non vederli mai più. Bussò a quella porta senza sapere cosa avrebbe detto.
La mattina dopo, svegliandosi accanto al fantasma, Erik trovò la forza di dirle che sarebbe presto diventato padre per via di una portoghese. E a sé stesso, scappando via, promise che non l’avrebbe mai più vista. Si fermò a bere un caffè in un bar, scottandosi la lingua pur di non pensare a come sarebbe stata la sua vita sotto a quelle coperte.
Accelerò i tempi di ritorno in Portogallo e riuscì a sedersi su un aereo tre settimane dopo. Ma, sbarcato a Lisbona, commise un errore tipico di chi, nonostante apparenze robuste, brancola nel buio: pensò che era il momento di dire, finalmente, addio al fantasma. Meglio al telefono che niente. Ormai, tanto, un continente intero li separava. Entrò in una cabina e fece il numero. La prima volta si scordò di aggiungere il prefisso danese. La seconda trovò occupato. La terza è l'ultima, si disse.
La terza volta lei gli rispose e colse l’occasione per annunciargli che era incinta di lui.
La mattina dopo, svegliandosi accanto alla portoghese, Erik trovò il coraggio di raccontarle tutto, o forse ebbe troppa paura di mantenere questo segreto tutta la vita. Implorò il suo perdono con l'aiuto di un interprete tedesco, e l'interprete dovette dare il suo meglio, o piuttosto sbagliò qualche sinonimo, perchè alla fine la portoghese lo perdonò davvero; anzi, spinta da un'inconcepibile solidarietà femminile - o da una suprema volontà d'ordine- lo convinse persino a tornare in Danimarca a “sistemare la cosa' ”.
Ed Erik non trovò il coraggio di risponderle che non ne aveva il coraggio.
Salì la scala dell'aeroplano come si sale al patibolo. Il fantasma andò a prenderlo all'aeroporto di Copenhagen e, mentre lo abbracciava, gli sussurrò una sola parola all'orecchio: “Proviamoci”. Lui scoppiò a piangere. Piangeva ancora quando per telefono disse alla portoghese che forse il fantasma era davvero l'amore della sua vita.
In realtà, sappiamo noi spettatori, il fantasma era solo un fantasma. All’ottavo mese di gravidanza, i due erano già ai calci, ai pugni e ai piatti fracassati contro le pareti.
Erik ripartì per il Portogallo. Non aveva la minima speranza di tornare con la cantante, voleva solo conoscere suo figlio o sua figlia, il bebè che doveva essere nato qualche settimana prima. Quando arrivò ai piedi della collina su cui aveva vissuto, uno dei suoi vecchi amici tedeschi lo vide e, senza dire una parola, raccolse un bastone da terra. “E' maschio o femmina?” chiese Erik. L'amico sollevò il bastone, minaccioso. Poi capì dal suo sguardo spento che Erik se ne sarebbe andato senza fare tante storie. “Maschio”.
Erik tornò sui suoi passi giù per la montagna, cercando di non chiedersi come sarebbe stata la sua vita su e giù per quel pendio portoghese. All'aeroporto di Lisbona entrò in una cabina, diversa da quella di otto mesi prima, per telefonare al suo vecchio direttore di giornale e dirgli che partiva.
Figlio di puttana, dove sei finito? Dove vai?
Dimmelo tu. Di sicuro vi serve un corrispondente da qualche parte nel mondo.
Ti dirò, rispose il capo, pare che il Perù sia in ebollizione.
Questa parte me le raccontò nella cucina di casa mia, in via Togliatti 18, nella prima periferia della città con la toponomastica più comunista d’Europa. Se ne stava appoggiato alle piastrelle bianche tappezzate di biglietti di buongiorni e buonenotti che ci scambiavamo noi inquiline. Che avrei dovuto fare? Concludeva. Che avrei dovuto fare di quei due amori e delle loro pance esorbitanti? E poi, per salvarsi, aggiungeva: è andata meglio così. Entrambe hanno trovato mariti migliori di quello che sarei stato io. Non parliamo poi del padre che si sono scampati quei due bambini. Anzi, quella bambina danese e quel bambino portoghese. Non li ho mai visti neanche in foto, nè loro me. Credo. Di loro so solo che non mangiano il miele, perchè io lo odio così tanto che i miei geni non accetterebbero compromessi.
E poi il suo fegato se lo portava a vomitare.
Quando se ne andò da casa mia eravamo molto amici. Pensavo lo avrei accompagnato, da amica distante e vicina, verso la morte.
Invece poche settimane dopo, quando mi trovavo già in Argentina, colse un'occasione stupida per litigare con me e non rispose più a nessuna email. Con i miei amici del mitico viaggio a Copenhagen fece lo stesso nel giro di poco tempo.
Grattandosi via con rabbia la polvere dorata di cui lo avevamo cosparso, Erik volle liberarsi di noi. Lo fece sempre in maniere orribili per essere sicuro che non si potessero mettere pezze; lo fece con noi e probabilmente con tutti gli altri, come se stesse ostinatamente cercando di andare da solo incontro alla fine. Forse pensava che se nessuno avesse saputo della sua morte nel momento in cui fosse arrivata, l'umiliazione sarebbe stata un po’ più digeribile.
Ma il destino si è preso gioco di lui. Ancora una volta. La malattia si è ritirata dalle sue tasche, oppure si è fermata a vivacchiare sul loro fondo scucito, come fanno le briciole. Lo so perchè, facendo ricerche su internet, ho scoperto che oggi, sei anni dopo, è ancora vivo, e ancora celebra la guerra di Spagna cronacando il turismo politico di nostalgici danesi.
Non ho voglia di scrivergli per chiedergli se nel frattempo è diventato un santo. Se come tanti ha approfittato della guarigione per votarsi a una religione religiosamente evitata per tutta la vita. O se la terra intorno a lui è ancora bruciata e, seduto al centro, lui si gode l'odore delle fotografie consumate, sciolte dal calore.
Della sua storia mi rimangono una domanda ed un monito: la domanda è se uno dei suoi figli sia riuscito a trovarlo quando era malato, mandando a monte il suo piano. Il monito lo tengo per me: forse ne parlerei solo con lui, il primo complice della mia passione per le storie degli altri, se un giorno, pentito o solo incuriosito, tornasse a cercarci. Lo farà?
Non lo so. Solo i presuntuosi pretendono di sapere dove si trova la parola fine di una storia. Infondo, finché le persone non muoiono, sono vive.
sabato 19 marzo 2011
non piangere per me,cretina
Per ascoltare "Non piangere per me, cretina, storie di figli e nipoti della dittatura argentina", cliccate o copiate questo link:
http://lucelucilla.podomatic.com/entry/2011-03-18
Autunno a Buenos Aires. Si ricominciava a respirare dopo l’afa di un’estate metropolitana. Curiosamente, il vento dell’oceano atlantico raggiunge la città solo d’inverno; da dicembre a febbraio, quando dovrebbe rinfrescarla, la brezza si perde invece da qualche parte sul Rio de La Plata, nelle cui acque erano gettati i corpi degli oppositori dai vermi del regime militare negli anni settanta. Un curioso caso di castigo climatico.
L’inizio dell’autunno era coinciso con l’immenso corteo del 24 di marzo, a trent’anni dal golpe del 1976 che aveva dato inizio a una delle più sanguinose dittature della storia. Trent’anni dopo quella notte io camminavo nel corteo dentro allo spezzone di Hijos, il collettivo dei figli dei desaparecidos, molti dei quali, strappati ai genitori naturali e adottati dalle famiglie degli aguzzini, avevano scoperto la loro vera identità con decenni di ritardo. Non era questo il caso di Eduardo, maestro elementare e voce della radio la Tribu, la storica radio comunitaria di Buenos Aires, ed imbattibile bevitore di erba mate. Diceva: “Ci sono solo due cose importanti nella vita. Una è il Mate. E l’altra...non è così importante”.
Eduardo, più che fratello, avrebbe potuto essere il papà dei suoi compagni di collettivo. Nel 1977, nel primo anno di dittatura militare, era già un attivista politico piuttosto conosciuto, tanto che si trovava già in clandestinità a Mar del Plata quando fu avvertito della scomparsa di suo padre, regista e attore teatrale. Dopo mesi di angoscia e di ricerche inutili, venne a sapere della visita in città di un emissario della croce rossa internazionale. Presentandosi a sorpresa all’uscita della conferenza che l’emissario era venuto a tenere, riuscì a dirgli questo: oggi pomeriggio andrò a chiedere notizie di mio padre in quel commissariato. Se alle cinque in punto non riceve una mia telefonata, venga a salvarmi.
Era un tentativo disperato, in realtà non credeva che l’emissario si sarebbe esposto così tanto. Il mondo intero fingeva di non sapere cosa stava succedendo in Argentina, tanto che l’anno dopo vi avrebbe celebrato i mondiali di calcio, naturalmente vinti dall’Argentina ai supplementari in finale contro l’Olanda, doppietta di Kempes premiato da un generale Videla baffuto e in doppiopetto, mentre i prigionieri politici nei sotterranei del terrore sussultavano al ritmo alternato dei cori da stadio e delle scariche elettriche, finché perdevano i sensi sognando di essere sommersi da una montagna di coriandoli bianchi e azzurri come la bandiera.
Eppure alle cinque e dieci di quel pomeriggio un’auto della croce rossa si fermò davanti al commissariato dove Eduardo era entrato qualche ora prima per chiedere che suo padre fosse restituito, vivo. L’autista scese a chiedere di lui. Glielo consegnarono già massacrato di botte, sì e no cosciente. L’auto lo portò in aeroporto così com’era e lo mise su un volo per San Paolo, da dove Eduardo, esule, cercò ancora, inutilmente, di avere notizie di suo padre.
A volte, ancora oggi, quando la sua Fiat Uno si rompe e si ritrova su un autobus a Buenos Aires, magari il 189 che fa il giro intorno a Plaza de Mayo, Eduardo si sorprende a guardare dal finestrino e a cercare il volto di suo padre fra quelli dei passanti. Almeno trentamila paia d’occhi, in quella città, fanno come i suoi. Anche quando sono convinti di pensare ad altro, fanno come i suoi. Anche quando si ripetono che la vita è andata avanti e la dittatura è finita, fanno come i suoi.
Sarà per questo che, anche per chi viene da lontano e non ha vissuto niente di tutto questo, guardare dal finestrino di un autobus a Buenos Aires è un po’ come attraversare una lunga mostra di foto in bianco e nero.
Pochi giorni dopo il 24 di marzo chiamavo Merce, una documentarista di Mallorca che stava girando un video sulla radio La Colifata, la prima radio di pazienti psichiatrici del mondo. Avevo scelto una cabina all’angolo tra l’Avenida Corrientes e la 9 de Julio -la strada più larga del mondo,sostengono gli argentini- all’ombra dell’obelisco che compare in tutte le cartoline della città. Merce mi aveva appena dato buca senza dare notizie e temevo che il black out avesse a che fare con la malattia di suo padre. Non mi sbagliavo.
Anche i genitori di Merce avevano ottenuto l’asilo politico a San Paolo alla fine degli anni settanta. La madre era già incinta di Merce e la fuga era l’ultima speranza per mettere la piccola al mondo senza che finisse nelle mani dei vermi. Così, lei nacque lì, a San Paolo, all’inizio di una malattia così profonda che spesso chi ne soffre rinuncia per sempre a curarsi: l’esilio. Dopo un anno in Brasile, i suoi riuscirono ad arrivare a Mallorca, in Spagna, dove tuttora Merce vive senza mai aver perso l’accento argentino ereditato dai suoi.
La madre di Merce non volle mai saperne di tornare a Buenos Aires. Questo forse, chissà, fu all’origine dell’infinita fine dell’amore con Esteban, il padre di Merce. Di quelle fini che non c’è alcun bisogno di conclamare, fino a quando…fino a quando, il finimondo.
Buenos Aires, 19 dicembre 2001. La città brucia. L’economia è collassata, il sogno della Svizzera dell’America Latina si infrange su un muro di debiti. Troppo tardi per rimediare, il paese è stato venduto ai migliori offerenti; da un giorno all’altro, bisogna ricominciare tutto daccapo. Un’occasione che non capita quasi mai e di cui, potendosi permettere un po’ di saggezza, bisognerebbe in qualche modo essere grati.
Da una televisione in un salotto di Mallorca Esteban guardava bruciare la sua Buenos Aires. La città bruciava come avrebbe dovuto bruciare venticinque anni prima, pensava lui. Finalmente. Disse a sua moglie che il momento era arrivato: l’esilio per me finisce ora. Si imbarcò sul primo volo disponibile, la vigilia di Natale. C’era da ricominciare un paese daccapo.
Erano passati ventitrè anni dalla loro fuga. Settimane, poi mesi, secoli. Ma restava il fatto che più di metà della sua vita era stata qui, in questa città che ritrovò orfana e disorientata. Ma viva. In poco tempo si unì a una delle assemblee di quartiere che spuntavano come funghi, entrò in un collettivo politico. Telefonò a sua moglie a Mallorca e le disse senza preamboli che sarebbe rimasto a Buenos Aires, che se voleva poteva venire anche lei. Lei lo mandò al diavolo e fecero più o meno lo stesso le altre figlie. Che diavolo ti è saltato in testa?
La maggiore, Mercedes, che aveva vissuto, da dentro la pancia di sua madre, il dolore della fuga e dell’esilio, la prese diversamente. Fu a lei che, qualche anno dopo, Esteban raccontò di aver incontrato nel collettivo politico una donna che si chiamava Mercedes come lei, e a casa della quale si sarebbe trasferito di lì a poco, nel cuore del quartiere popolare di Boedo, famoso per il suo carnevale e per le sue fumose sale da biliardo.
E fu sempre a lei che scrisse una lettera, ancora più tardi, per dirle che gli era stato diagnosticato un brutto tumore. Allora Merce, che nel frattempo aveva trasformato la passione per i documentari in un mestiere, e che era tornata nel paese in cui era nata- il Brasile- per girarne uno sul mitico forum sociale di Porto Alegre del 2002, decise che era arrivato il momento di andare ancora più indietro, e fare un documentario nella città in cui era stata concepita, da cui era stata scacciata ancora feto. Era anche un modo per stare vicina a suo padre impegnandosi in qualcos’altro, per non asfissiarlo con la sua paura.
Qualcuno le aveva parlato di una radio che trasmetteva dall’interno dell’ospedale psichiatrico di Buenos Aires: la radio si chiamava, si chiama, la Colifata, “la Pazzerella” e Merce cominciò a frequentarla per conoscerne i deejay-pazienti e fare il film sul loro sogno colifato. E’ lì, in un sabato pomeriggio di trasmissioni del dicembre 2005, che io e Merce ci siamo conosciute.
La malattia di Esteban, però, continuò a peggiorare. Niente e nessuno riuscì a convincerlo ad andare in Spagna a provare nuove cure. Finiti i risparmi e concluso il documentario, Merce fu costretta a tornare a Mallorca per lavorare a altri progetti, finché non arrivò da Buenos Aires la telefonata dell’altra Mercedes, la donna di suo padre, che le disse: ci siamo. Venite qui.
Merce riattaccò. Si trovava nello stesso salotto da cui, sette anni prima, Esteban aveva guardato in televisione la rivolta di Buenos Aires. Si girò verso sua madre. Senza dirsi nulla oltre al necessario, madre e figlia accesero il computer e cercarono quattro posti, per loro e le altre sorelle di Merce, su un volo per Buenos Aires il giorno dopo.
Così furono le ultime settimane di Esteban. Nella sua Buenos Aires, dove l’autunno aveva ceduto il posto all’inverno, spinto via dal vento dell’oceano che solo quando è freddo riesce a raggiungere la città. Quella casa infondo non era che a pochi isolati dalla sede di Radio la Tribu, dove Eduardo inveiva in diretta contro Bush, diffondendo la sua profonda voce d’estraneo anche in quel salotto della casa del quartiere Boedo, famoso per il suo carnevale e per le sue fumose sale da biliardo, dove due donne e tre ragazze si alternavano, in una surreale allegria femminile, al capezzale del loro marito, compagno e padre. Nei momenti in cui Esteban non aveva bisogno dei suoi ricordi per stare sveglio, o per addormentarsi meglio, sua moglie vagava per la città a cui aveva detto arrivederci trent’anni prima, e a cui avrebbe detto addio, stavolta senza rancore, di lì a poco, mentre la nuova compagna di suo marito cucinava ravioli e infornava empanadas per tutte, mentre Merce, la figlia maggiore, la figlia della fuga e dell’esilio, seduta sull’autobus 189 riprendeva dal finestrino immagini della città in bianco e nero, perché è così che vuole ricordare Buenos Aires chi l’ha amata, è così che vuole ricordarla chi l’ha capita: in bianco e nero.
Merce mi ha scritto che, due giorni prima che Esteban morisse, lei e sua madre lo hanno portato sulla sedia a rotelle al mercato ortofrutticolo di Boedo. Lì, lui le ha convinte a rubare delle mele. Aveva già pensato a un piano semplice e perfetto: loro gliele nascondono in grembo e così, insospettabili e complici, i tre fuggiaschi del 1977 fuggono ancora, in un rumore di ruote e ferraglia, dall’inverno della loro città in bianco e nero.
http://lucelucilla.podomatic.com/entry/2011-03-18
Autunno a Buenos Aires. Si ricominciava a respirare dopo l’afa di un’estate metropolitana. Curiosamente, il vento dell’oceano atlantico raggiunge la città solo d’inverno; da dicembre a febbraio, quando dovrebbe rinfrescarla, la brezza si perde invece da qualche parte sul Rio de La Plata, nelle cui acque erano gettati i corpi degli oppositori dai vermi del regime militare negli anni settanta. Un curioso caso di castigo climatico.
L’inizio dell’autunno era coinciso con l’immenso corteo del 24 di marzo, a trent’anni dal golpe del 1976 che aveva dato inizio a una delle più sanguinose dittature della storia. Trent’anni dopo quella notte io camminavo nel corteo dentro allo spezzone di Hijos, il collettivo dei figli dei desaparecidos, molti dei quali, strappati ai genitori naturali e adottati dalle famiglie degli aguzzini, avevano scoperto la loro vera identità con decenni di ritardo. Non era questo il caso di Eduardo, maestro elementare e voce della radio la Tribu, la storica radio comunitaria di Buenos Aires, ed imbattibile bevitore di erba mate. Diceva: “Ci sono solo due cose importanti nella vita. Una è il Mate. E l’altra...non è così importante”.
Eduardo, più che fratello, avrebbe potuto essere il papà dei suoi compagni di collettivo. Nel 1977, nel primo anno di dittatura militare, era già un attivista politico piuttosto conosciuto, tanto che si trovava già in clandestinità a Mar del Plata quando fu avvertito della scomparsa di suo padre, regista e attore teatrale. Dopo mesi di angoscia e di ricerche inutili, venne a sapere della visita in città di un emissario della croce rossa internazionale. Presentandosi a sorpresa all’uscita della conferenza che l’emissario era venuto a tenere, riuscì a dirgli questo: oggi pomeriggio andrò a chiedere notizie di mio padre in quel commissariato. Se alle cinque in punto non riceve una mia telefonata, venga a salvarmi.
Era un tentativo disperato, in realtà non credeva che l’emissario si sarebbe esposto così tanto. Il mondo intero fingeva di non sapere cosa stava succedendo in Argentina, tanto che l’anno dopo vi avrebbe celebrato i mondiali di calcio, naturalmente vinti dall’Argentina ai supplementari in finale contro l’Olanda, doppietta di Kempes premiato da un generale Videla baffuto e in doppiopetto, mentre i prigionieri politici nei sotterranei del terrore sussultavano al ritmo alternato dei cori da stadio e delle scariche elettriche, finché perdevano i sensi sognando di essere sommersi da una montagna di coriandoli bianchi e azzurri come la bandiera.
Eppure alle cinque e dieci di quel pomeriggio un’auto della croce rossa si fermò davanti al commissariato dove Eduardo era entrato qualche ora prima per chiedere che suo padre fosse restituito, vivo. L’autista scese a chiedere di lui. Glielo consegnarono già massacrato di botte, sì e no cosciente. L’auto lo portò in aeroporto così com’era e lo mise su un volo per San Paolo, da dove Eduardo, esule, cercò ancora, inutilmente, di avere notizie di suo padre.
A volte, ancora oggi, quando la sua Fiat Uno si rompe e si ritrova su un autobus a Buenos Aires, magari il 189 che fa il giro intorno a Plaza de Mayo, Eduardo si sorprende a guardare dal finestrino e a cercare il volto di suo padre fra quelli dei passanti. Almeno trentamila paia d’occhi, in quella città, fanno come i suoi. Anche quando sono convinti di pensare ad altro, fanno come i suoi. Anche quando si ripetono che la vita è andata avanti e la dittatura è finita, fanno come i suoi.
Sarà per questo che, anche per chi viene da lontano e non ha vissuto niente di tutto questo, guardare dal finestrino di un autobus a Buenos Aires è un po’ come attraversare una lunga mostra di foto in bianco e nero.
Pochi giorni dopo il 24 di marzo chiamavo Merce, una documentarista di Mallorca che stava girando un video sulla radio La Colifata, la prima radio di pazienti psichiatrici del mondo. Avevo scelto una cabina all’angolo tra l’Avenida Corrientes e la 9 de Julio -la strada più larga del mondo,sostengono gli argentini- all’ombra dell’obelisco che compare in tutte le cartoline della città. Merce mi aveva appena dato buca senza dare notizie e temevo che il black out avesse a che fare con la malattia di suo padre. Non mi sbagliavo.
Anche i genitori di Merce avevano ottenuto l’asilo politico a San Paolo alla fine degli anni settanta. La madre era già incinta di Merce e la fuga era l’ultima speranza per mettere la piccola al mondo senza che finisse nelle mani dei vermi. Così, lei nacque lì, a San Paolo, all’inizio di una malattia così profonda che spesso chi ne soffre rinuncia per sempre a curarsi: l’esilio. Dopo un anno in Brasile, i suoi riuscirono ad arrivare a Mallorca, in Spagna, dove tuttora Merce vive senza mai aver perso l’accento argentino ereditato dai suoi.
La madre di Merce non volle mai saperne di tornare a Buenos Aires. Questo forse, chissà, fu all’origine dell’infinita fine dell’amore con Esteban, il padre di Merce. Di quelle fini che non c’è alcun bisogno di conclamare, fino a quando…fino a quando, il finimondo.
Buenos Aires, 19 dicembre 2001. La città brucia. L’economia è collassata, il sogno della Svizzera dell’America Latina si infrange su un muro di debiti. Troppo tardi per rimediare, il paese è stato venduto ai migliori offerenti; da un giorno all’altro, bisogna ricominciare tutto daccapo. Un’occasione che non capita quasi mai e di cui, potendosi permettere un po’ di saggezza, bisognerebbe in qualche modo essere grati.
Da una televisione in un salotto di Mallorca Esteban guardava bruciare la sua Buenos Aires. La città bruciava come avrebbe dovuto bruciare venticinque anni prima, pensava lui. Finalmente. Disse a sua moglie che il momento era arrivato: l’esilio per me finisce ora. Si imbarcò sul primo volo disponibile, la vigilia di Natale. C’era da ricominciare un paese daccapo.
Erano passati ventitrè anni dalla loro fuga. Settimane, poi mesi, secoli. Ma restava il fatto che più di metà della sua vita era stata qui, in questa città che ritrovò orfana e disorientata. Ma viva. In poco tempo si unì a una delle assemblee di quartiere che spuntavano come funghi, entrò in un collettivo politico. Telefonò a sua moglie a Mallorca e le disse senza preamboli che sarebbe rimasto a Buenos Aires, che se voleva poteva venire anche lei. Lei lo mandò al diavolo e fecero più o meno lo stesso le altre figlie. Che diavolo ti è saltato in testa?
La maggiore, Mercedes, che aveva vissuto, da dentro la pancia di sua madre, il dolore della fuga e dell’esilio, la prese diversamente. Fu a lei che, qualche anno dopo, Esteban raccontò di aver incontrato nel collettivo politico una donna che si chiamava Mercedes come lei, e a casa della quale si sarebbe trasferito di lì a poco, nel cuore del quartiere popolare di Boedo, famoso per il suo carnevale e per le sue fumose sale da biliardo.
E fu sempre a lei che scrisse una lettera, ancora più tardi, per dirle che gli era stato diagnosticato un brutto tumore. Allora Merce, che nel frattempo aveva trasformato la passione per i documentari in un mestiere, e che era tornata nel paese in cui era nata- il Brasile- per girarne uno sul mitico forum sociale di Porto Alegre del 2002, decise che era arrivato il momento di andare ancora più indietro, e fare un documentario nella città in cui era stata concepita, da cui era stata scacciata ancora feto. Era anche un modo per stare vicina a suo padre impegnandosi in qualcos’altro, per non asfissiarlo con la sua paura.
Qualcuno le aveva parlato di una radio che trasmetteva dall’interno dell’ospedale psichiatrico di Buenos Aires: la radio si chiamava, si chiama, la Colifata, “la Pazzerella” e Merce cominciò a frequentarla per conoscerne i deejay-pazienti e fare il film sul loro sogno colifato. E’ lì, in un sabato pomeriggio di trasmissioni del dicembre 2005, che io e Merce ci siamo conosciute.
La malattia di Esteban, però, continuò a peggiorare. Niente e nessuno riuscì a convincerlo ad andare in Spagna a provare nuove cure. Finiti i risparmi e concluso il documentario, Merce fu costretta a tornare a Mallorca per lavorare a altri progetti, finché non arrivò da Buenos Aires la telefonata dell’altra Mercedes, la donna di suo padre, che le disse: ci siamo. Venite qui.
Merce riattaccò. Si trovava nello stesso salotto da cui, sette anni prima, Esteban aveva guardato in televisione la rivolta di Buenos Aires. Si girò verso sua madre. Senza dirsi nulla oltre al necessario, madre e figlia accesero il computer e cercarono quattro posti, per loro e le altre sorelle di Merce, su un volo per Buenos Aires il giorno dopo.
Così furono le ultime settimane di Esteban. Nella sua Buenos Aires, dove l’autunno aveva ceduto il posto all’inverno, spinto via dal vento dell’oceano che solo quando è freddo riesce a raggiungere la città. Quella casa infondo non era che a pochi isolati dalla sede di Radio la Tribu, dove Eduardo inveiva in diretta contro Bush, diffondendo la sua profonda voce d’estraneo anche in quel salotto della casa del quartiere Boedo, famoso per il suo carnevale e per le sue fumose sale da biliardo, dove due donne e tre ragazze si alternavano, in una surreale allegria femminile, al capezzale del loro marito, compagno e padre. Nei momenti in cui Esteban non aveva bisogno dei suoi ricordi per stare sveglio, o per addormentarsi meglio, sua moglie vagava per la città a cui aveva detto arrivederci trent’anni prima, e a cui avrebbe detto addio, stavolta senza rancore, di lì a poco, mentre la nuova compagna di suo marito cucinava ravioli e infornava empanadas per tutte, mentre Merce, la figlia maggiore, la figlia della fuga e dell’esilio, seduta sull’autobus 189 riprendeva dal finestrino immagini della città in bianco e nero, perché è così che vuole ricordare Buenos Aires chi l’ha amata, è così che vuole ricordarla chi l’ha capita: in bianco e nero.
Merce mi ha scritto che, due giorni prima che Esteban morisse, lei e sua madre lo hanno portato sulla sedia a rotelle al mercato ortofrutticolo di Boedo. Lì, lui le ha convinte a rubare delle mele. Aveva già pensato a un piano semplice e perfetto: loro gliele nascondono in grembo e così, insospettabili e complici, i tre fuggiaschi del 1977 fuggono ancora, in un rumore di ruote e ferraglia, dall’inverno della loro città in bianco e nero.
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