sabato 31 ottobre 2009
johannesburg, donne e cartapesta
L'ultimo capitolo delle mie incursioni africane è sempre Johannesburg (o, come direbbe chi ne sa, JoanElensburg).
Si chiude a johannesburg perchè da qui i voli costano poco. E perchè da qui costano poco? Perchè questa è la capitale di un continente intero. Piaccia o no, tutto passa da questa metropoli grigiofumo che ti fa sentire a New York per le sue infinite possibilità sfavillanti ma anche per i suoi infiniti bronx, per i suoi edifici anni 30 con le scale antincendio e per quella specie di sax di sottofondo mentre la cammini circospetta- circospetta tu e circospetta lei.
Curioso - o ovvio?- che la capitale dell'Africa sia forse la sua metropoli meno africana, cuore del paese che il meno africano lo è sicuramente, anche se nella sua storia conserva marcato a fuoco un destino in cui, in maniera forse indelebile, sono passati quasi tutti i paesi dell'Africa australe.
Il mail & guardian, un ottimo settimanale sudafricano, ha appena dedicato un numero al tema del razzismo che ancora permea la società. Riassunto fattomi da Clara che vive qui da un anno e mezzo: i neri fanno la parte dei buoni, i bianchi fanno la parte dei vaghi. E quando possono si evitano con eguale e simmetrico piacere.
La Commissione per la Verità e la Riconciliazione presieduta dal grande Desmond Tutu ha incarnato sulla terra una capacità di perdono che, per chi conosce anche solo vagamente le atrocità dell'apartheid, ha del divino.
Ma alla catarsi collettiva non hanno corrisposto le milioni di individuali, altrettanto necessarie. Tanto più che la stragrande maggioranza dei neri continua a vivere confinata in baraccopoli senza accesso ai servizi che le erano preclusi per legge durante l'apartheid. Molto spesso questo dà luogo ad angoscianti guerre tra poveri, com'è successo nel maggio 2008 durante gli attacchi xenofobici contro mozambicani e zimbabweani bruciati vivi.
Eppur, si muove. Oggi ho visitato una cooperativa di donne,la Twanano Paper Making, in una delle aree più povere di Ivory Park, una storica township di Johannesburg. La cooperativa si occupa di costruire oggetti col materiale di recupero fornito da un'ombrello più ampio di cooperative di raccolta e riciclaggio di spazzatura.
Gloria, quella che aveva l'aria di tirare un po' le fila, aveva uno sguardo da dura e il sorriso stanco. Giorni fa Gloria ha partecipato, invitata da Clara, a una conferenza sulle cooperative in cui ha raccontato i nove anni di vita della sua. Prima di andarsene si è presa tutte le caramelle del tavolo dei relatori (...me la immagino, con quello sguardo duro) e ha tenuto a mo' di trofeo il cavaliere col suo nome da relatrice. Virginia, invece, è una di quei donnoni con fare materno e risata dietro l'angolo. E' stata lei a spiegarci quasi tutto il processo infilando le manone nei secchi di riciclato, di fibra e di tinta per fare la cartapesta. Con loro si era fermata ad aspettarci una terza socia, che non parlava una parola di inglese ma sorrideva orgogliosa. Nella cooperativa regnava l'odore buono dei libri vecchi ma non polverosi, e fuori, al sole, la township continuava la sua vita producendo spazzatura e accatastandola ai bordi delle strade, pronta per essere riciclata e fornire reddito alle volenterose con le mani in pasta. Un pezzo di paese riproducibile mille volte. Volendo.
E se il Sudafrica si desse una seconda possibilità per rendere umano un sogno che ha avuto del divino?
martedì 27 ottobre 2009
mozambico, elezioni:intervista a mia couto
Mia Couto è certamente il più noto scrittore mozambicano e fra i più apprezzati scrittori viventi di lingua portoghese (il suo Terra Sonnambula ha vinto numerosi premi africani e intercontinentali). Figlio di portoghesi, ha lottato come mozambicano per l'indipendenza dalle madrepatria e negli anni '80 è stato direttore dell'agenzia nazionale di informazione, prima di tornare alla professione per cui ha studiato ,quella di biologo, che oggi esercita in uno studio nel centro di Maputo e dal quale mi risponde mentre mi sbrodolo del te' che mi ha offerto.
Nei suoi libri, il passato “non smette mai di passare”, continuamente elaborato e ricostruito dal presente. Che rapporto ha il Mozambico col suo tormentato passato?
Beh,una relazione degna di questo tormento. Il Mozambico è un caso unico: il passato è ancora più recente del presente. Succede alle cose molto giovani e ansiose di crescere : infondo il paese ha appena trentatrè anni, tanti ne sono passati dall'indipendenza. Io sono più vecchio di lui! Come per avanzare rapidamente nel tempo, è in atto un esercizio di oblio collettivo di quello che più ha distinto la nostra storia: le guerre. Prima quella contro il Portogallo, poi quella civile. Entrambe oggi sono state trasportate “al di là della memoria”: se si chiede a un mozambicano di ricordare quei tempi, preferirà cambiare argomento. Ma l'esercizio dell'oblio è sempre una gravidanza di bugie. Possiamo dimenticare il passato, ma non dimenticare che stiamo dimenticando.
A cosa è funzionale questo colpo di spugna sul passato?
Come tutte le ricostruzioni storiche, agli interessi sociali dominanti. Sembra che il ricordo della guerra sia a loro pannaggio esclusivo.
Qual'è il ruolo del processo elettorale in questa fase della vita del paese?Le elezioni sono sempre un passo verso un comune sentire e un comune denominatore : il Mozambico. In generale il ruolo storico del governo seguito al colonialismo, quello della Frelimo, è stato quello di mettere l'identità nazionale mozambicana sopra a tutte le altre, di concretizzare un progetto di nazione comune contemporaneamente a tutte quelle preesistenti, di natura etnica- il che non significa in conflitto tra loro. Aggiungo, in conflitto non lo sono tuttora. Ecco perchè vanno a vuoto i tentativi di certi politici di dare un colore partitario alle etnie.
Lei è anche professore. Come vede i giovani mozambicani?Mi sembra che siano stanchi di essere visti e trattati dal mondo intero come vittime. Rispetto alla generazione dei loro padri, hanno decisamente rinunciato all'abitudine di incolpare il colonialismo di tutti i mali del presente;semmai hanno una visione abbastanza globale da cercare la radice di problemi locali nei sistemi mondiali.
E' ottimista sul futuro del Mozambico?
Ci vuole tempo. Nessuno, a cominciare da noi stessi, dovrebbe pretendere che risolviamo in pochi anni questioni- come lo shock della guerra- che in Europa hanno richiesto decenni.
A proposito di Europa, lei è uno dei pochi scrittori africani che continuano a vivere in Africa... Una volta, a una conferenza di scrittori africani,io ero l'unico che viveva ancora in Africa... e anche l'unico bianco. Le due cose fanno parte dello stesso paradosso, ovviamente. Io non ho scelto di portare l'occidente nel sangue, ma posso scegliere dove vivere. Non ho bisogno di scoprire l'Europa per sapere che voglio vivere in Africa.
venerdì 16 ottobre 2009
incontri in un campo profughi
Arrivare a Maratane non è facile. Certo che non lo è, se sei un rwandese o un congolese o un kenyano o un sudanese che dovrà camminare sotto il sole africano- o sperare che rallenti un camion, o che un sacco di farina ti lasci spazio sul tetto di qualche autobus- attraverso tutta la Tanzania e il nord del Mozambico.
Ma non è uno scherzo neanche se vuoi arrivare a Maratane non come rifugiato, ma come testimone, come forestiera che vorrebbe scrivere della diaspora dei popoli di grandi laghi per l'Africa. Prima è necessario procurarsi un colloquio con quelli dell'INAR, l'istituto nazionale di aiuto al rifugiato. Io sono stata fortunata e ci sono arrivata da due buone parole diverse: quella di un padre scalabriniano da tre anni in Mozambico, e quella del Mlal(Movimento Laici per L'America Latina, che qui lavorano sui diritti umani nelle carceri) di cui ero ospite e che sono, per un puro caso africano, vicini di casa di un tecnico dell'INAR. Naturalmente il colloquio con l'INAR non è risolutivo: a quel punto è necessario fare una richiesta scritta all'Eccellentissimo Delegato Provinciale dell'UNHCR, l'organismo dell'ONU per i rifugiati politici. Quando sono tornata a vedere com'era andata la mia richiesta, ho avuto la sensazione che non fosse mai arrivata nelle mani di nessun delegato, che forse non esisteva nessun delegato, ma che fosse la stessa segretaria dell'INAR a timbrare favorevolmente tutte le richieste, sbadigliando. Magie della democrazia (lapsus, volevo scrivere burocrazia).
Maratane è immerso in uno scenario meraviglioso. Se non fosse per il caldo invincibile e per le specie di serpenti che infestano questa parte di savana, tutta la zona intorno a Nampula sarebbe da esplorare in lungo e in largo. I trenta chilometri che la separano dal campo di Maratane si percorrono su una carraia rossastra circondata da montagne che spuntano dalla pianura come bulbi rocciosi di forme che, con l'aiuto del caldo, stimolano l'immaginazione (ma una è sicuramente la faccia di un vecchio disteso bocconi; infatti appena più a ovest ce n'è un'altra che è chiaramente la sua pancia con una birra appoggiata sopra).
Il campo profughi, in cui vivono circa 5000 persone (più della metà congolesi, quasi tutti gli altri rwandesi e burundesi e una piccola parte di kenyani e sudanesi) è più che altro un grande villaggio, un'enclave kiswahili nel cuore del nord mozambicano. Di fatto è aperto, i suoi abitanti sono liberi di lasciarlo quando vogliono. Ma per andare dove? Dice Said, diciassette anni, arrivato qui da solo dal Burundi cinque mesi fa. Maglietta consunta dello sporting lisboa, mi racconta della sua fuga dalle milizie in cui non voleva finire arruolato. Siamo nella semioscurità rovente del transference centre, la parte più miserabile del campo, quella dove rimangono i nuovi arrivi per qualche mese, prima che gli venga assegnata una baracca (o uno spazio su cui costruirne una) nel campo. Sono casermoni di fango con un tetto di lamiera ondulata divisi in stanze di sei metri per sei, senza letti e senza finestre (a parte un pertugiolo di venti centimetri per quaranta, provvisto di zanzariera, ridicola dal momento che non c'è neanche la porta e le zanzare fanno la spola fra una malaria e l'altra). Said è contento di raccontare la sua storia, perchè è arrivato dove voleva arrivare: al sicuro. Non gli dispiace affatto l'idea di rimanere qui per sempre.
Mentre finisco di scrivere quello che mi ha detto, arriva da me una signora con le treccine dritte in testa, l'aria piuttosto sciatta e un sorriso indimenticabile. Mi inizia a parlare in inglese quando ancora sto finendo di scrivere tanta è l'urgenza che si porta dentro; perdo l'inizio, poi, lentamente, inizio ad afferrare il senso e dimentico tutto il resto - la penna, le pareti, Maratane, l'INAR, L'Africa, l'Europa.
Elizabeth è kenyana, di una zona nell'interno del paese. Da una vita intera scappa, ma la sua fuga non ha destinazione perchè la sua persecuzione non ha il nome di un'etnia nè quella di un credo politico.
Elizabeth non vuole stare con uomini e per questo, in ogni luogo in cui arriva, la sua libertà ha i giorni contati. Ha cercato appoggio da parenti e amici prima in altri luoghi del Kenya, poi in Tanzania.Ma ben presto questa nuova arrivata senza un uomo (e senza voglia di averne uno) desta perplessità, poi sospetti. Infine inizia l'organizzazione di una comunità intera per mettere in piedi un matrimonio che Elizabeth non vuole. Allora deve ricominciare la sua lunga marcia verso il Sudafrica, dove -si augura- certi diritti sono più riconosciuti. “Perchè non è naturale” conclude con gli occhi spalancati, un fiume in piena che incontra un mare di determinazione: “Non è naturale essere costrette”. Sceglie, rovesciandolo, proprio questo concetto -non è naturale- lo stesso che devono averle buttato addosso da quando Elizabeth ha coscienza di Elizabeth.
Non è venuta a parlare con una giornalista, è venuta a parlare con una donna. Una che non si aggiunga alla sua persecuzione come ha visto succedere fino a oggi. Sopraffatta, le ho risposto la cosa che, in quel momento, mi sembra la più definitiva, l'unica che le riassumeva tutte: sono d'accordo con te.
Lei mi ha fatto un largo sorriso e se ne è andata. Ci ho messo un po' a dominare un senso di impotenza quasi vertiginoso, poi in qualche modo ho reagito, ho piantato in asso quello che stavo facendo per tornare a cercarla e le ho detto che avrei cercato di metterla in contatto con WLSA, un movimento di donne attivo in Mozambico. “Ti farebbe piacere?” “Definitely!” ha risposto entusiasta. “Ci provo”. Mentre scrivo, le leader di Maputo di cui avevo il numero stanno cercando di attivare le loro colleghe di Nampula. Spero che almeno una di loro parli inglese.
domenica 11 ottobre 2009
mozambico, l'isola
A circa 180 chilometri da Nampula, ma a quattro ore di sudatissima chapa e al di là di un ponte a una corsia sola, si trova un mondo a parte che è, al tempo stesso, riassunto del paese.Ilha de Moçambique, isola di mozambico. Esiste davvero? Per assicurarsene, è bene andarci.
Ci si ritroverà a passeggiare in una cittadina che ricorda quelle del nostro profondo sud: una Ostuni che ha sognato di diventare l'Avana e si è risvegliata madida si sudore, con il cuore di paglia e le strade di sabbia. Prigioniera del mare e nera come il carbone. Nell'ora del silenzio, che ne dura venti (le altre quattro sono quelle che separano il tramonto dal sonno) è una città fantasma. Le donne si affacciano quando sentono passi sulla sabbia, non per scoprire nuovi segreti ma per mettere al sicuro i propri. I vecchi si affacciano per vedere cosa c'è oggi sul menù a parte la morte. I bambini si affacciano per vedere se è proprio vero, altrimenti torneranno a dormire; e al di là dei loro corpi per metà nascosti dalla soglia, dall'altra parte delle loro case trafitte, si intravede di nuovo il mare, come una punizione. Sulle pareti scrostate si leggono storie di Mia Couto e si sente il profumo impregnato dell'olio di cocco in cui si frigge tutto. E' evidente che tempo e spazio sono misteri svelati, qui; senza più senso di fornire interrogativi. I portoghesi la scelsero come capitale del loro impero due secoli prima di esserne cacciati per sempre: è una porta verso l'India, ma anche verso il canale di Suez, degna di fare concorrenza alla sua sorella maggiore Zanzibar. Che però si è tradita lasciandosi conoscere e svelare.
bukuku, una storia africana
Dar Es Salaam.
“Trentotto anni”, sorride infine, tra l'imbarazzo di ammetterli e l'orgoglio di non dimostrarli.
Nelle sue prime rughe Bukuku porta non solo le pieghe di un passato recente e collettivo-quello del suo paese e di una fetta del suo continente- ma anche la visione incerta di un presente mancato. Bukuku è un po' la Tanzania, l'east africa che avrebbe potuto essere. Profondamente africano nel dna ma aperto a contaminazioni “con criterio”, fiero della sua storia senza considerarla però un capitolo chiuso, attivista politico senza diventare burocrate di partito e di professione. Figlio d'arte, figlio della storia su cui a sua volta avrebbe tentato di incidere: suo padre era un sindacalista congolese seguace di Lumumba, sua madre una ugandese figlio di pescatori. I due si incontrarono da qualche parte sul lago Tangaika alla fine degli anno '60 e decisero di venirsene a Dar Es Salaam a cavallo del sogno di Nyerere e della sua Ujamaa, la via africana al socialismo. “Mio padre morì di infarto nel 1991, io ero ancora un ragazzo. Per fortuna non era più qui nel 1992 quando il presidente Mwiniy fece la famosa dichiarazione di Zanzibar con cui lanciava la via liberista allo sviluppo della Tanzania”. La dichiarazione di Zanzibar avvenne esattamente venticinque anni dopo quella di Arusha nel 1967, quando Nyerere, leader dell'indipendenza, lanciò l'ujamaa. “L'ujama aveva molti problemi, è vero, non ultimo quello di doversi muovere nella trappola della guerra fredda e dei suoi equilibrismi. Ma nello spirito di reciprocità e comunione interna e di autosufficienza dall'estero era sacrosanta: vicina alla filosofia bantu, quindi africana in senso radicale”.
Ammesso che la strategia di Nyerere fosse ispirata più alla reale cultura tradizionale che a ideali importati da nord, oggi il gioco di catarsi collettiva in un paese totalmente privatizzato e venduto al miglior offerente consiste nell'idolatrare gli anni dell'ujamaa: i politici al governo,membri dello stesso partito al potere dal '67, la CCM( Chama Cha Mapinduzi, partito della rivoluzione), non ne parlano come di un fallimento, ne parlano anzi con devozione mentre applicano politiche diametralmente opposte. Mostrarsi come fedeli eredi dell'indipendenza è il modo migliore di annullare gli sforzi da parte di una piccola società civile attiva di allargare i propri consensi criticando il partito. Un gioco che Bukuku subì già negli anni di Scienze Politiche all'università, quando un'imponente mobilitazione studentesca nella metà degli anni '90 venne presto cooptata e assorbita dall'ala giovanile della CCM.
Deluso, fa appello al sogno del Panafricanismo e nel '97 si tuffa nell'avventura congolese al fianco dell'allora tenente ribelle Kabila. Presto venne considerato più utile come quadro politico e mandato a sbrogliare il garbuglio della provincia dell'Ituri, al confine con l'Uganda: un conflitto tra l'etnia Hene Gegere (pastori) e quella dei Lendu (agricoltori), supportati da parti diverse dell'esercito ugandese per mantenere il caos nella regione.
Per anni Bukuku fece la spola tra Ituri e Kampala, dove giorno dopo giorno perde le speranze di venirne a capo : “ mi svegliavo col mal di testa ogni giorno. La situazione era come un dopo sbronza infinito”. Sentì come una vittoria anche propria l'ascesa al potere di Kabila in Congo, anche se poi “come tutti quelli che prendono il potere, ha cambiato indirizzo”. La situazione nell'Ituri, nel Katanga e nel Kivu, inoltre, era ben lontana da una soluzione. Ma Bukuku gli aveva già dato tutto quello che poteva e se ne ritirò stremato.
Fino al 2005 rimase comunque a Kampala ad occupare un posto presso la segreteria locale del movimento panafricano, finchè “Museveni usò il movimento panafricano per la sua campagna per cambiare la costituzione e poter essere rieletto”. Deluso ancora una volta dal potere, Bukuku tornò nella sua Tanzania, prima un anno a Mtwara (al confine col Mozambico), dove un fratellastro gli procurò un lavoro come consulente, poi di nuovo a Dar Es Salaam, dove tornò a praticare l'arte dell'arrangiarsi, nel migliore dei casi infilandosi “in qualche studio sugli obbiettivi del millennio, cose così” -sintetizza con scarso interesse e palese voglia di cambiare argomento.
Nel frattempo in Tanzania il panafricanismo è diventato roba da accademici, talora discussione da bar. Come il suo, il Mnazimoja (albero di cocco), dove i vecchi amici del quartiere l'hanno accolto con affetto e ora cercano di convincerlo a candidarsi come consigliere di quartiere con un partito alla sinistra di quello di governo, il Chadema. Forse davvero la cosa da fare è ricominciare dal piccolo, dal locale, dal tornare al tessere un tessuto come quello che rese possibile l'indipendenza “ che da qualche parte gli scampoli sono vivi, ma stanchi e isolati”; dal ridare lavoro e speranza ai giovani in un paese in cui la disoccupazione giovanile sfiora il 74% e l'indice di sieropositività è uno dei più alti del continente. “L'unica variabile veramente incognita nel futuro africano è l'irruzione della nuova generazione”, afferma con uno sguardo che brilla di nuovo. Una pentola a pressione. Sono stati loro a guidare le rivolte della fame del febbraio e marzo 2008 contro il rincaro dei generi alimentari. Ma sono anche loro, quasi sempre,ad andarsene: qualcuno tenta la fortuna con la F maiuscola verso l'Europa (via Uganda-Sudan -Egitto) , qualcun'altro attraversa il Mozambico per approdare in Sudafrica, “ma sempre di più trovano un lavoro a Dubai, il nuovo eldorado”. Ormai esistono vere e proprie agenzie che recluatano lavoratori di ogni tipo per Dubai, città senza un'identità propria, mosaico di immigrazione bicontinetali. Così ha fatto sua sorella minore che fra un mese partirà per fare la cassiera in un supermercato di Dubai: trecento euro al mese invece degli 80 che guadagna qui. Ma un'altra giovane che se ne va. Ancora negli anni '80, dice, l'aspirazione di un giovane era quella di avere un posto sicuro come marinaio in una delle tante navi cargo che salpano dal porto di Dar. Un modo di girare il mondo e avere sempre qualcosa nel portafogli. Poi, “hanno cominciato a entrare quantità industriali di droga. Tanti della mia generazione hanno sostituito il sogno del marinaio con quello dello spacciatore, 'è solo per un periodo' , 'è solo per questa volta'; quanti amici si sono imbarcati per la thailandia o l'india per fare i corrieri...e non se ne è saputo mai più niente”. Bukuku si fa avanti sulla sedia: “ La perdita della speranza in cui siamo sprofondati, al di là delle promesse di un futuro roseo, si sta trasformando in una specie di malattia mentale. Conduce al cinismo, a una paralisi delle anime, delle loro volontà”.
lunedì 5 ottobre 2009
Dar Es Salaam-Pemba, via terra
TAPPA 1 Dar es Salaam-Mtwara (il tramonto)
Qualcuno vende i giornali di ieri, qualcun altro chiodi sfusi. Qualcuno ha da vendere un oggetto solo e questo oggetto è una maglietta bianca: qualcuno, ci si creda o no, gliela compra. Ubungo, il terminal degli autobus di Dar Es Salaam, è una polveriera di polvere che già nel buio diguno che precede l'alba reclama migliaia di passeggeri sacrificali che batteranno ore e ore d'asfalto su strade assolate. E quando mancherà il sole mancheranno anche loro perchè a certe latitudini di notte non si viaggia- di notte ci si forma un giaciglio per elaborare la distanza che ci si è messi alle spalle, per abituare il corpo e la mente a quello che naso e occhi pensano di avere già capito; di notte non si viaggia perchè le strade sono piene di buchi che, complice il buio, potrebbero inghiottire noi e le nostre destinazioni. Di notte si adegua la schiena alla curva del mondo, quella che allontanandosi dall'equatore dovrebbe essere sempre e comunque in discesa, allora perchè andiamo così piano? Tappa prima, Dar Es Salaam-Mtwara. Due città di frontiera , ciascuno a modo suo: fra oceano e terra, tra animismo e islam, tra africano nero e arabo viadimezzo la prima; frontiera fra Tanzania e Mozambico la seconda, fra inglese e portoghese, fra due lotte per l'indipendenza chiuse con un rimescolamento di carte che ha lasciato i vincitori intontiti e dimentichi di riscuotere la loro vittoria.
Il viaggio dovrebbe durare otto ore tra le sei di mattina e le due di pomeriggio. Ma l'autobus della compagnia Tafuku Mwa Byana (una qualunque della giungla di nomi in swahili), si rompe tre volte in un'ora e alle cinque di pomeriggio siamo ancora nell'estrema periferia di Dar, tra viavia di venditori, poliziotti che sbadigliano e due meccanici improvvisati sdraiati sotto il motore. Ho voglia di Mozambico e nell'attesa inerte che col sole tramonti la speranza mi sembra di sentire l'agognata frontiera che si allontana. Per consolarmi scrivo e compro pomodori da mandare giù così, senza sale, con un'idea di basilico fissa tra un sopracciglio e l'altro (io che ne ho due) .
C'è stato un momento, prima del terzo e definitivo guasto, in cui è scoppiata una lite furibonda sull'autobus. Naturalmente qui si litiga in swahili e io dai toni credevo c'entrassero politica o donne. Invece alla fine qualcuno mi ha tradotto una sintesi: mettere su musica religiosa o hip hop locale? L'autobus era spaccato in due. Nemmeno quando invece a spaccarsi è stato il motore li ho visti accalorarsi tanto. Regola numero 56674453, mai misurare le rabbie di altre genti con criteri propri. Ma mentre lo scrivo ho la sensazione che la biro si ribelli, stremata quanto me, e mi si sciolga tra le mani.
TAPPA 2 Mtwara- Moçimboa da Praia (l'alba)
Cosa significa essere veramente stremati, tuttavia, lo avrei imparato ventiquattr'ore più tardi.
Alla fine l'autobus entrò a Mtwara, l'ultima città prima del confine mozambicano, alle tre del mattino dopo, con tredici ore di ritardo su otto di percorso. I primi daladala (i trasporti locali...a cui dedicare un capitolo a parte) per la frontiera partono solo due ore dopo, alle cinque. Inutile andare a letto per un'ora, così, con quattro ore di sonno in valigia negli ultimi due giorni, riparto in direzione sud.
Mi aspettava una traversata durissima fisicamente ma capace di compensare tutta l'esasperazione del giorno prima. A dividere i due paese è il grande fiume Ruvuma, ma nelle stagioni secche come queste c'è troppa poca acqua per far funzionare il traghetto. Così per cambiare nazione io e i miei compagni di daladala attraversiamo circa due chilometri di delta a piedi, con l'acqua in certi punti fino alle cosce( mentre scatto foto affascinata, Bukuku, compagno di viaggio angloparlante, mi fa presente che potrebbero esserci coccodrilli; allungo il passo anche se sono quasi sicura che mi stia pigliando per il culo), e solo per l'ultima tratto di fiume, il più profondo, si trova in attesa una canoa per portarci dall'altra parte. Durante la traversata incrociamo diverse barche di pescatori e qualche anima pia mi indica due sagome di ippopotamo non lontani da noi. (forse sono trecento metri, ma nello stato ipnotico da prolungata veglia mi sembra di essere in una dimensione onirica in cui metri e misure sono saltati). Inutile dirlo, è un luogo meraviglioso. L'idea che questa bellezza sia divisa fra due nazionalità sfuma tra le dita. Impossibile distinguere mozambicani e tanzaniani: tutti parlano swahili e si salutano sventolando pesce, quello dell'oceano indiano, spinto nel fiume dalla potenza del mostro.
Scesi dalla canoa ci fanno montare in sedici sul retro di un pick up che si inerpica per un sentiero disastrato fino all'ufficio dell'immigrazione mozambicana (una casa di fango con dei manifesti appesi che invitano i cittadini a fatturare la prestazioni e i servizi per far avanzare il paese). Poi ci restano altre quattro ore di pick up, mischiate e indivisibili le membra dell'uno con quelle dell'altro, gomiti del vicino nei fianchi a ogni buca e battute che non capisco (ma molte mi riguardano perchè colgo la parola Msungo, come in swahili vengono chiamati i bianchi) col sole che brucia la mia pelle bianca e riempie di goccioline le loro nere, prima di arrivare a Moçimboa da Praia.
Mi fermo qui, stremata ma sentendomi a casa. C'è una pensioncina che ispira simpatia e il proprietario appena gli dico che sono italiana mi fa : “Reggio Emilia, comitato de amisissia con mozambiche!” Quasi commossa gli dico che sono proprio di Reggio, cosa che naturalmente non lo stupisce perchè è l'unica cosa che conoscono dell'Italia . Non capisco se se la immaginano come la capitale o come una sorta di città stato in cui tutti, misteriosamente, parlano portoghese.
TAPPA 3, Moçimboa da Praia- Pemba (l'arrivo).
Terza alba africana in tre giorni. Il machimbombo (sono apostrofati così gli autobus anziani, suppongo con gusto onomatopeico) parte da Moçimboa alle quattro del mattino. Mentre lo aspetto mi godo la luna piena e mi faccio cullare dai discorsi in porto-swahili delle tre donne che aspettano con me, interrotti dalla tosse e dagli sputi della più vecchia.
A bordo ho la fortuna di avere come compagno di sedile Joao, settant'anni mozambicani sul groppone, occhi spessi per via della cataratta, mani nodose (rare da queste parti com'è rara la vecchiaia...), barba di riccioli bianchi come minuscoli fili del telefono appesi alle guance ebano. Il portoghese glielo hanno insegnato negli anni '50 suore italiane di stanza a Mueda, una cittadina che allora era un villaggio e in cui oggi prendono i telefonini di ben due compagnie diverse. Chiaccheriamo un po' di questo paese, io e Joao. Ma i suoi discorsi quasi sempre vanno a parare sul fatto che, “adesso, la guerra è finita” sempre preceduto da “la Guerra è Guerra”- chissà cosa ha visto accadere, cosa gli hanno fatto fare, di certo degli otto figli che ha concepito è già sopravvissuto a quattro. Ne parla come di un tributo ineluttabile, comunque grato di essere stato testimone di un così lungo segmento della storia . Mi stringe la mano prima di scendere, all'entrata di Pemba, nella strada alta da cui si vede tutta la baia. Rimasta sola, guardo ancora per qualche minuto la città scorrere sotto i miei occhi dal finestrino .Mi dico a mezza voce: “sono arrivata".
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