lunedì 5 ottobre 2009

Dar Es Salaam-Pemba, via terra


TAPPA 1 Dar es Salaam-Mtwara (il tramonto)
Qualcuno vende i giornali di ieri, qualcun altro chiodi sfusi. Qualcuno ha da vendere un oggetto solo e questo oggetto è una maglietta bianca: qualcuno, ci si creda o no, gliela compra. Ubungo, il terminal degli autobus di Dar Es Salaam, è una polveriera di polvere che già nel buio diguno che precede l'alba reclama migliaia di passeggeri sacrificali che batteranno ore e ore d'asfalto su strade assolate. E quando mancherà il sole mancheranno anche loro perchè a certe latitudini di notte non si viaggia- di notte ci si forma un giaciglio per elaborare la distanza che ci si è messi alle spalle, per abituare il corpo e la mente a quello che naso e occhi pensano di avere già capito; di notte non si viaggia perchè le strade sono piene di buchi che, complice il buio, potrebbero inghiottire noi e le nostre destinazioni. Di notte si adegua la schiena alla curva del mondo, quella che allontanandosi dall'equatore dovrebbe essere sempre e comunque in discesa, allora perchè andiamo così piano? Tappa prima, Dar Es Salaam-Mtwara. Due città di frontiera , ciascuno a modo suo: fra oceano e terra, tra animismo e islam, tra africano nero e arabo viadimezzo la prima; frontiera fra Tanzania e Mozambico la seconda, fra inglese e portoghese, fra due lotte per l'indipendenza chiuse con un rimescolamento di carte che ha lasciato i vincitori intontiti e dimentichi di riscuotere la loro vittoria.
Il viaggio dovrebbe durare otto ore tra le sei di mattina e le due di pomeriggio. Ma l'autobus della compagnia Tafuku Mwa Byana (una qualunque della giungla di nomi in swahili), si rompe tre volte in un'ora e alle cinque di pomeriggio siamo ancora nell'estrema periferia di Dar, tra viavia di venditori, poliziotti che sbadigliano e due meccanici improvvisati sdraiati sotto il motore. Ho voglia di Mozambico e nell'attesa inerte che col sole tramonti la speranza mi sembra di sentire l'agognata frontiera che si allontana. Per consolarmi scrivo e compro pomodori da mandare giù così, senza sale, con un'idea di basilico fissa tra un sopracciglio e l'altro (io che ne ho due) .
C'è stato un momento, prima del terzo e definitivo guasto, in cui è scoppiata una lite furibonda sull'autobus. Naturalmente qui si litiga in swahili e io dai toni credevo c'entrassero politica o donne. Invece alla fine qualcuno mi ha tradotto una sintesi: mettere su musica religiosa o hip hop locale? L'autobus era spaccato in due. Nemmeno quando invece a spaccarsi è stato il motore li ho visti accalorarsi tanto. Regola numero 56674453, mai misurare le rabbie di altre genti con criteri propri. Ma mentre lo scrivo ho la sensazione che la biro si ribelli, stremata quanto me, e mi si sciolga tra le mani.

TAPPA 2 Mtwara- Moçimboa da Praia (l'alba)
Cosa significa essere veramente stremati, tuttavia, lo avrei imparato ventiquattr'ore più tardi.
Alla fine l'autobus entrò a Mtwara, l'ultima città prima del confine mozambicano, alle tre del mattino dopo, con tredici ore di ritardo su otto di percorso. I primi daladala (i trasporti locali...a cui dedicare un capitolo a parte) per la frontiera partono solo due ore dopo, alle cinque. Inutile andare a letto per un'ora, così, con quattro ore di sonno in valigia negli ultimi due giorni, riparto in direzione sud.
Mi aspettava una traversata durissima fisicamente ma capace di compensare tutta l'esasperazione del giorno prima. A dividere i due paese è il grande fiume Ruvuma, ma nelle stagioni secche come queste c'è troppa poca acqua per far funzionare il traghetto. Così per cambiare nazione io e i miei compagni di daladala attraversiamo circa due chilometri di delta a piedi, con l'acqua in certi punti fino alle cosce( mentre scatto foto affascinata, Bukuku, compagno di viaggio angloparlante, mi fa presente che potrebbero esserci coccodrilli; allungo il passo anche se sono quasi sicura che mi stia pigliando per il culo), e solo per l'ultima tratto di fiume, il più profondo, si trova in attesa una canoa per portarci dall'altra parte. Durante la traversata incrociamo diverse barche di pescatori e qualche anima pia mi indica due sagome di ippopotamo non lontani da noi. (forse sono trecento metri, ma nello stato ipnotico da prolungata veglia mi sembra di essere in una dimensione onirica in cui metri e misure sono saltati). Inutile dirlo, è un luogo meraviglioso. L'idea che questa bellezza sia divisa fra due nazionalità sfuma tra le dita. Impossibile distinguere mozambicani e tanzaniani: tutti parlano swahili e si salutano sventolando pesce, quello dell'oceano indiano, spinto nel fiume dalla potenza del mostro.
Scesi dalla canoa ci fanno montare in sedici sul retro di un pick up che si inerpica per un sentiero disastrato fino all'ufficio dell'immigrazione mozambicana (una casa di fango con dei manifesti appesi che invitano i cittadini a fatturare la prestazioni e i servizi per far avanzare il paese). Poi ci restano altre quattro ore di pick up, mischiate e indivisibili le membra dell'uno con quelle dell'altro, gomiti del vicino nei fianchi a ogni buca e battute che non capisco (ma molte mi riguardano perchè colgo la parola Msungo, come in swahili vengono chiamati i bianchi) col sole che brucia la mia pelle bianca e riempie di goccioline le loro nere, prima di arrivare a Moçimboa da Praia.
Mi fermo qui, stremata ma sentendomi a casa. C'è una pensioncina che ispira simpatia e il proprietario appena gli dico che sono italiana mi fa : “Reggio Emilia, comitato de amisissia con mozambiche!” Quasi commossa gli dico che sono proprio di Reggio, cosa che naturalmente non lo stupisce perchè è l'unica cosa che conoscono dell'Italia . Non capisco se se la immaginano come la capitale o come una sorta di città stato in cui tutti, misteriosamente, parlano portoghese.

TAPPA 3, Moçimboa da Praia- Pemba (l'arrivo).
Terza alba africana in tre giorni. Il machimbombo (sono apostrofati così gli autobus anziani, suppongo con gusto onomatopeico) parte da Moçimboa alle quattro del mattino. Mentre lo aspetto mi godo la luna piena e mi faccio cullare dai discorsi in porto-swahili delle tre donne che aspettano con me, interrotti dalla tosse e dagli sputi della più vecchia.
A bordo ho la fortuna di avere come compagno di sedile Joao, settant'anni mozambicani sul groppone, occhi spessi per via della cataratta, mani nodose (rare da queste parti com'è rara la vecchiaia...), barba di riccioli bianchi come minuscoli fili del telefono appesi alle guance ebano. Il portoghese glielo hanno insegnato negli anni '50 suore italiane di stanza a Mueda, una cittadina che allora era un villaggio e in cui oggi prendono i telefonini di ben due compagnie diverse. Chiaccheriamo un po' di questo paese, io e Joao. Ma i suoi discorsi quasi sempre vanno a parare sul fatto che, “adesso, la guerra è finita” sempre preceduto da “la Guerra è Guerra”- chissà cosa ha visto accadere, cosa gli hanno fatto fare, di certo degli otto figli che ha concepito è già sopravvissuto a quattro. Ne parla come di un tributo ineluttabile, comunque grato di essere stato testimone di un così lungo segmento della storia . Mi stringe la mano prima di scendere, all'entrata di Pemba, nella strada alta da cui si vede tutta la baia. Rimasta sola, guardo ancora per qualche minuto la città scorrere sotto i miei occhi dal finestrino .Mi dico a mezza voce: “sono arrivata".

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