domenica 11 ottobre 2009

bukuku, una storia africana


Dar Es Salaam.
“Trentotto anni”, sorride infine, tra l'imbarazzo di ammetterli e l'orgoglio di non dimostrarli.
Nelle sue prime rughe Bukuku porta non solo le pieghe di un passato recente e collettivo-quello del suo paese e di una fetta del suo continente- ma anche la visione incerta di un presente mancato. Bukuku è un po' la Tanzania, l'east africa che avrebbe potuto essere. Profondamente africano nel dna ma aperto a contaminazioni “con criterio”, fiero della sua storia senza considerarla però un capitolo chiuso, attivista politico senza diventare burocrate di partito e di professione. Figlio d'arte, figlio della storia su cui a sua volta avrebbe tentato di incidere: suo padre era un sindacalista congolese seguace di Lumumba, sua madre una ugandese figlio di pescatori. I due si incontrarono da qualche parte sul lago Tangaika alla fine degli anno '60 e decisero di venirsene a Dar Es Salaam a cavallo del sogno di Nyerere e della sua Ujamaa, la via africana al socialismo. “Mio padre morì di infarto nel 1991, io ero ancora un ragazzo. Per fortuna non era più qui nel 1992 quando il presidente Mwiniy fece la famosa dichiarazione di Zanzibar con cui lanciava la via liberista allo sviluppo della Tanzania”. La dichiarazione di Zanzibar avvenne esattamente venticinque anni dopo quella di Arusha nel 1967, quando Nyerere, leader dell'indipendenza, lanciò l'ujamaa. “L'ujama aveva molti problemi, è vero, non ultimo quello di doversi muovere nella trappola della guerra fredda e dei suoi equilibrismi. Ma nello spirito di reciprocità e comunione interna e di autosufficienza dall'estero era sacrosanta: vicina alla filosofia bantu, quindi africana in senso radicale”.
Ammesso che la strategia di Nyerere fosse ispirata più alla reale cultura tradizionale che a ideali importati da nord, oggi il gioco di catarsi collettiva in un paese totalmente privatizzato e venduto al miglior offerente consiste nell'idolatrare gli anni dell'ujamaa: i politici al governo,membri dello stesso partito al potere dal '67, la CCM( Chama Cha Mapinduzi, partito della rivoluzione), non ne parlano come di un fallimento, ne parlano anzi con devozione mentre applicano politiche diametralmente opposte. Mostrarsi come fedeli eredi dell'indipendenza è il modo migliore di annullare gli sforzi da parte di una piccola società civile attiva di allargare i propri consensi criticando il partito. Un gioco che Bukuku subì già negli anni di Scienze Politiche all'università, quando un'imponente mobilitazione studentesca nella metà degli anni '90 venne presto cooptata e assorbita dall'ala giovanile della CCM.
Deluso, fa appello al sogno del Panafricanismo e nel '97 si tuffa nell'avventura congolese al fianco dell'allora tenente ribelle Kabila. Presto venne considerato più utile come quadro politico e mandato a sbrogliare il garbuglio della provincia dell'Ituri, al confine con l'Uganda: un conflitto tra l'etnia Hene Gegere (pastori) e quella dei Lendu (agricoltori), supportati da parti diverse dell'esercito ugandese per mantenere il caos nella regione.
Per anni Bukuku fece la spola tra Ituri e Kampala, dove giorno dopo giorno perde le speranze di venirne a capo : “ mi svegliavo col mal di testa ogni giorno. La situazione era come un dopo sbronza infinito”. Sentì come una vittoria anche propria l'ascesa al potere di Kabila in Congo, anche se poi “come tutti quelli che prendono il potere, ha cambiato indirizzo”. La situazione nell'Ituri, nel Katanga e nel Kivu, inoltre, era ben lontana da una soluzione. Ma Bukuku gli aveva già dato tutto quello che poteva e se ne ritirò stremato.
Fino al 2005 rimase comunque a Kampala ad occupare un posto presso la segreteria locale del movimento panafricano, finchè “Museveni usò il movimento panafricano per la sua campagna per cambiare la costituzione e poter essere rieletto”. Deluso ancora una volta dal potere, Bukuku tornò nella sua Tanzania, prima un anno a Mtwara (al confine col Mozambico), dove un fratellastro gli procurò un lavoro come consulente, poi di nuovo a Dar Es Salaam, dove tornò a praticare l'arte dell'arrangiarsi, nel migliore dei casi infilandosi “in qualche studio sugli obbiettivi del millennio, cose così” -sintetizza con scarso interesse e palese voglia di cambiare argomento.
Nel frattempo in Tanzania il panafricanismo è diventato roba da accademici, talora discussione da bar. Come il suo, il Mnazimoja (albero di cocco), dove i vecchi amici del quartiere l'hanno accolto con affetto e ora cercano di convincerlo a candidarsi come consigliere di quartiere con un partito alla sinistra di quello di governo, il Chadema. Forse davvero la cosa da fare è ricominciare dal piccolo, dal locale, dal tornare al tessere un tessuto come quello che rese possibile l'indipendenza “ che da qualche parte gli scampoli sono vivi, ma stanchi e isolati”; dal ridare lavoro e speranza ai giovani in un paese in cui la disoccupazione giovanile sfiora il 74% e l'indice di sieropositività è uno dei più alti del continente. “L'unica variabile veramente incognita nel futuro africano è l'irruzione della nuova generazione”, afferma con uno sguardo che brilla di nuovo. Una pentola a pressione. Sono stati loro a guidare le rivolte della fame del febbraio e marzo 2008 contro il rincaro dei generi alimentari. Ma sono anche loro, quasi sempre,ad andarsene: qualcuno tenta la fortuna con la F maiuscola verso l'Europa (via Uganda-Sudan -Egitto) , qualcun'altro attraversa il Mozambico per approdare in Sudafrica, “ma sempre di più trovano un lavoro a Dubai, il nuovo eldorado”. Ormai esistono vere e proprie agenzie che recluatano lavoratori di ogni tipo per Dubai, città senza un'identità propria, mosaico di immigrazione bicontinetali. Così ha fatto sua sorella minore che fra un mese partirà per fare la cassiera in un supermercato di Dubai: trecento euro al mese invece degli 80 che guadagna qui. Ma un'altra giovane che se ne va. Ancora negli anni '80, dice, l'aspirazione di un giovane era quella di avere un posto sicuro come marinaio in una delle tante navi cargo che salpano dal porto di Dar. Un modo di girare il mondo e avere sempre qualcosa nel portafogli. Poi, “hanno cominciato a entrare quantità industriali di droga. Tanti della mia generazione hanno sostituito il sogno del marinaio con quello dello spacciatore, 'è solo per un periodo' , 'è solo per questa volta'; quanti amici si sono imbarcati per la thailandia o l'india per fare i corrieri...e non se ne è saputo mai più niente”. Bukuku si fa avanti sulla sedia: “ La perdita della speranza in cui siamo sprofondati, al di là delle promesse di un futuro roseo, si sta trasformando in una specie di malattia mentale. Conduce al cinismo, a una paralisi delle anime, delle loro volontà”.

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