mercoledì 3 giugno 2009
sudafrica, presi a calcio dal calcio
(foto e.olcina, testo s.corsi)
Quando nel 2004 la Fifa annunciò che i mondiali di calcio del 2010 si sarebbero tenuti in Sudafrica, molti protagonisti dell'epoca avranno pensato all'eredità simbolica del mitico campionato di calcio a Robben Island, tanto più che quasi subito venne deciso che l'inaugurazione del torneo si sarebbe tenuta nella storica township di Soweto, a Johannesburg.
Ma se molte cose si possono raccontare della storia sudafricana attraverso il gioco del pallone, altrettante possono dirsene sul suo controverso presente.
Per rispettare le promesse fatte alla Fifa quandoil Sudafrica era candidato a ospitare i mondiali 2010, il governo Mbeki aveva inizialmente previsto un investimento di 18 miliardi di rands (circa 1.5 miliardi di euro), metà delle quali destinato alla costruzione di tre nuovi stadi.
Una cifra che però non smette di lievitare, trascinata dalle colossali spese per costruire i tre principali impianti a Johannesburg, Durban e Cape Town. Specialmente su questo di Città del Capo susseguono le richieste di ampliamenti e migliorie estetiche, in un perfezionismo che sta dissanguando le casse sudafricane: da 3 miliardi iniziali, a meta' dell'opera sono già 5.
L'unico dettaglio che non sembra preoccupare gli ispettori Fifa riguardo i fiammanti impianti sportivi sono le condizioni di lavoro degli operai che ci lavorono. Stanchi di lavorare dieci ore al giorno per 60 dollari al mese, al soldo di una ditta sub-sub-sub-contrattata dal vincitore originale dell'appalto, gli operai sindacalizzati sono continuamente in sciopero. Gli altri, spesso mozambicani o congolesi, continuano a lavorare contenti di lavorare, non importa quanto sfruttati, alla costruzione in tempo record di queste moderne piramidi sportive. Che resteranno in buona parte inutilizzate dopo luglio 2010: in Sudafrica il calcio è lo sport dei neri delle township, che non hanno molto da spendere in intrattenimento . Per farsi un'idea, il massimo derby del campionato fra Orlando Pirates e Kaiser Chiefs, totalizza a malapena 30 mila spettatori, quando per riempire uno dei nuovi stadi ce ne vorranno almeno 70 mila.
Ma l'aspetto più lontano dallo spirito del campionato che si giocava a Robben Island riguarda la necessità di ripulire le città che ospiteranno i mondiali. In uno dei paesi più pericolosi del mondo, come garantire la sicurezza degli spettatori? André Prius, alto commissario della sicurezza, ha spiegato che a questo proposito il modello da seguire sarà quello dei Giochi panamericani tenutesi a Rio de Janeiro nel luglio 2007. Non è una buona notizia per i difensori dei diritti umani: per ripulire Rio, le favelas delle città furonoinvase da squadre speciali che per arrestare una pugno di narcos lasciarono sull'asfalto decine di morti.
La sfida sudafricana sembra fare un passo ulteriore, ponendosi il problema di come evitare che qualche telecamera delle centinaia che inquadreranno il paese si posi sbadatamente su un informal settlement, le baraccopoli della rainbow nation.
Durban è forse la città che offre le rispose più incontrovertibili a queste domande. Capitale del Kwa Zulu-Natal, roccaforte dell'ANC e terra natale del futuro presidente Zuma, è governata da Jonathan Sutcliff, un bianco ribattezzato «white shark», lo squalo bianco. Il soprannome gli viene dall'applicazione dello Slums Clearence Bill, un decreto di «pulizia» delle baraccopoli. Incapace di liberarsene offrendo ai suoi abitanti opportunità e condizioni di vita più dignitose, il nuovo Sudafrica deve intanto preoccuparsi di nasconderli alla vista in tempo di mondiali.
Così lo Slums Clearence Bill elimina la necessità di un mandato per procedere a uno sgombero, a cui la polizia procede quasi sempre con la forza e senza che il municipio suggerisca soluzione alternativa alcuna.
Gli abitanti degli slums più centrali, o troppo vicini agli stadi, o dalle principali autostrade, vengono cacciati verso altre baraccopoli lontane dagli occhi indiscreti dei tifosi che verranno. «E' una logica di segregazione simile a quella dell' apartheid», dice Orlean, una sudafricana di origine indiana insegnante universataria e attvista dell' Anti Eviction Campaing, la campagna contro gli sfratti. «Non solo i poveri urbani non avranno alcun beneficio dall'enorme business dei mondiali; molti di loro saranno tenuti lontani dallo show con ogni mezzo».
Destino amaro anche per i «commercianti informali», i circa trentamila venditori ambulanti della città. Non solo sarà loro proibito dal vendere qualunque materiale inerente al mondiale, ma dovranno stare alla larga dalla zona centrale per tutto il mese delle partite - anche coloro che da anni pagano l'affitto di un gazebo e che sono regolarmente registrati. Mentre l'enorme English Market, epicentro del commercio popolare della città, che ospita fra l'altro il mercato delle erbe tradizionali, sarà raso al suolo per fare spazio all'ennesimo centro commerciale.
«Il 75% dell'attività commerciale in Sudafrica è già in mano a cinque compagnie di centri commerciali», spiega Gabi di Streetnet, una rete internazionale di venditori ambulanti che ha qui a Durban uno dei suoi nodi africani. «E' così che il governo pensa di sconfiggere il crimine entro il 2010? Sgomberando slums e cacciando i venditori ambulanti? Tutte queste persone di qualcosa dovranno pur sopravvivere...».
Nel marzo 2007, Streetnet, sindacati urbani di muratori e associazioni di prostitute hanno dato vita alla campagna World Class Cities... for All, Città di classe mondiale...per tutti», che rivendica un approccio non elitista e più partecipativo all'organizzazione dei mondiali di calcio. Ma quasi tutte le rivendicazioni della campagna sono finora cadute nel vuoto, e lo scenario che si prepara vede sfruttamento del lavoro nei cantieri e della prostituzione, repressione dei venditori ambulanti e cacciata degli abitanti degli slums. Molti di loro, preoccupati dalla battaglia quotidiana per sbarcare il lunario, non sapevano neanche che lo Slums Clearence Bill è nato in seno alle politiche urbane in vista dei mondiali: a Crossmore, uno slum a quasi un'ora del centro della città, si trova ora un centinaio di famiglie sfrattate da una baraccopoli più centrale. Grazie alla pressione dell' Anti Eviction Campaign, il municipio ha fornito loro tendoni da circo gialli e blu, ripescati da qualche magazzino comunale, per non farli dormire sotto le stelle mentre rimediano il materiale per costruirsi un'altra baracca.
Quel campionato a Robben Island: la palla più efficace di una bomba
Negli anni '60 nel carcere in cui erano detenuti Mandela e gli altri combattenti anti-apartheid fu consentito il football: fu un errore Quante cose si possono raccontare della storia sudafricana attraverso la lente del football, dagli anni dell'apartheid a giorni nostri.
Un battesimo d'eccezione il bel gioco da queste parti lo ebbe con la fondazione del leggendario MFA (Matyeni Football Association), il campionato di calcio dei detenuti di Robben Island, l'isola-prigione davanti alla baia di Città del Capo in cui venivano spediti gli oppositori dell'apartheid. Sarà per quello che in Sudafrica il calcio è associato nell'immaginario popolare con i neri e il rugby con i bianchi afrikaaner.
Nel 1963 era ancora impensabile che l'autorità carceraria desse vinta ai detenuti la battaglia che portavano avanti per giocare a pallone durante l'ora d'aria. Ma una visita al carcere della Croce rossa internazionale quell'anno convinse il regime segregazionista ad approfittare dell'occasione per mostrare al mondo che le condizioni di detenzione nell'isola non erano poi così raccapriccianti: la macchina repressiva non poteva immaginare di quale straordinario strumento di resistenza stesse per dotare le sue vittime.
I prigionieri ottennero così il loro primo pallone da calcio e si riunirono per organizzare il torneo .
I detenuti non si accontentarono di fare due tiri nell'ora d'aria, ma decisero di organizzare un vero e proprio campionato secondo le regole internazionali della Fifa. Divisero tutti gli «ospiti» della prigione in dieci squadre, ciascuna rappresentata in tre categorie (la serie A per i semi professionisti, la serie B per le schiappe e la serie C per i detenuti anziani).
Chi non poteva giocare, veniva iscritto alla Referees Union, la lega arbitri, e sollecitato a leggersi per filo e per segno il manuale della Fifa.
Fu deciso anche che la formazione delle squadre avrebbe trasceso qualunque criterio politico: ogni team doveva contare nelle proprie file componenti di ogni movimento della galassia anti-apartheid .
Iniziò così la fine della faida interna che aveva indebolito il movimento di liberazione dal potere bianco e si aprì la strada alla futura confluenza di quasi tutti i partiti minori dentro l'African National Ccongress di Nelson Mandela. Negli autobus di ritorno dalle cave dei lavori forzati (le Matyeni da cui, con un tocco d'ironia, prendeva nome l'associazione calcistica) si scambiavano di posto per raggiungere ciascuno il braccio in cui erano reclusi gli altri membri della propria squadra.
Il sabato mattina, quando si giocavano le partite delle partite di serie A, era l'evento più esaltante della vita dei detenuti.
Fu rendendo il campionato di calcio di Robben Island il più serio ed egualitario possibile che futuri leader del Congresso Nazionale Africano impararono a organizzare ed ispirare gli uomini che li circondavano.
In pochi sanno ad esempio che il soprannome «Terror» di Joshua Lekota, l'attuale leader del Cope (il Congress of the People nato recentemente dopo la scissione dall'ANC fra i seguaci dell'ex-presidente della repubblica Thabo Mbeki e il presidente dell' African National Congress Jacob Zuma), non gli viene dagli anni della lotta armata ma da quelli in cui era il capocannoniere dei Rangers di Robben Island e il terrore dei portieri avversari.
(pubblicato su "il manifesto" del 28/11/2008)
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