mercoledì 3 giugno 2009

zimbabwe , ipocrisie occidentali


Ogni anno di questa stagione nel Mashonaland, la regione a nordest di Harare, si tiene, villaggio per villaggio, la festa dei girasoli: ogni comunità sceglie la famiglia che ha il campo di girasoli più bello. Ben e Twania sono fra i vincitori di un villaggio non lontano dalla città di Mutoko e, sotto un impietoso sole zimbabweano di metà mattinata, spiegano al resto della comunità venuta a festeggiarli come hanno ottenuto un raccolto così buono. Probabilmente, oltre a quello che servirà loro per cucinare le salse con cui accompagnare la sadza- la polenta zimbabweana- gli resterà un po’ di olio da vendere.
Ben e Twania sono artefici di un piccolo miracolo: estraendo dal cilindro antiche conoscenze agricole, sono riusciti a coltivare i girasoli senza l'aiuto dei fertilizzanti che avrebbero dovuto essere stati distribuiti dal governo ma la cui assenza durante tutto il 2008 oggi condanna il paese a un magrissimo raccolto. Lo spettro della carestia, dopo l'epidemia di colera che ha mietuto in pochi mesi più di quattromila vittime, si addensa come una nuvola nera sullo zimbabwe: “Abbiamo calcolato che, su dodici milioni di zimbabweani, cinque dipenderanno nei prossimi mesi dagli aiuti internazionali per non morire di fame” spiega Kamuri della Nango, un ombrello che raccolglie Ong e associazioni locali. Gli aiuti internazionali però sono bloccati dallo scetticismo della comunità internazionale verso l'accordo di governo tra il partito di Mugabe, padre-padrone dello zimbabwe post-liberazione, e quello di Morgan Tsvangirai, ex sindacalista e capo dell'opposizione. L'accordo è arrivato a metà febbraio, quasi un anno dopo le controverse elezioni del marzo 2008 cui sono seguiti undici mesi di caos istituzionale e sociale, epidemie, miseria. Eppure, camminando per Harare si percepisce ancora l'orgoglio di un città che era abituata a vivere più che dignitosamente e che ha vissuto quasi con incredulità la lenta e lunga discesa. Il 2000 fu un giro di boa per il paese che solo un decennio prima era il più ricco d’Africa. Fu l'anno in cui Mugabe perse il favore incondizionato dei suoi e fu sconfitto nel referendum costituzionale: molti zimbabweani erano sfiniti dalla corruzione del partito al potere, mentre l'elite bianca era ormai venuta ai ferri corti con quella nera legata al partito di Mugabe e sperava in nuovo corso se la neonata opposizione l'avesse sconfitto alle successive presidenziali. Per riconquistare il voto popolare, Mugabe lanciò allora il programma di riforma agraria che, nelle parole, avrebbe dovuto redistribuire le terre a favore della massa che fino a quel momento l'aveva lavorata come bracciante. In realtà, le più grosse farm finirono nelle mani dei veterani di guerra e di membri del Joc (Joint Operational Command, l'oscura cupula militare che tira le fila del paese), che si limitarono a speculare sul latifondo abbandonando la produzione agricola. Ai diseredati che venivano pomposamente caricati su camion e portati nelle farms non venivano dati nè i crediti nè gli strumenti necessari a coltivare la terra. “Da due anni non produciamo più nulla” dice ancora Kamuri.In un solo anno la produzione di mais crollò del 60%;destino simile per quella di tabacco, leva dell'economia. Sulla strada fra Harare e Nyamapanda enormi silos spezzano l'orizzonte ondulato delle colline. Sono vuoti. In questo modo Mugabe e la sua cricca hanno finito per dare argomenti ai nostalgici dell'apartheid economico della Rhodesia di Ian Smith, e creato un precedente odioso per tutti i paese africani che cerchino di affrontare il problema della riforma agraria.Oggi lo Zimbabwe è un paese in emergenza umanitaria cronica : una persona su cinque è sieropositiva e sette su dieci vivono sotto la linea di povertà. Dal primo gennaio al 31 dicembre 2006 un milione e mezzo di persone sono morte di fame e malattie: un decimo della popolazione. Dati del governo, che nel 2007 e 2008 non ha avuto neanche più i mezzi per tenere censita la situazione.La lenta discesa del paese negli inferi è stata inversamente proporzionale ai guadagni delle compagnie straniere, soprattutto minerarie, che nella corruzione del governo hanno trovato invece una gallina dalle uova d’oro. Perchè solo quando Mugabe ha smesso di essere un alleato sottobanco il resto del mondo ha cominciato finalmente a parlare di lui per ciò che era da un pezzo: un capo di stato corrotto e disposto a tutto pur di restare al potere. Peccato perché il sistema scolastico lanciato da Mugabe subito dopo la liberazione e durante gli anni '80 fu uno dei migliori d'Africa, quello sanitario per certi aspetti era più all'avanguardia di quelli europei. Ma nel frattempo le maglie della corruzione si allargavano, il marxismo di facciata lasciava il posto a un liberismo di fatto e si gettavano le basi per uno stato di polizia: non è un caso che il punto di riferimento ideale ed economico di Mugabe fosse già, da decenni, la Cina. Altra ragione per cui è stato trasformato in un bersaglio dei paladini dei diritti umani solo recentemente, con vent'anni di ritardo rispetto alla più grave violazione di cui si sia macchiato: il massacro degli Ndebele, guidati dall'oppositore socialista Nkomo, nel 1983. Ventimila vittime che però, sul palcoscenico internazionale, non costarono a Mugabe quanto il peccato capitale di aver confiscato le farms all'elite bianca per regalarle all'elite nera Vittima di questo giochi di potere un popolo oggi in ginocchio, che si arrabatta coltivando con pochi mezzi girasoli, canna di zucchero e mais, e soprattutto contando sulle rimesse dall'estero . Dei dodici milioni di zimbabweani, tre e mezzo sono all'estero, quasi tutti fra Sudafrica, Inghilterra ed Australia, e oggi è proprio grazie alle rimesse della diaspora che la crisi non è stata devastante come avrebbe potuto. Fino a due mesi fa, questo era l'inferno” racconta Jacob. “Colera, ospedali senza luce e acqua, niente cibo nei negozi, niente benzina ai distributori”. Poi, l'accordo di governo che, se non altro, ha subito abolito il monopolio di stato sulla moneta e sui tassi di cambio: lo Zimbabwe si è dollarizzato dalla sera alla mattina, anche se non ufficialmente. Nelle banche continuano a lampeggiare sui display le cifre folli dell'iperinflazione, ma i cassieri scoppiano a ridere all'idea di scambiare dollari statunitense con quelli zimbabweani, trasformati in carta da monopoli. L'ultima banconota stampata- da dieci di dollari zimbabweani- dà un'idea della follia raggiunta dalla Reserve Bank e dal suo governatore Gono negli ultimi mesi del 2008. Oggi i prezzi nei supermercati sono tutti in dollari, la merce quasi tutta importata dal Sudafrica. Risultato?Costo della vita quasi europeo. “Non ci resta che sperare nell'accordo di governo” sospira, esprimendo una speranza che sa di mancanza d’alternative, un'attivista della società civile oppositrice di Mugabe che preferisce restare anonima, memore delle sparizioni e delle vittime della campagna “where did you put your cross?” (“dove hai messo la tua croce?”), la purga seguita alle elezioni di marzo e messa in atto dai vertici militari ai danni dell'opposizione. Opinione diffusa è che sia proprio la cupola militare a impedire l'uscita di scena di Mugabe: teme di essere processata e incriminata per i massacri del passato se il potere passasse completamente nelle mani del MDC di Tsvangirai. Per questo, la società civile che si oppone a Mugabe sa che l'accordo di governo è, per ora, l'unica strada percorribile. Agli occhi di un osservatore esterno sembra improbabile due avversari storici come Tsvangirai e Mugabe possano riuscire a lavorare spalla a spalla, attuare lo Sherp (Short Term Recovery Program, il programma d'emergenza di risanamento economico ) e soprattutto scrivere una nuova Costituzione. Ma quello che l'accordo di governo fallisca non è l'unico rischio. Gettando uno sguardo aldilà dell'emergenza se ne intravede un altro: quello che, al contrario, la condivisione di poteri funzioni troppo bene . E che il nuovo esecutivo decida di restare in carica ben oltre l'anno e mezzo che si è dato per uscire dal pantano della crisi, e di rimandare a chissà quando la stesura di una vera costituzione e delle elezioni che dovrebbero seguirla.

Nessun commento:

Posta un commento