venerdì 5 giugno 2009

zimbabwe, si torna a vivere


(testo e foto s.corsi)
Harare non sembra la città appena uscita da un incubo che ti aspetteresti. Le strade, piuttosto pulite, pullulano di automobili e di vita; i benzinai distribuiscono regolarmente il carburante, i negozi espongono i loro prodotti in bella vista,e nel parco centrale fra le aiuole curate i venditori ambulanti di giornali esauriscono le loro copie prima del tramonto. Altri segnali di convalescenza percorrono la città: le file davanti alle banche non sono più chilometriche anche perchè il mese scorso una parte degli impiegati pubblici, fra cui gli insegnanti, hanno di nuovo ricevuoto lo stipendio dopo mesi. Ecco perchè sui marciapiedi si vedono frotte di bambini con l'uniforme scolastica che, dopo un anno andato perduto, sono entusiasti di tornare sui banchi di scuola.
Eppure, per la maggior parte degli zimbabweani l'economia è ancora una questione di sopravvivere alla giornata. Su un big taxi, i pulmini volksvagen che fanno da trasporto collettivo in città, una signora conta i zimba, i dollari zimbabweani che le occorrono per pagare l'autista, e finisce per allungare una fascio con una cinquantina di banconote da cinquecento milioni di dollari. Storture dell'iperinflazione che a fine 2008 ha toccato il record storico dei due milioni percentuali, costringendo la Reserve Bank a una prassi delirante: stampare ogni settimana uno nuova banconota arricchita di zeri, saturare il paese con carta da monopoli. “vietato tirare dollari zimbabweani e altri oggetti” recitano da qualche tempo i cartelli nelle toilette pubbliche. Anche se la moneta è ancora ufficialmente valida- nei display delle banche lampeggiano ancora i folli tassi di cambio- per tutta l'economia formale del paese il zimba è ormai carta da monopoli. I prezzi nei negozi sono tutti in dollari statunitensi o in rand, la moneta sudafricana. “Finalmente si respira...ci stiamo riprendendo” sostengono Evenmore e Louis, una coppia di Harare che vive in una lussuosa casa di Avondale, il quartiere di chic della città. I due, durante le settimane in cui gli scaffali dei supermercati di Harare erano vuoti, guidavano il migliaio di chilometri fino alla frontiera sudafricana per rifornirsi di cibo e prodotti di prima necessità. Ora, sono fra i primi a godere del nuovo corso monetario in dollari americani che ha restituito un valore concreto ai prodotti e, pertanto, tornato a riempire i supermercati. Ma non tutti hanno accesso alla moneta straniera. Evenmore lo sa bene perchè, prima che il marito cominciasse a fare affari d'oro con la sua ditta di autotrasporti, viveva con la famiglia a Mabvoko, nella periferia povera a est della città. Un luogo dignitoso ma in cui luce e acqua vanno e vengono, e con uno scorcio che rappresenta bene la caduta del paese: enormi cisterne d'acqua in disuso e, ai loro piedi, pozzi a pompa manuale che la gente ha costruito in fretta durante l'esplosione di colera.
Così, in questo momento nel paese di transizione sopravvive una seconda economia informale, parallela a quella dollarizzata di Evenmore e il marito: è quella dei big taxi o dei venditori ambulanti di frutta e verdura, che continuano a far circolare la patata bollente del zimba. Chiunque speran di avere il resto in dollari o rands e di liberarsi dei chili di banconote locali prima che il loro valore sia definitivamente nullo.
I più fortunati sono quelli che ricevono valuta straniera dai parenti all'estero. Che d'altra parte sono moltissimi: su circa dodici milioni di zimbabweani,tre e mezzo sono quelli che compongono la diaspora, quasi tutta distribuita fra sudafrica ed inghiliterra. Dalla vicina nazione arcobaleno si è organizzata in questi anni l'opposizione al regime. “ Tutti noi vorremmo tornare nel nostro paese, nel quale non saremmo vittime della xenofobia sudafricana” esclama Janice, una giovane oppositrice a Mugabe che fa adepti presso l'università di Durban, una delle più attive ad organizzare incontri e conferenze sulla situazione zimbabweana.“Se non fosse per i rands che mando ai miei figli, non so di che avrebbero vissuto” racconta Valery. “ Io sono tornata in Zim per natale. LAggiù, due mesi fa, era l'inferno”. Si riferisce al punto più basso toccato dallo zimbabwe nella sua interminabile crisi: l'epidemia di colera che ha ucciso quattromila persone fra dicembre e gennaio. Altri cinquantamila contagiati si sono salvati accedendo a uno dei CTC (Cholera Treatment Center) allestiti da Medici Senza Frontiera o varcando il confine sudafricano a Musina, dove per l'emergenza era sorto un campo profughi. Dell'esodo verso il sudafrica e del dramma del colera parla Dependence, uno spettacolo teatrale andato in scena per mesi ad Harare, che in qualche modo- anche attraverso lo sforzo dei giovani attori di continuare a lavorare gratis durante la crisi- invitava i connazionali a non andarsene in Sudafrica ma a rimboccarsi le maniche per cambiare le sorti del paese. Un messaggio coraggioso, ma è impossibile biasimare i tanti che non l'hanno colto: gli ospedali zimbabweani, sprovvisti di acqua potabile, energie e medicine, furono pressochè inservibili durante tutta l'epidemia. Ma ora che l'insufficienza di risorse è parzialmente risolta, rimane da colmare il gravissimo gap di personale di quello che una volta era il miglior sistema sanitario d'Africa. Mentre la spirale si stringeva in cerchi sempre più piccoli asfissiando l'economia, migliai di professionisti fra medici e infermieri sono andati a trovare lavoro qualificato- ed adeguatamente pagato- nel vicino Sudafrica. Secondo stime non ufficiali ( d'altronde impossibili da reperire visto il caos in cui versano ancora gli uffici pubblici) nel paese oggi non rimarrebbero che poche centinaia di medici, di cui almeno un terzo cubani. “ L'ospedale di Harare, saturo ma completamente inefficiente durante l'epidemia, adesso è un luogo fantasma: ormai la gente ha rinunciato ad andarci” racconta Luciano, un catanese specialista in malattie infettive che lavora in zimbabwe a periodi alterni da nove anni. Parlare di malattie infettive in Zimbabwe è, naturalmente, parlare di aids. Nel 2003 il tasso di sieropositività era del 25% . “Ma in Zimbabwe non si muore di aids” specifica Luciano. “In Zimbabwe si muore di fame”. E' stato, di fatto, il mancato accesso ai farmaci e la malnutrizione che ha colpito la popolazione negli ultimi anni a mietere vittime.
Gli ultimi dati disponibili si riferiscono all'anno 2006, nel corso del quale più di un milione di persone- un decimo della popolazione- è morto di fame o malattie. L'aspettativa di vita, che ancora negli anni '90 si aggirava intorno ai 60 anni, oggi è di 43. Ma cosa ha provocato il tracollo di quella che veniva considerata la Svizzera d'Africa?
“Sicuramente il malgoverno” spiega T. un'attivista della società civile che preferisce rimanere anonima. “Ma è sbagliato far iniziare tutto con la riforma agraria del 2000. La confisca delle terra non fece altro che velocizzare un processo con cui anni di corruzione selvaggia e clientelismo avevano già condannato lo Zimbabwe al collasso”.
Il punto di non ritorno infatti precede di tre anni la controversa riforma agraria del 2000, ed è il “venerdì nero” del settembre 1997. Già da anni militari e veterani di guerra- una vera e propria casta nel paese- reclamava dal governo onerosi indennizzi. Ma le casse dello Stato non erano in grado di sopportare una spesa del genere. Ansioso di non perdere l'appoggio dei suoi alleati militari, Mugabe ordinò alla banca centrale di stampare dal nulla tutto il denaro occorrente e di distribuirlo ai veterani. Come naturale conseguenza economica il giorno dopo, venerdì -----, il dollaro zimbabweano aveva perso il 70% del suo valore.
Lo scontento del governo si faceva sempre più diffuso. Ma le elezioni erano regolarmente falsate dalla spada di damocle dei militari del JOC (Joint Operational Command) la cupola militare del paese.
Nonostante tutto, gli zimbabweani nel 2000 sbatterono la porta in faccia a Mugabe bocciando una riforma costituzionale che lo stesso Mugabe aveva sottoposto a referendum. Fu allora che il padre-padrone della patria lanciò il demagogico programma di riforma agraria che confiscò buona parte delle farms ai bianchi eredi dell'ex Rhodesia ma, anzichè distribuirle alla gente insieme agli strumenti necessari per continuare a coltivarla, affidò i latifondi all'elite del governo. In molti casi,le gigantesche farms che avevano contribito a rendere il paese il granaio dell'africa meridionale si trasformavano nella casa delle vacanze di qualche notabile dello Zanu-Pf, il partito di Mugabe, o dell'esercito. “Da due anni non produciamo più nulla” dice ----di Nango, un ombrello di associazioni zimbabweane. “I piccoli proprietari non hanno avuto accesso nè a semi nè a fertilizzanti”. Chi coltivava per la sussistenza, quest'anno non ha avuto modo di scambiare il minimo di surplus con altri generi alimentari: complice la scarsità di carburante e l'iperinflazione, spostarsi dalle campagne era divenuto quasi impossibile. Secondo Medici senza Frontiere, cinque milioni di zimbabweani sono a rischio carestia a partire da maggio, perchè la stagione del raccolto di marzo aprile, sempre più scarsa negli ultimi anni, stavolta sarà pressochè nulla.
Eppure, colpisce la capacità di questo popolo di resistere con dignità ai contraccolpi della crisi. Nel Mashonaland est questa è la stagione della tradizionale festa dei girasoli: ogni comunità elegge la famiglia che è riuscita a ottenere il miglior campo di girasoli. Ben e Twania sono i vincitori di una piccola comunità vicino alla città di Mutoko, e in quanto vincitori ora dovranno ospitare la festa a cui parteciperà il resto del villaggio. Spiegano che, in assenza di fertilizzanti chimici, hanno usato l'acqua in cui bollivano il pesce per rinvigorire la terra, ripescando dal cilindro una vecchia conoscenza shona (l'etnia maggioritaria del paese). Gli altri prendono appunti e poi offrono danze e musica per dare vita alla festa all'ombra di un gigantesco baobab.
Colpisce anche la ferma volontà degli zimbabweani dii non trasformare il paese in una giungla in cui il crimine e la violenza stabiliscono la scala sociale- come succede nelle aree più degradate del vicino Sudafrica, socialmente devastato da una violenza endemica senza fine. “Siamo molto più istruiti dei nostri coetanei sudafricani”: spiega così la relativa assenza di delinquenza Nathalie, un'ex parrucchiera che oggi viaggia in autobus verso Johannesburg per andare a trovare la figlia che ha trovato lavoro là. E' vero: fra i tanti errori del regime di Mugabe, bisogna comunque riconoscere che per anni lo Zimbabwe offrì ai suoi cittadini un sistema scolastico ed educativo di tutto rispetto. Insieme a Nathalie viaggiano sull'autobus diversi zimbabweani che col Sudafrica intrattengono qualche tipo di commercio più o meno formale. “Ma oggi a passare la frontiera ci vorrà al massimo un'ora...non più le sette o le otto ore che impiegavamo in gennaio” assicura Evenmore, che ha vissuto in prima persona il drammatico esodo verso il Sudafrica dei mesi scorsi.
L'esodo non era dovuto solo alla paura del colera. Ancora prima dell'esplosione dell'epidemia, fra marzo e dicembre, il paese fu scosso da una campagna di terrore scatenata dai mastini di Mugabe contro i membri dell'opposizione, ma anche contro le famiglie accusate di averla votata. La campagna prese il nome di “where did you put your cross”e la sua fase più cruenta fu quella che seguì il primo turno elettoriale di marzo, vinto dall'opposizione. Centinaia fra morti, torturati e rapiti convinsero Tsvangirai, leader dell'opposizione, a ritirarsi dal secondo turno di giugno, vinto da Mugabe in assenza di avversari. Mary, una fisioterapista di un'ospedale del Mashonaland, dovette fuggire in Sudafrica col marito, un noto militante del MDC (Movimento democratico per il Cambio) per diversi mesi. “Fuggimo appena in tempo” racconta Mary. “Hanno ucciso un suo caro collega e amico e un conoscente comune ci avvertì che il prossimo sarebbe stato lui”. Mary è tornata al lavoro, ma il marito è ancora nascosto presso amici ad Harare: ancora troppo pericoloso tornare a casa. “Mancano ancora all'appello 40 militanti del MDC” esclama l'avvocato specializzato in diritti umani----.
Eppure ora l'MDC e i suoi militanti non dovrebbero più essere perseguitati, tanto meno come membri dell'opposizione, visto che il loro partito è al governo: il 13 febbraio infatti, dopo un anno di caos sociale ed istituzionale, Tsvangirai e Mugabe hanno firmato un accordo di governo di unità nazionale. Tsvangirai primo ministro, Mugabe presidente della Repubblica e i ministeri più importanti equamente divisi. Riusciranno i due avversari storici a lavorare spalla spalla?La maggior parte degli zimbabweani, anche quelli che dagli uomini di Mugabe hanno subito ogni sorta di vessazioni, vogliono essere ottimisti. Mary invece scuota la testa mentre legge il giornale sull'auto dell'ospedale che da Harare la riporta al lavoro. Mary spera di sbagliarsi ma anche la comunità internazionale è scettica. E scettici sono anche i donatori internazionali e le grandi istituzioni di credito come FMI e Banca Mondiale, dai cui prestiti in tempi rapidi dipende il futuro prossimo del paese e la sopravvivenza – letterale- di milioni di zimbabweani.
Nessun vede di buon occhio l'accordo di governo perchè tutti avrebbero preferito liberarsi di Mugabe, presumibilmente più per la vicinanza che questi ha dimostrato nei confronti della Cina che per le violazioni dei diritti umani di cui si è macchiato. La Cina è l'unica grande potenza che ha continuato a investire direttamente nel paese, mentre UE e Regno Unito facevano la voce grossa contro Mugabe per poi permettere alle proprie compagnie di continaure a speculare sulle estrazioni minerarie di granito nero, platino, mercurio e diamanti.
Già, perchè gli zimbabweani condividono la stessa sfortuna di altri popoli africani, come quello del Congo o della Sierra Leone: calpestare una terra estremamente ricca di minerali. Il desiderio di vederli luccicare fra le proprie mani, e la competizione che si scatena fra compagnie straniere disposte a tutte per accaparrarsi i proventi di questa o quella miniera, drammatizza la corruzione e la violenza del governo.(pubblicato sul mensile Galatea)

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