sabato 31 ottobre 2009

johannesburg, donne e cartapesta


L'ultimo capitolo delle mie incursioni africane è sempre Johannesburg (o, come direbbe chi ne sa, JoanElensburg).
Si chiude a johannesburg perchè da qui i voli costano poco. E perchè da qui costano poco? Perchè questa è la capitale di un continente intero. Piaccia o no, tutto passa da questa metropoli grigiofumo che ti fa sentire a New York per le sue infinite possibilità sfavillanti ma anche per i suoi infiniti bronx, per i suoi edifici anni 30 con le scale antincendio e per quella specie di sax di sottofondo mentre la cammini circospetta- circospetta tu e circospetta lei.
Curioso - o ovvio?- che la capitale dell'Africa sia forse la sua metropoli meno africana, cuore del paese che il meno africano lo è sicuramente, anche se nella sua storia conserva marcato a fuoco un destino in cui, in maniera forse indelebile, sono passati quasi tutti i paesi dell'Africa australe.
Il mail & guardian, un ottimo settimanale sudafricano, ha appena dedicato un numero al tema del razzismo che ancora permea la società. Riassunto fattomi da Clara che vive qui da un anno e mezzo: i neri fanno la parte dei buoni, i bianchi fanno la parte dei vaghi. E quando possono si evitano con eguale e simmetrico piacere.
La Commissione per la Verità e la Riconciliazione presieduta dal grande Desmond Tutu ha incarnato sulla terra una capacità di perdono che, per chi conosce anche solo vagamente le atrocità dell'apartheid, ha del divino.
Ma alla catarsi collettiva non hanno corrisposto le milioni di individuali, altrettanto necessarie. Tanto più che la stragrande maggioranza dei neri continua a vivere confinata in baraccopoli senza accesso ai servizi che le erano preclusi per legge durante l'apartheid. Molto spesso questo dà luogo ad angoscianti guerre tra poveri, com'è successo nel maggio 2008 durante gli attacchi xenofobici contro mozambicani e zimbabweani bruciati vivi.

Eppur, si muove. Oggi ho visitato una cooperativa di donne,la Twanano Paper Making, in una delle aree più povere di Ivory Park, una storica township di Johannesburg. La cooperativa si occupa di costruire oggetti col materiale di recupero fornito da un'ombrello più ampio di cooperative di raccolta e riciclaggio di spazzatura.
Gloria, quella che aveva l'aria di tirare un po' le fila, aveva uno sguardo da dura e il sorriso stanco. Giorni fa Gloria ha partecipato, invitata da Clara, a una conferenza sulle cooperative in cui ha raccontato i nove anni di vita della sua. Prima di andarsene si è presa tutte le caramelle del tavolo dei relatori (...me la immagino, con quello sguardo duro) e ha tenuto a mo' di trofeo il cavaliere col suo nome da relatrice. Virginia, invece, è una di quei donnoni con fare materno e risata dietro l'angolo. E' stata lei a spiegarci quasi tutto il processo infilando le manone nei secchi di riciclato, di fibra e di tinta per fare la cartapesta. Con loro si era fermata ad aspettarci una terza socia, che non parlava una parola di inglese ma sorrideva orgogliosa. Nella cooperativa regnava l'odore buono dei libri vecchi ma non polverosi, e fuori, al sole, la township continuava la sua vita producendo spazzatura e accatastandola ai bordi delle strade, pronta per essere riciclata e fornire reddito alle volenterose con le mani in pasta. Un pezzo di paese riproducibile mille volte. Volendo.
E se il Sudafrica si desse una seconda possibilità per rendere umano un sogno che ha avuto del divino?

martedì 27 ottobre 2009

mozambico, elezioni:intervista a mia couto


Mia Couto è certamente il più noto scrittore mozambicano e fra i più apprezzati scrittori viventi di lingua portoghese (il suo Terra Sonnambula ha vinto numerosi premi africani e intercontinentali). Figlio di portoghesi, ha lottato come mozambicano per l'indipendenza dalle madrepatria e negli anni '80 è stato direttore dell'agenzia nazionale di informazione, prima di tornare alla professione per cui ha studiato ,quella di biologo, che oggi esercita in uno studio nel centro di Maputo e dal quale mi risponde mentre mi sbrodolo del te' che mi ha offerto.

Nei suoi libri, il passato “non smette mai di passare”, continuamente elaborato e ricostruito dal presente. Che rapporto ha il Mozambico col suo tormentato passato?
Beh,una relazione degna di questo tormento. Il Mozambico è un caso unico: il passato è ancora più recente del presente. Succede alle cose molto giovani e ansiose di crescere : infondo il paese ha appena trentatrè anni, tanti ne sono passati dall'indipendenza. Io sono più vecchio di lui! Come per avanzare rapidamente nel tempo, è in atto un esercizio di oblio collettivo di quello che più ha distinto la nostra storia: le guerre. Prima quella contro il Portogallo, poi quella civile. Entrambe oggi sono state trasportate “al di là della memoria”: se si chiede a un mozambicano di ricordare quei tempi, preferirà cambiare argomento. Ma l'esercizio dell'oblio è sempre una gravidanza di bugie. Possiamo dimenticare il passato, ma non dimenticare che stiamo dimenticando.
A cosa è funzionale questo colpo di spugna sul passato?
Come tutte le ricostruzioni storiche, agli interessi sociali dominanti. Sembra che il ricordo della guerra sia a loro pannaggio esclusivo.
Qual'è il ruolo del processo elettorale in questa fase della vita del paese?Le elezioni sono sempre un passo verso un comune sentire e un comune denominatore : il Mozambico. In generale il ruolo storico del governo seguito al colonialismo, quello della Frelimo, è stato quello di mettere l'identità nazionale mozambicana sopra a tutte le altre, di concretizzare un progetto di nazione comune contemporaneamente a tutte quelle preesistenti, di natura etnica- il che non significa in conflitto tra loro. Aggiungo, in conflitto non lo sono tuttora. Ecco perchè vanno a vuoto i tentativi di certi politici di dare un colore partitario alle etnie.
Lei è anche professore. Come vede i giovani mozambicani?Mi sembra che siano stanchi di essere visti e trattati dal mondo intero come vittime. Rispetto alla generazione dei loro padri, hanno decisamente rinunciato all'abitudine di incolpare il colonialismo di tutti i mali del presente;semmai hanno una visione abbastanza globale da cercare la radice di problemi locali nei sistemi mondiali.
E' ottimista sul futuro del Mozambico?
Ci vuole tempo. Nessuno, a cominciare da noi stessi, dovrebbe pretendere che risolviamo in pochi anni questioni- come lo shock della guerra- che in Europa hanno richiesto decenni.
A proposito di Europa, lei è uno dei pochi scrittori africani che continuano a vivere in Africa... Una volta, a una conferenza di scrittori africani,io ero l'unico che viveva ancora in Africa... e anche l'unico bianco. Le due cose fanno parte dello stesso paradosso, ovviamente. Io non ho scelto di portare l'occidente nel sangue, ma posso scegliere dove vivere. Non ho bisogno di scoprire l'Europa per sapere che voglio vivere in Africa.

venerdì 16 ottobre 2009

incontri in un campo profughi


Arrivare a Maratane non è facile. Certo che non lo è, se sei un rwandese o un congolese o un kenyano o un sudanese che dovrà camminare sotto il sole africano- o sperare che rallenti un camion, o che un sacco di farina ti lasci spazio sul tetto di qualche autobus- attraverso tutta la Tanzania e il nord del Mozambico.
Ma non è uno scherzo neanche se vuoi arrivare a Maratane non come rifugiato, ma come testimone, come forestiera che vorrebbe scrivere della diaspora dei popoli di grandi laghi per l'Africa. Prima è necessario procurarsi un colloquio con quelli dell'INAR, l'istituto nazionale di aiuto al rifugiato. Io sono stata fortunata e ci sono arrivata da due buone parole diverse: quella di un padre scalabriniano da tre anni in Mozambico, e quella del Mlal(Movimento Laici per L'America Latina, che qui lavorano sui diritti umani nelle carceri) di cui ero ospite e che sono, per un puro caso africano, vicini di casa di un tecnico dell'INAR. Naturalmente il colloquio con l'INAR non è risolutivo: a quel punto è necessario fare una richiesta scritta all'Eccellentissimo Delegato Provinciale dell'UNHCR, l'organismo dell'ONU per i rifugiati politici. Quando sono tornata a vedere com'era andata la mia richiesta, ho avuto la sensazione che non fosse mai arrivata nelle mani di nessun delegato, che forse non esisteva nessun delegato, ma che fosse la stessa segretaria dell'INAR a timbrare favorevolmente tutte le richieste, sbadigliando. Magie della democrazia (lapsus, volevo scrivere burocrazia).
Maratane è immerso in uno scenario meraviglioso. Se non fosse per il caldo invincibile e per le specie di serpenti che infestano questa parte di savana, tutta la zona intorno a Nampula sarebbe da esplorare in lungo e in largo. I trenta chilometri che la separano dal campo di Maratane si percorrono su una carraia rossastra circondata da montagne che spuntano dalla pianura come bulbi rocciosi di forme che, con l'aiuto del caldo, stimolano l'immaginazione (ma una è sicuramente la faccia di un vecchio disteso bocconi; infatti appena più a ovest ce n'è un'altra che è chiaramente la sua pancia con una birra appoggiata sopra).
Il campo profughi, in cui vivono circa 5000 persone (più della metà congolesi, quasi tutti gli altri rwandesi e burundesi e una piccola parte di kenyani e sudanesi) è più che altro un grande villaggio, un'enclave kiswahili nel cuore del nord mozambicano. Di fatto è aperto, i suoi abitanti sono liberi di lasciarlo quando vogliono. Ma per andare dove? Dice Said, diciassette anni, arrivato qui da solo dal Burundi cinque mesi fa. Maglietta consunta dello sporting lisboa, mi racconta della sua fuga dalle milizie in cui non voleva finire arruolato. Siamo nella semioscurità rovente del transference centre, la parte più miserabile del campo, quella dove rimangono i nuovi arrivi per qualche mese, prima che gli venga assegnata una baracca (o uno spazio su cui costruirne una) nel campo. Sono casermoni di fango con un tetto di lamiera ondulata divisi in stanze di sei metri per sei, senza letti e senza finestre (a parte un pertugiolo di venti centimetri per quaranta, provvisto di zanzariera, ridicola dal momento che non c'è neanche la porta e le zanzare fanno la spola fra una malaria e l'altra). Said è contento di raccontare la sua storia, perchè è arrivato dove voleva arrivare: al sicuro. Non gli dispiace affatto l'idea di rimanere qui per sempre.
Mentre finisco di scrivere quello che mi ha detto, arriva da me una signora con le treccine dritte in testa, l'aria piuttosto sciatta e un sorriso indimenticabile. Mi inizia a parlare in inglese quando ancora sto finendo di scrivere tanta è l'urgenza che si porta dentro; perdo l'inizio, poi, lentamente, inizio ad afferrare il senso e dimentico tutto il resto - la penna, le pareti, Maratane, l'INAR, L'Africa, l'Europa.
Elizabeth è kenyana, di una zona nell'interno del paese. Da una vita intera scappa, ma la sua fuga non ha destinazione perchè la sua persecuzione non ha il nome di un'etnia nè quella di un credo politico.
Elizabeth non vuole stare con uomini e per questo, in ogni luogo in cui arriva, la sua libertà ha i giorni contati. Ha cercato appoggio da parenti e amici prima in altri luoghi del Kenya, poi in Tanzania.Ma ben presto questa nuova arrivata senza un uomo (e senza voglia di averne uno) desta perplessità, poi sospetti. Infine inizia l'organizzazione di una comunità intera per mettere in piedi un matrimonio che Elizabeth non vuole. Allora deve ricominciare la sua lunga marcia verso il Sudafrica, dove -si augura- certi diritti sono più riconosciuti. “Perchè non è naturale” conclude con gli occhi spalancati, un fiume in piena che incontra un mare di determinazione: “Non è naturale essere costrette”. Sceglie, rovesciandolo, proprio questo concetto -non è naturale- lo stesso che devono averle buttato addosso da quando Elizabeth ha coscienza di Elizabeth.
Non è venuta a parlare con una giornalista, è venuta a parlare con una donna. Una che non si aggiunga alla sua persecuzione come ha visto succedere fino a oggi. Sopraffatta, le ho risposto la cosa che, in quel momento, mi sembra la più definitiva, l'unica che le riassumeva tutte: sono d'accordo con te.
Lei mi ha fatto un largo sorriso e se ne è andata. Ci ho messo un po' a dominare un senso di impotenza quasi vertiginoso, poi in qualche modo ho reagito, ho piantato in asso quello che stavo facendo per tornare a cercarla e le ho detto che avrei cercato di metterla in contatto con WLSA, un movimento di donne attivo in Mozambico. “Ti farebbe piacere?” “Definitely!” ha risposto entusiasta. “Ci provo”. Mentre scrivo, le leader di Maputo di cui avevo il numero stanno cercando di attivare le loro colleghe di Nampula. Spero che almeno una di loro parli inglese.

domenica 11 ottobre 2009

mozambico, l'isola


A circa 180 chilometri da Nampula, ma a quattro ore di sudatissima chapa e al di là di un ponte a una corsia sola, si trova un mondo a parte che è, al tempo stesso, riassunto del paese.Ilha de Moçambique, isola di mozambico. Esiste davvero? Per assicurarsene, è bene andarci.
Ci si ritroverà a passeggiare in una cittadina che ricorda quelle del nostro profondo sud: una Ostuni che ha sognato di diventare l'Avana e si è risvegliata madida si sudore, con il cuore di paglia e le strade di sabbia. Prigioniera del mare e nera come il carbone. Nell'ora del silenzio, che ne dura venti (le altre quattro sono quelle che separano il tramonto dal sonno) è una città fantasma. Le donne si affacciano quando sentono passi sulla sabbia, non per scoprire nuovi segreti ma per mettere al sicuro i propri. I vecchi si affacciano per vedere cosa c'è oggi sul menù a parte la morte. I bambini si affacciano per vedere se è proprio vero, altrimenti torneranno a dormire; e al di là dei loro corpi per metà nascosti dalla soglia, dall'altra parte delle loro case trafitte, si intravede di nuovo il mare, come una punizione. Sulle pareti scrostate si leggono storie di Mia Couto e si sente il profumo impregnato dell'olio di cocco in cui si frigge tutto. E' evidente che tempo e spazio sono misteri svelati, qui; senza più senso di fornire interrogativi. I portoghesi la scelsero come capitale del loro impero due secoli prima di esserne cacciati per sempre: è una porta verso l'India, ma anche verso il canale di Suez, degna di fare concorrenza alla sua sorella maggiore Zanzibar. Che però si è tradita lasciandosi conoscere e svelare.

bukuku, una storia africana


Dar Es Salaam.
“Trentotto anni”, sorride infine, tra l'imbarazzo di ammetterli e l'orgoglio di non dimostrarli.
Nelle sue prime rughe Bukuku porta non solo le pieghe di un passato recente e collettivo-quello del suo paese e di una fetta del suo continente- ma anche la visione incerta di un presente mancato. Bukuku è un po' la Tanzania, l'east africa che avrebbe potuto essere. Profondamente africano nel dna ma aperto a contaminazioni “con criterio”, fiero della sua storia senza considerarla però un capitolo chiuso, attivista politico senza diventare burocrate di partito e di professione. Figlio d'arte, figlio della storia su cui a sua volta avrebbe tentato di incidere: suo padre era un sindacalista congolese seguace di Lumumba, sua madre una ugandese figlio di pescatori. I due si incontrarono da qualche parte sul lago Tangaika alla fine degli anno '60 e decisero di venirsene a Dar Es Salaam a cavallo del sogno di Nyerere e della sua Ujamaa, la via africana al socialismo. “Mio padre morì di infarto nel 1991, io ero ancora un ragazzo. Per fortuna non era più qui nel 1992 quando il presidente Mwiniy fece la famosa dichiarazione di Zanzibar con cui lanciava la via liberista allo sviluppo della Tanzania”. La dichiarazione di Zanzibar avvenne esattamente venticinque anni dopo quella di Arusha nel 1967, quando Nyerere, leader dell'indipendenza, lanciò l'ujamaa. “L'ujama aveva molti problemi, è vero, non ultimo quello di doversi muovere nella trappola della guerra fredda e dei suoi equilibrismi. Ma nello spirito di reciprocità e comunione interna e di autosufficienza dall'estero era sacrosanta: vicina alla filosofia bantu, quindi africana in senso radicale”.
Ammesso che la strategia di Nyerere fosse ispirata più alla reale cultura tradizionale che a ideali importati da nord, oggi il gioco di catarsi collettiva in un paese totalmente privatizzato e venduto al miglior offerente consiste nell'idolatrare gli anni dell'ujamaa: i politici al governo,membri dello stesso partito al potere dal '67, la CCM( Chama Cha Mapinduzi, partito della rivoluzione), non ne parlano come di un fallimento, ne parlano anzi con devozione mentre applicano politiche diametralmente opposte. Mostrarsi come fedeli eredi dell'indipendenza è il modo migliore di annullare gli sforzi da parte di una piccola società civile attiva di allargare i propri consensi criticando il partito. Un gioco che Bukuku subì già negli anni di Scienze Politiche all'università, quando un'imponente mobilitazione studentesca nella metà degli anni '90 venne presto cooptata e assorbita dall'ala giovanile della CCM.
Deluso, fa appello al sogno del Panafricanismo e nel '97 si tuffa nell'avventura congolese al fianco dell'allora tenente ribelle Kabila. Presto venne considerato più utile come quadro politico e mandato a sbrogliare il garbuglio della provincia dell'Ituri, al confine con l'Uganda: un conflitto tra l'etnia Hene Gegere (pastori) e quella dei Lendu (agricoltori), supportati da parti diverse dell'esercito ugandese per mantenere il caos nella regione.
Per anni Bukuku fece la spola tra Ituri e Kampala, dove giorno dopo giorno perde le speranze di venirne a capo : “ mi svegliavo col mal di testa ogni giorno. La situazione era come un dopo sbronza infinito”. Sentì come una vittoria anche propria l'ascesa al potere di Kabila in Congo, anche se poi “come tutti quelli che prendono il potere, ha cambiato indirizzo”. La situazione nell'Ituri, nel Katanga e nel Kivu, inoltre, era ben lontana da una soluzione. Ma Bukuku gli aveva già dato tutto quello che poteva e se ne ritirò stremato.
Fino al 2005 rimase comunque a Kampala ad occupare un posto presso la segreteria locale del movimento panafricano, finchè “Museveni usò il movimento panafricano per la sua campagna per cambiare la costituzione e poter essere rieletto”. Deluso ancora una volta dal potere, Bukuku tornò nella sua Tanzania, prima un anno a Mtwara (al confine col Mozambico), dove un fratellastro gli procurò un lavoro come consulente, poi di nuovo a Dar Es Salaam, dove tornò a praticare l'arte dell'arrangiarsi, nel migliore dei casi infilandosi “in qualche studio sugli obbiettivi del millennio, cose così” -sintetizza con scarso interesse e palese voglia di cambiare argomento.
Nel frattempo in Tanzania il panafricanismo è diventato roba da accademici, talora discussione da bar. Come il suo, il Mnazimoja (albero di cocco), dove i vecchi amici del quartiere l'hanno accolto con affetto e ora cercano di convincerlo a candidarsi come consigliere di quartiere con un partito alla sinistra di quello di governo, il Chadema. Forse davvero la cosa da fare è ricominciare dal piccolo, dal locale, dal tornare al tessere un tessuto come quello che rese possibile l'indipendenza “ che da qualche parte gli scampoli sono vivi, ma stanchi e isolati”; dal ridare lavoro e speranza ai giovani in un paese in cui la disoccupazione giovanile sfiora il 74% e l'indice di sieropositività è uno dei più alti del continente. “L'unica variabile veramente incognita nel futuro africano è l'irruzione della nuova generazione”, afferma con uno sguardo che brilla di nuovo. Una pentola a pressione. Sono stati loro a guidare le rivolte della fame del febbraio e marzo 2008 contro il rincaro dei generi alimentari. Ma sono anche loro, quasi sempre,ad andarsene: qualcuno tenta la fortuna con la F maiuscola verso l'Europa (via Uganda-Sudan -Egitto) , qualcun'altro attraversa il Mozambico per approdare in Sudafrica, “ma sempre di più trovano un lavoro a Dubai, il nuovo eldorado”. Ormai esistono vere e proprie agenzie che recluatano lavoratori di ogni tipo per Dubai, città senza un'identità propria, mosaico di immigrazione bicontinetali. Così ha fatto sua sorella minore che fra un mese partirà per fare la cassiera in un supermercato di Dubai: trecento euro al mese invece degli 80 che guadagna qui. Ma un'altra giovane che se ne va. Ancora negli anni '80, dice, l'aspirazione di un giovane era quella di avere un posto sicuro come marinaio in una delle tante navi cargo che salpano dal porto di Dar. Un modo di girare il mondo e avere sempre qualcosa nel portafogli. Poi, “hanno cominciato a entrare quantità industriali di droga. Tanti della mia generazione hanno sostituito il sogno del marinaio con quello dello spacciatore, 'è solo per un periodo' , 'è solo per questa volta'; quanti amici si sono imbarcati per la thailandia o l'india per fare i corrieri...e non se ne è saputo mai più niente”. Bukuku si fa avanti sulla sedia: “ La perdita della speranza in cui siamo sprofondati, al di là delle promesse di un futuro roseo, si sta trasformando in una specie di malattia mentale. Conduce al cinismo, a una paralisi delle anime, delle loro volontà”.

lunedì 5 ottobre 2009

Dar Es Salaam-Pemba, via terra


TAPPA 1 Dar es Salaam-Mtwara (il tramonto)
Qualcuno vende i giornali di ieri, qualcun altro chiodi sfusi. Qualcuno ha da vendere un oggetto solo e questo oggetto è una maglietta bianca: qualcuno, ci si creda o no, gliela compra. Ubungo, il terminal degli autobus di Dar Es Salaam, è una polveriera di polvere che già nel buio diguno che precede l'alba reclama migliaia di passeggeri sacrificali che batteranno ore e ore d'asfalto su strade assolate. E quando mancherà il sole mancheranno anche loro perchè a certe latitudini di notte non si viaggia- di notte ci si forma un giaciglio per elaborare la distanza che ci si è messi alle spalle, per abituare il corpo e la mente a quello che naso e occhi pensano di avere già capito; di notte non si viaggia perchè le strade sono piene di buchi che, complice il buio, potrebbero inghiottire noi e le nostre destinazioni. Di notte si adegua la schiena alla curva del mondo, quella che allontanandosi dall'equatore dovrebbe essere sempre e comunque in discesa, allora perchè andiamo così piano? Tappa prima, Dar Es Salaam-Mtwara. Due città di frontiera , ciascuno a modo suo: fra oceano e terra, tra animismo e islam, tra africano nero e arabo viadimezzo la prima; frontiera fra Tanzania e Mozambico la seconda, fra inglese e portoghese, fra due lotte per l'indipendenza chiuse con un rimescolamento di carte che ha lasciato i vincitori intontiti e dimentichi di riscuotere la loro vittoria.
Il viaggio dovrebbe durare otto ore tra le sei di mattina e le due di pomeriggio. Ma l'autobus della compagnia Tafuku Mwa Byana (una qualunque della giungla di nomi in swahili), si rompe tre volte in un'ora e alle cinque di pomeriggio siamo ancora nell'estrema periferia di Dar, tra viavia di venditori, poliziotti che sbadigliano e due meccanici improvvisati sdraiati sotto il motore. Ho voglia di Mozambico e nell'attesa inerte che col sole tramonti la speranza mi sembra di sentire l'agognata frontiera che si allontana. Per consolarmi scrivo e compro pomodori da mandare giù così, senza sale, con un'idea di basilico fissa tra un sopracciglio e l'altro (io che ne ho due) .
C'è stato un momento, prima del terzo e definitivo guasto, in cui è scoppiata una lite furibonda sull'autobus. Naturalmente qui si litiga in swahili e io dai toni credevo c'entrassero politica o donne. Invece alla fine qualcuno mi ha tradotto una sintesi: mettere su musica religiosa o hip hop locale? L'autobus era spaccato in due. Nemmeno quando invece a spaccarsi è stato il motore li ho visti accalorarsi tanto. Regola numero 56674453, mai misurare le rabbie di altre genti con criteri propri. Ma mentre lo scrivo ho la sensazione che la biro si ribelli, stremata quanto me, e mi si sciolga tra le mani.

TAPPA 2 Mtwara- Moçimboa da Praia (l'alba)
Cosa significa essere veramente stremati, tuttavia, lo avrei imparato ventiquattr'ore più tardi.
Alla fine l'autobus entrò a Mtwara, l'ultima città prima del confine mozambicano, alle tre del mattino dopo, con tredici ore di ritardo su otto di percorso. I primi daladala (i trasporti locali...a cui dedicare un capitolo a parte) per la frontiera partono solo due ore dopo, alle cinque. Inutile andare a letto per un'ora, così, con quattro ore di sonno in valigia negli ultimi due giorni, riparto in direzione sud.
Mi aspettava una traversata durissima fisicamente ma capace di compensare tutta l'esasperazione del giorno prima. A dividere i due paese è il grande fiume Ruvuma, ma nelle stagioni secche come queste c'è troppa poca acqua per far funzionare il traghetto. Così per cambiare nazione io e i miei compagni di daladala attraversiamo circa due chilometri di delta a piedi, con l'acqua in certi punti fino alle cosce( mentre scatto foto affascinata, Bukuku, compagno di viaggio angloparlante, mi fa presente che potrebbero esserci coccodrilli; allungo il passo anche se sono quasi sicura che mi stia pigliando per il culo), e solo per l'ultima tratto di fiume, il più profondo, si trova in attesa una canoa per portarci dall'altra parte. Durante la traversata incrociamo diverse barche di pescatori e qualche anima pia mi indica due sagome di ippopotamo non lontani da noi. (forse sono trecento metri, ma nello stato ipnotico da prolungata veglia mi sembra di essere in una dimensione onirica in cui metri e misure sono saltati). Inutile dirlo, è un luogo meraviglioso. L'idea che questa bellezza sia divisa fra due nazionalità sfuma tra le dita. Impossibile distinguere mozambicani e tanzaniani: tutti parlano swahili e si salutano sventolando pesce, quello dell'oceano indiano, spinto nel fiume dalla potenza del mostro.
Scesi dalla canoa ci fanno montare in sedici sul retro di un pick up che si inerpica per un sentiero disastrato fino all'ufficio dell'immigrazione mozambicana (una casa di fango con dei manifesti appesi che invitano i cittadini a fatturare la prestazioni e i servizi per far avanzare il paese). Poi ci restano altre quattro ore di pick up, mischiate e indivisibili le membra dell'uno con quelle dell'altro, gomiti del vicino nei fianchi a ogni buca e battute che non capisco (ma molte mi riguardano perchè colgo la parola Msungo, come in swahili vengono chiamati i bianchi) col sole che brucia la mia pelle bianca e riempie di goccioline le loro nere, prima di arrivare a Moçimboa da Praia.
Mi fermo qui, stremata ma sentendomi a casa. C'è una pensioncina che ispira simpatia e il proprietario appena gli dico che sono italiana mi fa : “Reggio Emilia, comitato de amisissia con mozambiche!” Quasi commossa gli dico che sono proprio di Reggio, cosa che naturalmente non lo stupisce perchè è l'unica cosa che conoscono dell'Italia . Non capisco se se la immaginano come la capitale o come una sorta di città stato in cui tutti, misteriosamente, parlano portoghese.

TAPPA 3, Moçimboa da Praia- Pemba (l'arrivo).
Terza alba africana in tre giorni. Il machimbombo (sono apostrofati così gli autobus anziani, suppongo con gusto onomatopeico) parte da Moçimboa alle quattro del mattino. Mentre lo aspetto mi godo la luna piena e mi faccio cullare dai discorsi in porto-swahili delle tre donne che aspettano con me, interrotti dalla tosse e dagli sputi della più vecchia.
A bordo ho la fortuna di avere come compagno di sedile Joao, settant'anni mozambicani sul groppone, occhi spessi per via della cataratta, mani nodose (rare da queste parti com'è rara la vecchiaia...), barba di riccioli bianchi come minuscoli fili del telefono appesi alle guance ebano. Il portoghese glielo hanno insegnato negli anni '50 suore italiane di stanza a Mueda, una cittadina che allora era un villaggio e in cui oggi prendono i telefonini di ben due compagnie diverse. Chiaccheriamo un po' di questo paese, io e Joao. Ma i suoi discorsi quasi sempre vanno a parare sul fatto che, “adesso, la guerra è finita” sempre preceduto da “la Guerra è Guerra”- chissà cosa ha visto accadere, cosa gli hanno fatto fare, di certo degli otto figli che ha concepito è già sopravvissuto a quattro. Ne parla come di un tributo ineluttabile, comunque grato di essere stato testimone di un così lungo segmento della storia . Mi stringe la mano prima di scendere, all'entrata di Pemba, nella strada alta da cui si vede tutta la baia. Rimasta sola, guardo ancora per qualche minuto la città scorrere sotto i miei occhi dal finestrino .Mi dico a mezza voce: “sono arrivata".

venerdì 5 giugno 2009

sudafrica, l'arcobaleno tenue



(testo e foto S.Corsi)
Jacob Zuma,l'uomo che mercoledì sarà eletto a furor di popolo terzo presidente del Sudafrica post-apartheid, è il tipo di politico che scatena passioni contrastanti. Dalla sinistra intellettuale il cui tentativo di demolirlo è andato clamorosamente a vuoto, ai giovani delle township che sarebbero pronti, testualmente “ a uccidere e morire per lui”.
Sopravvissuto a una controversa bagarre giudiziaria che ha finito per rafforzare la sua immagine di paladino dei poveri ostacolato dall'elite nella sua ascesa al potere, Zuma è certamente il politico più popolare dai tempi di Nelson Mandela. Ma la sua parabola politica e personale è molto diversa a quella di Mandela. Forse nella stessa misura in cui il Sudafrica di oggi, e lo spirito collettivo che lo anima, sono molto diversi da quelli del Sudafrica che quindici anni fa sognò di diventare una “nazione arcobaleno” libera dall'apartheid ma anche dalle rivalità etniche che portava in seno.
Oggi più che i colori dell'arcobaleno a fare da simbolo e metafora del paese potrebbero essere i ghirigori disegnati dai chilometri e chilometri di filo spinato che in tutte le metropoli sudafricane segnano il confine della nuova apartheid: quella che esclude dai nuovi canali di ricchezza la maggioranza dei sudafricani, che hanno continuato a vivere nelle township e nelle baraccopoli senza luce nè acqua corrente, che ogni giorno lottano contro le carenze del sistema scolastico e sanitario, contro una disoccupazione intorno al 40%, che si organizzano per avere diritto ai farmaci antiretrovirali per l'aids, che colpisce nientemeno che un sudafricano ogni otto. Ma sono anche quelli che, “cascasse il mondo, continueranno a votare Anc”: lo dice rassegnato Trevor, un attivista del Soweto electricity commettee, un comitato che a Soweto si occupa di riallacciare abusivamente la corrente a quelli a cui è stata tagliata. Ma l'affezione emotiva e tradizionale al partito della lotta contro l'apartheid spiega solo in parte la Zumania, come viene chiamato il culto della personalità che si sta formando intorno alla figura del futuro presidente. “E' che, con Zuma, finalmente sappiamo di cosa si sta parlando” esclama Alexandra, una giovane pendolare sul treno fra Cape Town e Khaylicia, la township in cui vive. Già, perchè su una cosa non c'è dubbio: Zuma, parlando per proclami e lasciando i tecnicismi economici ai suoi futuri ministri, è riuscito a riavvicinare la gente alla politica. Per farlo ha scaltramente cavalcato il revival tribale snobbati dai politici dell'ANC negli ultimi anni come i canti e le danze zulu in cui si esibisce durante i suoi rally, le adunate oceaniche a cui arriva in elicottero, scendendo sulla folla dall'alto come un Messia.
Dall'altra parte del filo spinato sudafricano c'è quell'elite rampante, ora in gran parte nera, che partecipa con grande profitto dell'ascesa del paese a indiscussa potenza economica del continente. Sono i nuovi inquilini di Sandton, il lussuoso distretto a nord di Johannesburg in cui si trasferirono in massa i bianchi dopo la fine dell'apartheid. Guidano auto di lusso di cui non abbassano mai i finestrini, contagiati dalla psicosi del crimine che una volta riguardava solo i bianchi.
Sono i beneficiari del BEE (Black Economic Empowerment)un sistema che privilegia l'accesso ai neri nei posti di lavoro sia pubblici che privati. Ineccepibile negli intenti, il BEE si è trasformato in un sistema clientelare di controllo delle assunzioni che ha legato strettamente il potere economico a quello amministrativo. Lungi dall'appoggiare in massa il Cope, un partito scissionista nato da una costola dell'Anc nell'ottobre scorso (come in un primo momento sembrava avrebbero fatto) molti figli del Bee hanno poi riaffermato la propria fedeltà alla linea lanciando a marzo la Black Business Organization, un'associazione commerciale nera che ha reso subito noto il suo finanziamento alla campagna elettorale di Zuma. Che presumibilmente non tarderà a ricompensarli.
Il futuro presidente dovrà anche vedersela con la crisi economica che anche da queste parti non ha mancato di farsi sentire : gia' dodicimila sono i posti di lavoro persi nell'industria automobilistica cui potrebbero seguire fra i quaranta e i cinquantamila licenziamenti nel settore minerario quest'anno. Il Partito Comunista e il sindacato Cosatu, alleati storici dell'Anc, sperano che la crisi orienti un new deal economico che faccia dimenticare il liberismo selvaggio dell'era Mbeki. In questo senso la riforma più attesa è certamente quella della terra: il programma di Zuma si ripropone di riprendere in mano quel processo di redistribuzione della terra su base razziale -tuttora un quinto dei farmer padroni di latifondio paese sono bianchi, grosso modo come durante la'apartheid. Ma oltre a rimanere sulla carta come è stato fino a oggi, la riforma agraria nelle mani di un populista come Zuma corre un altro rischio: che la terra,come è successo nello Zimbabwe di Mugabe, passi semplicemente dalle mani dell' elite bianca a quella nera, scavando il fossato che divide queste due dal resto dei sudafricani.
Tenace avversario di Zuma è Desmond Tutu, l'arcivescovo anglicano di Cape Town premio nobel per la pace dell'84, simbolo della lotta contro l'apartheid e presidente della Truth and Reconciliation Commission, la commissione che raccolse le testimonianze di vittime e carnefici di quarantaquattro anni di apartheid. Ma il Sudafrica, salta agli occhi, è un paese tutt'altro che riconciliato. Anche se nessuno sembra aver chiaro con chi non vuole riconciliarsi: l'esplosione di xenofobia che si scatenò nelle township un anno fa, e che lasciò sull'asfalto una sessantina fra zimbabweani e mozambicani-molti dei quali bruciati vivi- venuti in Sudafrica a cercare lavoro, fu uno shock per il mondo intero. Soprattutto per chi, saltando i capitoli intermedi, pensava ancora al Sudafrica come alla nazione arcobaleno. “Conquistare la libertà non significa trovare una bacchetta magica” sospira Tutu, che oggi guarda con preoccupazione ai toni sessisti di Zuma, alla sua forte e rivendicata identità etnica zulu, alle esacerbazioni che genera coi suoi “con me o contro di me” cui la gioventu'di partito, prima ancora del verdetto in tribunale, aveva risposto “Corrotto o no, vogliamo Zuma” lasciando pochi dubbi e molto sgomento sullo spazio che occupa la questione morale in questa campagna elettorale.
Con l'elezione alla presidenza di un populista come Zuma rischia di concretizzarsi quella “rivoluzione fallita” di cui il poeta B. Breytenbrach ha parlato meno di un anno fa in un'amara lettera indirizzata a Nelson Mandela. La rivoluzione fallita di una nazione che fece sognare un continente intero e capace di darsi la costituzione piu' avanzata del mondo,ma che ora si avvia nella direzione presa da tanti altri stati africani, in cui elites diverse per interesse e razza trovano un accordo per arginare le pressioni della maggioranza esclusa dal benessere. Che dal canto suo rimane caparbiamente fedele ai leader politici eredi della liberazione, mentre scivola in una violenza e in una povertà sempre più endemiche e apparentemente senza ritorno.(l'Espresso,17 aprile 2009)

zimbabwe, si torna a vivere


(testo e foto s.corsi)
Harare non sembra la città appena uscita da un incubo che ti aspetteresti. Le strade, piuttosto pulite, pullulano di automobili e di vita; i benzinai distribuiscono regolarmente il carburante, i negozi espongono i loro prodotti in bella vista,e nel parco centrale fra le aiuole curate i venditori ambulanti di giornali esauriscono le loro copie prima del tramonto. Altri segnali di convalescenza percorrono la città: le file davanti alle banche non sono più chilometriche anche perchè il mese scorso una parte degli impiegati pubblici, fra cui gli insegnanti, hanno di nuovo ricevuoto lo stipendio dopo mesi. Ecco perchè sui marciapiedi si vedono frotte di bambini con l'uniforme scolastica che, dopo un anno andato perduto, sono entusiasti di tornare sui banchi di scuola.
Eppure, per la maggior parte degli zimbabweani l'economia è ancora una questione di sopravvivere alla giornata. Su un big taxi, i pulmini volksvagen che fanno da trasporto collettivo in città, una signora conta i zimba, i dollari zimbabweani che le occorrono per pagare l'autista, e finisce per allungare una fascio con una cinquantina di banconote da cinquecento milioni di dollari. Storture dell'iperinflazione che a fine 2008 ha toccato il record storico dei due milioni percentuali, costringendo la Reserve Bank a una prassi delirante: stampare ogni settimana uno nuova banconota arricchita di zeri, saturare il paese con carta da monopoli. “vietato tirare dollari zimbabweani e altri oggetti” recitano da qualche tempo i cartelli nelle toilette pubbliche. Anche se la moneta è ancora ufficialmente valida- nei display delle banche lampeggiano ancora i folli tassi di cambio- per tutta l'economia formale del paese il zimba è ormai carta da monopoli. I prezzi nei negozi sono tutti in dollari statunitensi o in rand, la moneta sudafricana. “Finalmente si respira...ci stiamo riprendendo” sostengono Evenmore e Louis, una coppia di Harare che vive in una lussuosa casa di Avondale, il quartiere di chic della città. I due, durante le settimane in cui gli scaffali dei supermercati di Harare erano vuoti, guidavano il migliaio di chilometri fino alla frontiera sudafricana per rifornirsi di cibo e prodotti di prima necessità. Ora, sono fra i primi a godere del nuovo corso monetario in dollari americani che ha restituito un valore concreto ai prodotti e, pertanto, tornato a riempire i supermercati. Ma non tutti hanno accesso alla moneta straniera. Evenmore lo sa bene perchè, prima che il marito cominciasse a fare affari d'oro con la sua ditta di autotrasporti, viveva con la famiglia a Mabvoko, nella periferia povera a est della città. Un luogo dignitoso ma in cui luce e acqua vanno e vengono, e con uno scorcio che rappresenta bene la caduta del paese: enormi cisterne d'acqua in disuso e, ai loro piedi, pozzi a pompa manuale che la gente ha costruito in fretta durante l'esplosione di colera.
Così, in questo momento nel paese di transizione sopravvive una seconda economia informale, parallela a quella dollarizzata di Evenmore e il marito: è quella dei big taxi o dei venditori ambulanti di frutta e verdura, che continuano a far circolare la patata bollente del zimba. Chiunque speran di avere il resto in dollari o rands e di liberarsi dei chili di banconote locali prima che il loro valore sia definitivamente nullo.
I più fortunati sono quelli che ricevono valuta straniera dai parenti all'estero. Che d'altra parte sono moltissimi: su circa dodici milioni di zimbabweani,tre e mezzo sono quelli che compongono la diaspora, quasi tutta distribuita fra sudafrica ed inghiliterra. Dalla vicina nazione arcobaleno si è organizzata in questi anni l'opposizione al regime. “ Tutti noi vorremmo tornare nel nostro paese, nel quale non saremmo vittime della xenofobia sudafricana” esclama Janice, una giovane oppositrice a Mugabe che fa adepti presso l'università di Durban, una delle più attive ad organizzare incontri e conferenze sulla situazione zimbabweana.“Se non fosse per i rands che mando ai miei figli, non so di che avrebbero vissuto” racconta Valery. “ Io sono tornata in Zim per natale. LAggiù, due mesi fa, era l'inferno”. Si riferisce al punto più basso toccato dallo zimbabwe nella sua interminabile crisi: l'epidemia di colera che ha ucciso quattromila persone fra dicembre e gennaio. Altri cinquantamila contagiati si sono salvati accedendo a uno dei CTC (Cholera Treatment Center) allestiti da Medici Senza Frontiera o varcando il confine sudafricano a Musina, dove per l'emergenza era sorto un campo profughi. Dell'esodo verso il sudafrica e del dramma del colera parla Dependence, uno spettacolo teatrale andato in scena per mesi ad Harare, che in qualche modo- anche attraverso lo sforzo dei giovani attori di continuare a lavorare gratis durante la crisi- invitava i connazionali a non andarsene in Sudafrica ma a rimboccarsi le maniche per cambiare le sorti del paese. Un messaggio coraggioso, ma è impossibile biasimare i tanti che non l'hanno colto: gli ospedali zimbabweani, sprovvisti di acqua potabile, energie e medicine, furono pressochè inservibili durante tutta l'epidemia. Ma ora che l'insufficienza di risorse è parzialmente risolta, rimane da colmare il gravissimo gap di personale di quello che una volta era il miglior sistema sanitario d'Africa. Mentre la spirale si stringeva in cerchi sempre più piccoli asfissiando l'economia, migliai di professionisti fra medici e infermieri sono andati a trovare lavoro qualificato- ed adeguatamente pagato- nel vicino Sudafrica. Secondo stime non ufficiali ( d'altronde impossibili da reperire visto il caos in cui versano ancora gli uffici pubblici) nel paese oggi non rimarrebbero che poche centinaia di medici, di cui almeno un terzo cubani. “ L'ospedale di Harare, saturo ma completamente inefficiente durante l'epidemia, adesso è un luogo fantasma: ormai la gente ha rinunciato ad andarci” racconta Luciano, un catanese specialista in malattie infettive che lavora in zimbabwe a periodi alterni da nove anni. Parlare di malattie infettive in Zimbabwe è, naturalmente, parlare di aids. Nel 2003 il tasso di sieropositività era del 25% . “Ma in Zimbabwe non si muore di aids” specifica Luciano. “In Zimbabwe si muore di fame”. E' stato, di fatto, il mancato accesso ai farmaci e la malnutrizione che ha colpito la popolazione negli ultimi anni a mietere vittime.
Gli ultimi dati disponibili si riferiscono all'anno 2006, nel corso del quale più di un milione di persone- un decimo della popolazione- è morto di fame o malattie. L'aspettativa di vita, che ancora negli anni '90 si aggirava intorno ai 60 anni, oggi è di 43. Ma cosa ha provocato il tracollo di quella che veniva considerata la Svizzera d'Africa?
“Sicuramente il malgoverno” spiega T. un'attivista della società civile che preferisce rimanere anonima. “Ma è sbagliato far iniziare tutto con la riforma agraria del 2000. La confisca delle terra non fece altro che velocizzare un processo con cui anni di corruzione selvaggia e clientelismo avevano già condannato lo Zimbabwe al collasso”.
Il punto di non ritorno infatti precede di tre anni la controversa riforma agraria del 2000, ed è il “venerdì nero” del settembre 1997. Già da anni militari e veterani di guerra- una vera e propria casta nel paese- reclamava dal governo onerosi indennizzi. Ma le casse dello Stato non erano in grado di sopportare una spesa del genere. Ansioso di non perdere l'appoggio dei suoi alleati militari, Mugabe ordinò alla banca centrale di stampare dal nulla tutto il denaro occorrente e di distribuirlo ai veterani. Come naturale conseguenza economica il giorno dopo, venerdì -----, il dollaro zimbabweano aveva perso il 70% del suo valore.
Lo scontento del governo si faceva sempre più diffuso. Ma le elezioni erano regolarmente falsate dalla spada di damocle dei militari del JOC (Joint Operational Command) la cupola militare del paese.
Nonostante tutto, gli zimbabweani nel 2000 sbatterono la porta in faccia a Mugabe bocciando una riforma costituzionale che lo stesso Mugabe aveva sottoposto a referendum. Fu allora che il padre-padrone della patria lanciò il demagogico programma di riforma agraria che confiscò buona parte delle farms ai bianchi eredi dell'ex Rhodesia ma, anzichè distribuirle alla gente insieme agli strumenti necessari per continuare a coltivarla, affidò i latifondi all'elite del governo. In molti casi,le gigantesche farms che avevano contribito a rendere il paese il granaio dell'africa meridionale si trasformavano nella casa delle vacanze di qualche notabile dello Zanu-Pf, il partito di Mugabe, o dell'esercito. “Da due anni non produciamo più nulla” dice ----di Nango, un ombrello di associazioni zimbabweane. “I piccoli proprietari non hanno avuto accesso nè a semi nè a fertilizzanti”. Chi coltivava per la sussistenza, quest'anno non ha avuto modo di scambiare il minimo di surplus con altri generi alimentari: complice la scarsità di carburante e l'iperinflazione, spostarsi dalle campagne era divenuto quasi impossibile. Secondo Medici senza Frontiere, cinque milioni di zimbabweani sono a rischio carestia a partire da maggio, perchè la stagione del raccolto di marzo aprile, sempre più scarsa negli ultimi anni, stavolta sarà pressochè nulla.
Eppure, colpisce la capacità di questo popolo di resistere con dignità ai contraccolpi della crisi. Nel Mashonaland est questa è la stagione della tradizionale festa dei girasoli: ogni comunità elegge la famiglia che è riuscita a ottenere il miglior campo di girasoli. Ben e Twania sono i vincitori di una piccola comunità vicino alla città di Mutoko, e in quanto vincitori ora dovranno ospitare la festa a cui parteciperà il resto del villaggio. Spiegano che, in assenza di fertilizzanti chimici, hanno usato l'acqua in cui bollivano il pesce per rinvigorire la terra, ripescando dal cilindro una vecchia conoscenza shona (l'etnia maggioritaria del paese). Gli altri prendono appunti e poi offrono danze e musica per dare vita alla festa all'ombra di un gigantesco baobab.
Colpisce anche la ferma volontà degli zimbabweani dii non trasformare il paese in una giungla in cui il crimine e la violenza stabiliscono la scala sociale- come succede nelle aree più degradate del vicino Sudafrica, socialmente devastato da una violenza endemica senza fine. “Siamo molto più istruiti dei nostri coetanei sudafricani”: spiega così la relativa assenza di delinquenza Nathalie, un'ex parrucchiera che oggi viaggia in autobus verso Johannesburg per andare a trovare la figlia che ha trovato lavoro là. E' vero: fra i tanti errori del regime di Mugabe, bisogna comunque riconoscere che per anni lo Zimbabwe offrì ai suoi cittadini un sistema scolastico ed educativo di tutto rispetto. Insieme a Nathalie viaggiano sull'autobus diversi zimbabweani che col Sudafrica intrattengono qualche tipo di commercio più o meno formale. “Ma oggi a passare la frontiera ci vorrà al massimo un'ora...non più le sette o le otto ore che impiegavamo in gennaio” assicura Evenmore, che ha vissuto in prima persona il drammatico esodo verso il Sudafrica dei mesi scorsi.
L'esodo non era dovuto solo alla paura del colera. Ancora prima dell'esplosione dell'epidemia, fra marzo e dicembre, il paese fu scosso da una campagna di terrore scatenata dai mastini di Mugabe contro i membri dell'opposizione, ma anche contro le famiglie accusate di averla votata. La campagna prese il nome di “where did you put your cross”e la sua fase più cruenta fu quella che seguì il primo turno elettoriale di marzo, vinto dall'opposizione. Centinaia fra morti, torturati e rapiti convinsero Tsvangirai, leader dell'opposizione, a ritirarsi dal secondo turno di giugno, vinto da Mugabe in assenza di avversari. Mary, una fisioterapista di un'ospedale del Mashonaland, dovette fuggire in Sudafrica col marito, un noto militante del MDC (Movimento democratico per il Cambio) per diversi mesi. “Fuggimo appena in tempo” racconta Mary. “Hanno ucciso un suo caro collega e amico e un conoscente comune ci avvertì che il prossimo sarebbe stato lui”. Mary è tornata al lavoro, ma il marito è ancora nascosto presso amici ad Harare: ancora troppo pericoloso tornare a casa. “Mancano ancora all'appello 40 militanti del MDC” esclama l'avvocato specializzato in diritti umani----.
Eppure ora l'MDC e i suoi militanti non dovrebbero più essere perseguitati, tanto meno come membri dell'opposizione, visto che il loro partito è al governo: il 13 febbraio infatti, dopo un anno di caos sociale ed istituzionale, Tsvangirai e Mugabe hanno firmato un accordo di governo di unità nazionale. Tsvangirai primo ministro, Mugabe presidente della Repubblica e i ministeri più importanti equamente divisi. Riusciranno i due avversari storici a lavorare spalla spalla?La maggior parte degli zimbabweani, anche quelli che dagli uomini di Mugabe hanno subito ogni sorta di vessazioni, vogliono essere ottimisti. Mary invece scuota la testa mentre legge il giornale sull'auto dell'ospedale che da Harare la riporta al lavoro. Mary spera di sbagliarsi ma anche la comunità internazionale è scettica. E scettici sono anche i donatori internazionali e le grandi istituzioni di credito come FMI e Banca Mondiale, dai cui prestiti in tempi rapidi dipende il futuro prossimo del paese e la sopravvivenza – letterale- di milioni di zimbabweani.
Nessun vede di buon occhio l'accordo di governo perchè tutti avrebbero preferito liberarsi di Mugabe, presumibilmente più per la vicinanza che questi ha dimostrato nei confronti della Cina che per le violazioni dei diritti umani di cui si è macchiato. La Cina è l'unica grande potenza che ha continuato a investire direttamente nel paese, mentre UE e Regno Unito facevano la voce grossa contro Mugabe per poi permettere alle proprie compagnie di continaure a speculare sulle estrazioni minerarie di granito nero, platino, mercurio e diamanti.
Già, perchè gli zimbabweani condividono la stessa sfortuna di altri popoli africani, come quello del Congo o della Sierra Leone: calpestare una terra estremamente ricca di minerali. Il desiderio di vederli luccicare fra le proprie mani, e la competizione che si scatena fra compagnie straniere disposte a tutte per accaparrarsi i proventi di questa o quella miniera, drammatizza la corruzione e la violenza del governo.(pubblicato sul mensile Galatea)

mercoledì 3 giugno 2009

mozambico, la questione della terra


(testo e foto s.corsi)
Una donna mozambicana va da un curandero a chiedergli che fine hanno fatto i sette milioni di meticais che lo Stato aveva promesso al suo distretto. “Ma che ne sanno gli spiriti? Vada a chiederlo all’amministratore!” esclama, irritato, lo sciamano.
Questo sketch teatrale, che ha fatto il giro del paese, (1) riflette uno degli aspetti più interessanti dell’attualità mozambicana: il lento processo per la formazione di una cittadinanza critica, non più disposta ad accettare come un’inesorabile volontà della natura la gestione della cosa pubblica da parte di una classe dirigente che si riproduce dal 1975.
I mozambicani escono recentemente da una lunghissima storia di autoritarismo : al lungo dominio coloniale portoghese, che aveva strutturato la società in un ordine gerarchia quasi feudale, è seguito dall’indipendenza nel 1975 il governo della Frelimo (2), che tentò di stabilire un’amministrazione e un governo rurale uniformi su tutto il territorio (3), al prezzo di un accentramento amministrativo di fatto e dal sistema politico del partito unico.
D’altra parte uno stato appena nato non avrebbe avuto speranze di vivere se non avesse trovato il modo, ancorchè coircitivo e spesso in chiave anti-tribale, di espandere velocemente il suo potere nelle campagne, soprattutto laddove, dal 1976, operava la guerriglia anti-socialista della Renamo.
Tantomeno era pensabile che ai mozambicani venisse in mente durante la guerra civile, probabilmente la più cruenta dell’epoca post-independenza africana, che sfilacciò le reti famigliari e sociali tradizionali provocando quattro milioni di sfollati interni e un milioni e mezzo di rifugiati in Sudafrica, Tanzania e Zimbabwe.
Le prime elezioni multipartitiche nel 1994, seguite all’accordo di pace firmato a Roma nel 1992, non hanno significato di fatto l’abbandono da parte del partito-stato Frelimo delle chiavi del potere politico ed economico del paese, nonché del controllo dei principali mezzi d’informazione- anche se è vero che i toni paternalisti e propagandistici della stampa si sono diluiti col tempo e i pochi giornali critici nei confronti el governo pubblicano liberamente senza subire persecuzione alcuna.
Sarà anche che la Frelimo non corre seriamente il pericolo di perdere le elezioni dell’anno prossimo : l’opposizione non offre alcuna alternativa programmatica ed è lacerata da un’antica lotta intestina. Inoltre, la Frelimo gode del tacito appoggio internazionale grazie alla continuità che rappresenta e per la fedeltà a programmi economici liberisti suggeriti dal finire degli anni ’80 da FMI e Banca Mondiale . La guerra civile, infatti, non significò una sospensione della democrazia solo perché allontanò le persone dalle opportunità del fare politica, ma anche in un senso strettamente istituzionale, perché se la Frelimo abbandonò sul finire degli anni ‘80l’impostazione marxista-leninista e abbraccò le prescrizioni delle istituzioni finanziarie internazionali, fu in buona parte per facilitare la fine della guerra prima (4), e poi per avere accesso ai crediti internazionali necessari per ricostruire un paese devastato.




Le chiavi della terra
Fu così che il Mozambico si trasformò nella “donors doll”, la “bambola dei donatori”: nel 2000 fu,secondo solo alla Sierra Leone, il paese più dipendente del mondo. (5)
Per riflettere su chi decide cosa in Mozambico, è bene sapere che tuttora il 50% del suo bilancio consiste negli introiti dei prestiti e dei finanziamenti della cooperazioni internazionale.
La contropartita consiste in un programma di privatizzazioni che in pochi anni ha lasciato lo Stato orfano di tutte le imprese e le risorse che aveva amministrato nel periodo socialista(6). Tutte , tranne una: la terra. La costituzione dell’indipendenza aveva stabilito che la terra sarebbe appartenuta solo allo Stato fino alla fine dei tempi, ma non chiariva come e chi poteva usufruirne per coltivarla temporaneamente. Il ritorno dall’esodo della guerra prima, la virata liberista e l’alleanza delle elite nazionali con quelle estere poi , crearono una grande pressione sul legislatore affinchè questi si dotasse di un quadro giuridico più completo sui diritti agrari.
La legge che ne scaturì Lei Terra ’97 , che confermò la proprietà pubblica della terra e il diritto prioritario a coltivarla da parte delle comunità tradizioanli, fu da un lato il colpo di coda “socialista” dell’ala sinistra della Frelimo, dall’altra il battesimo di fuoco della UNAC, la Uniao Nacional de Camponeses, che si fece largo come unica forza endogena, ed autenticamente contadina, nella galassia di ONG che organizzarono la campagna. “La nostra Lei de Terra è, tuttora, un’avanguardia cui si ispirano centinaia di movimenti contadini” spiega Ismael Ousseman, fondatore della UNAC. “Il problema è che le forze del capitale e dell’investimento estero sono più forti di una legge africana…e oggi la lotta si è spostata sull’implementazione della legge”. La Lei de Terra infatti stabilisce tre modi di acquisizione del diritto d’uso: permanente, per comunità che la abitassero tradizionalmente e per cittadini mozambicani che l’abbiano lavorata per almeno dieci anni; di cinquanta anni per imprese straniere, previo processo di consultazione con le comunità locali che vivessero nella zona. “Quest’ultima possibilità sta costituendo, di fatto, la contro riforma agraria nel mio paese”continua Ousseman. Perchè assai spesso questo processo di partecipazione comunitaria si trasforma in un banale atto di corruzione dell’autorità locale, così come ad altre autorità locali è richiesta la capacità (leggi, volontà) di far rispettare la legge e salvaguardare la terra dall svendita. Qui entra in gioco un altro criterio indispensabile al mozambico per ottenere i crediti internazionali,cioè l’altra l’altra grande questione di governance mozambicana: la decentralizzazione del potere.

I miraggi della ‘good governance’
Il governo del Mozambico cominciò a discutere di decentralizzaizone già nel 1994, ma la Legge sulle Municipalità del ‘97 (contemporanea, guardacaso, alla Lei de Terra) tradì lo spirito originario della proposta, stabilendo che tutti i distretti del paese eccetto 33 centri urbani (7) sarebbe stata sì governata da autorità locali…ma nominate dal potere centrale di Maputo,secondo uno schema assai simile a quello collaudato in epoca coloniale e post-coloniale. Il “local empowerment”rimase così solo nella retorica dei programmi di sviluppo con cui l’abile elite mozambicana otteneva finanziamenti :il risultato perciò non fu affatto decentralizzazione dei processi decisionali, ma piuttosto una sorta di cooptazione delle autorità locali e tradizionali, che per di più sono tradizionali sì, ma in senso culturale e quasi mai atavico: gran parte delle comunità che arrogano il diritto d’uso a un certo pezzo di terra in Mozambico si sono formate dopo, e non prima, dell’esodo dovuto alla guerra civile. Spesso, non è che lo stato abbia incontrato e riconosciuto una autorità, ma bensì “creato” una comunità intorno a un’autorità che ha scelto per convenienza di riconoscere(8).
Di fatto, a livello locale si ripercuotono a cascata le indicazioni politiche di Maputo.E in un contesto politico internazionale (a cui come abbiamo visto il governo mozambicano ha deciso per convenienza di non sottrarsi) che spinge decisamente verso la privatizzazione della terra e la sua disponibilità per monoculture intensive, questo siginifica un’enorme minaccia sui milioni di famiglie e piccole cooperative mozambicane. Nonostante queste coinvolgano nel complesso due terzi della popolazione, appena il 4% del bilancio statale è destinato all’agricoltura, che senza finanziamenti statali è destinata a rimanere di mera sussistenza. Diventa così gioco facile per l’elite economica mozambicana, (formata in gran misura da ex politici della frelimo passati a condurre le imprese privatizzate) denunciare la scarsa efficienza della piccola agricoltura e reclamare la privatizzazione della terra per favorire l’ingresso di investimenti esteri.
Lo dice senza termini Joao Pereira , sociologo e presidente del Masc : “La pressione per la privatizzazione de facto è aumentata in questi anni, e gli investimenti per i biocombustibili sono destinati a portare la questione al suo punto di ebollizione”. Guardacaso, di biocombustibili hanno parlato a metà ottobre il presidente mozambicane Guebuza e il suo omologo brasiliano Lula, giunto in visita ufficiale a Maputo.

Rivoluzione verde e biocombustibili ,il cocktail mozambicano

Il 19 ottobre, inaugurando la Quinta Conferenza Internazionale della Via Campesina (v. riquadro), il presidente Guebuza ha mantenuto un difficile equilibro fra la necessità di compiacere la platea assicurando lunga vita all’agricoltura su piccola scala, e al tempo di difendere la politica agraria del governo orientata alla privatizzazione di fatto e alla concessione di grandi estensioni a imprese private, spesso straniere. “Sostenere le famiglie e promuovere la rivoluzione verde in Mozambico, al fine dell’esportazione dei nostri prodotti”(9). Rivoluzione Verde: un programma di finanziamento all’agricoltura finalizzato all’aumento della produzione per l’esportazione. La prossima regina delle esportazioni agricole è già stata incoronata : si tratta della Jetropha, una pianta utile alla produzione di biocombustibili . Da metà 2007 il governo va convincendo i contadini a convertire le proprie coltivazioni in jatropha, come primo passo della tanto propagandata rivoluzione verde (10).Ma questa significherà alcun sostegno alla piccola agricoltura, o è l’ennesima imposizione resa necessaria dalle contingenze del mercato mondiale, e venduta come manna per il popolo mozambicano?
“Forse non è la stessa Rivoluzione Verde che negli anni ’60 rovinò India e Messico; formalmente ,il governo si oppone all’invasione di agrotossici. Ma noi siamo molto vigili, perché è ancora dall’estero che ci viene chiesto di implementare questa politica” dice Diamantino dell’UNAC.
Non esistendo un’opposizione istituzionale contraria a questa politica, starà alla giovane società civile mozambicana a difendere la terra : come seggerisce lo sketch teatrale della signora dallo sciamano, i mozambicani dovranno saper chiedere conto ai propri amministratori del destino delle proprie risorse, naturali e finanziarie .
A partire dalle prime, già comincia a diffondersi la buona abitudine di denunciare pubblicamente le responsabilità politiche : nel gennaio scorso a Manhiça, un distretto cerealico dove sono sorti conflitti fra cooperative agricole e MANAGRA( un’impresa produttrice di canna da zucchero), i contadini hanno rifiutato per la prima volta le bandiere del partito di governo nella propria manifestazione. “La responsabile provinciale dell’agricoltura è uscita poche settimane fa in televisione a dire che bisogna togliere la terra ai contadini che la coltivano improduttivamente. Ma cosa ha fatto il governo per aiutare i contadini a coltivare in maniera efficiente?” sbotta Funzano, presidente di una piccola associazione agricola di Chokwue , nel sud del paese. “Ci sentiamo minacciati e presi in trappola da queste dichiarazioni. Ma noi abbiamo solo la terra: niente da perdere”.
(pubblicato su Le Monde Diplomatique, ed Cono Sud, dicembre 2008)

(1)Campagna prodotta dal MASC(Mecanismo de Apoio à Sociedade Civil)
(2)Frente de Libertaçao do Mozambique, il gruppo armato di ispirazione socialista che gli esuli mozambicani organizzarono dalla Tanzania governata da Julius Nyerere e che, in seguito all’indipendenza, assunse il potere.
(3)C.Tornimbeni, Sviluppo decentrato in Mozambico. Dalle politiche coloniali alla good governance, afriche e Orienti, Bologna, anno 2001.
(4)La guerriglia della Renamo era appoggiata e in buona parte finanziata dalle potenze occidentali avverse al il regime socialista di Maputo. Uno dei suoi finanziatori è un professore sudafricano, Thomasausen, e lo stesso Sudafrica , come ammesso recentemente dall’ex ministro della difesa Pik Botha, offriva alla Renamo logistica e mezzi.
(5)South African Migration Project, On Borders:Perspectives on International Migration in South africa, Cape town, 2000
(6)C.Kramer, Privatisation and Adjustment in Mozambique, Journal of South African Studies, 2001
(7) il 65% della popolazione mozambicana vive in aree rurali,v. op. cit
(9) Davide Caliandro, Universita’ di Bologna, luglio 2008.
(10) Progetti-pilota di coltivazioni intensive di jatropha sono già attivi nelle provincie centro-settentrionali di Inhambane, Manica, Zambezia, e Nampula, mentre a sud sembra si stia diffondendo più rapidamente la canna da zucchero.

sudafrica, presi a calcio dal calcio


(foto e.olcina, testo s.corsi)
Quando nel 2004 la Fifa annunciò che i mondiali di calcio del 2010 si sarebbero tenuti in Sudafrica, molti protagonisti dell'epoca avranno pensato all'eredità simbolica del mitico campionato di calcio a Robben Island, tanto più che quasi subito venne deciso che l'inaugurazione del torneo si sarebbe tenuta nella storica township di Soweto, a Johannesburg.
Ma se molte cose si possono raccontare della storia sudafricana attraverso il gioco del pallone, altrettante possono dirsene sul suo controverso presente.
Per rispettare le promesse fatte alla Fifa quandoil Sudafrica era candidato a ospitare i mondiali 2010, il governo Mbeki aveva inizialmente previsto un investimento di 18 miliardi di rands (circa 1.5 miliardi di euro), metà delle quali destinato alla costruzione di tre nuovi stadi.
Una cifra che però non smette di lievitare, trascinata dalle colossali spese per costruire i tre principali impianti a Johannesburg, Durban e Cape Town. Specialmente su questo di Città del Capo susseguono le richieste di ampliamenti e migliorie estetiche, in un perfezionismo che sta dissanguando le casse sudafricane: da 3 miliardi iniziali, a meta' dell'opera sono già 5.
L'unico dettaglio che non sembra preoccupare gli ispettori Fifa riguardo i fiammanti impianti sportivi sono le condizioni di lavoro degli operai che ci lavorono. Stanchi di lavorare dieci ore al giorno per 60 dollari al mese, al soldo di una ditta sub-sub-sub-contrattata dal vincitore originale dell'appalto, gli operai sindacalizzati sono continuamente in sciopero. Gli altri, spesso mozambicani o congolesi, continuano a lavorare contenti di lavorare, non importa quanto sfruttati, alla costruzione in tempo record di queste moderne piramidi sportive. Che resteranno in buona parte inutilizzate dopo luglio 2010: in Sudafrica il calcio è lo sport dei neri delle township, che non hanno molto da spendere in intrattenimento . Per farsi un'idea, il massimo derby del campionato fra Orlando Pirates e Kaiser Chiefs, totalizza a malapena 30 mila spettatori, quando per riempire uno dei nuovi stadi ce ne vorranno almeno 70 mila.
Ma l'aspetto più lontano dallo spirito del campionato che si giocava a Robben Island riguarda la necessità di ripulire le città che ospiteranno i mondiali. In uno dei paesi più pericolosi del mondo, come garantire la sicurezza degli spettatori? André Prius, alto commissario della sicurezza, ha spiegato che a questo proposito il modello da seguire sarà quello dei Giochi panamericani tenutesi a Rio de Janeiro nel luglio 2007. Non è una buona notizia per i difensori dei diritti umani: per ripulire Rio, le favelas delle città furonoinvase da squadre speciali che per arrestare una pugno di narcos lasciarono sull'asfalto decine di morti.
La sfida sudafricana sembra fare un passo ulteriore, ponendosi il problema di come evitare che qualche telecamera delle centinaia che inquadreranno il paese si posi sbadatamente su un informal settlement, le baraccopoli della rainbow nation.
Durban è forse la città che offre le rispose più incontrovertibili a queste domande. Capitale del Kwa Zulu-Natal, roccaforte dell'ANC e terra natale del futuro presidente Zuma, è governata da Jonathan Sutcliff, un bianco ribattezzato «white shark», lo squalo bianco. Il soprannome gli viene dall'applicazione dello Slums Clearence Bill, un decreto di «pulizia» delle baraccopoli. Incapace di liberarsene offrendo ai suoi abitanti opportunità e condizioni di vita più dignitose, il nuovo Sudafrica deve intanto preoccuparsi di nasconderli alla vista in tempo di mondiali.
Così lo Slums Clearence Bill elimina la necessità di un mandato per procedere a uno sgombero, a cui la polizia procede quasi sempre con la forza e senza che il municipio suggerisca soluzione alternativa alcuna.
Gli abitanti degli slums più centrali, o troppo vicini agli stadi, o dalle principali autostrade, vengono cacciati verso altre baraccopoli lontane dagli occhi indiscreti dei tifosi che verranno. «E' una logica di segregazione simile a quella dell' apartheid», dice Orlean, una sudafricana di origine indiana insegnante universataria e attvista dell' Anti Eviction Campaing, la campagna contro gli sfratti. «Non solo i poveri urbani non avranno alcun beneficio dall'enorme business dei mondiali; molti di loro saranno tenuti lontani dallo show con ogni mezzo».
Destino amaro anche per i «commercianti informali», i circa trentamila venditori ambulanti della città. Non solo sarà loro proibito dal vendere qualunque materiale inerente al mondiale, ma dovranno stare alla larga dalla zona centrale per tutto il mese delle partite - anche coloro che da anni pagano l'affitto di un gazebo e che sono regolarmente registrati. Mentre l'enorme English Market, epicentro del commercio popolare della città, che ospita fra l'altro il mercato delle erbe tradizionali, sarà raso al suolo per fare spazio all'ennesimo centro commerciale.
«Il 75% dell'attività commerciale in Sudafrica è già in mano a cinque compagnie di centri commerciali», spiega Gabi di Streetnet, una rete internazionale di venditori ambulanti che ha qui a Durban uno dei suoi nodi africani. «E' così che il governo pensa di sconfiggere il crimine entro il 2010? Sgomberando slums e cacciando i venditori ambulanti? Tutte queste persone di qualcosa dovranno pur sopravvivere...».
Nel marzo 2007, Streetnet, sindacati urbani di muratori e associazioni di prostitute hanno dato vita alla campagna World Class Cities... for All, Città di classe mondiale...per tutti», che rivendica un approccio non elitista e più partecipativo all'organizzazione dei mondiali di calcio. Ma quasi tutte le rivendicazioni della campagna sono finora cadute nel vuoto, e lo scenario che si prepara vede sfruttamento del lavoro nei cantieri e della prostituzione, repressione dei venditori ambulanti e cacciata degli abitanti degli slums. Molti di loro, preoccupati dalla battaglia quotidiana per sbarcare il lunario, non sapevano neanche che lo Slums Clearence Bill è nato in seno alle politiche urbane in vista dei mondiali: a Crossmore, uno slum a quasi un'ora del centro della città, si trova ora un centinaio di famiglie sfrattate da una baraccopoli più centrale. Grazie alla pressione dell' Anti Eviction Campaign, il municipio ha fornito loro tendoni da circo gialli e blu, ripescati da qualche magazzino comunale, per non farli dormire sotto le stelle mentre rimediano il materiale per costruirsi un'altra baracca.

Quel campionato a Robben Island: la palla più efficace di una bomba
Negli anni '60 nel carcere in cui erano detenuti Mandela e gli altri combattenti anti-apartheid fu consentito il football: fu un errore Quante cose si possono raccontare della storia sudafricana attraverso la lente del football, dagli anni dell'apartheid a giorni nostri.
Un battesimo d'eccezione il bel gioco da queste parti lo ebbe con la fondazione del leggendario MFA (Matyeni Football Association), il campionato di calcio dei detenuti di Robben Island, l'isola-prigione davanti alla baia di Città del Capo in cui venivano spediti gli oppositori dell'apartheid. Sarà per quello che in Sudafrica il calcio è associato nell'immaginario popolare con i neri e il rugby con i bianchi afrikaaner.
Nel 1963 era ancora impensabile che l'autorità carceraria desse vinta ai detenuti la battaglia che portavano avanti per giocare a pallone durante l'ora d'aria. Ma una visita al carcere della Croce rossa internazionale quell'anno convinse il regime segregazionista ad approfittare dell'occasione per mostrare al mondo che le condizioni di detenzione nell'isola non erano poi così raccapriccianti: la macchina repressiva non poteva immaginare di quale straordinario strumento di resistenza stesse per dotare le sue vittime.
I prigionieri ottennero così il loro primo pallone da calcio e si riunirono per organizzare il torneo .
I detenuti non si accontentarono di fare due tiri nell'ora d'aria, ma decisero di organizzare un vero e proprio campionato secondo le regole internazionali della Fifa. Divisero tutti gli «ospiti» della prigione in dieci squadre, ciascuna rappresentata in tre categorie (la serie A per i semi professionisti, la serie B per le schiappe e la serie C per i detenuti anziani).
Chi non poteva giocare, veniva iscritto alla Referees Union, la lega arbitri, e sollecitato a leggersi per filo e per segno il manuale della Fifa.
Fu deciso anche che la formazione delle squadre avrebbe trasceso qualunque criterio politico: ogni team doveva contare nelle proprie file componenti di ogni movimento della galassia anti-apartheid .
Iniziò così la fine della faida interna che aveva indebolito il movimento di liberazione dal potere bianco e si aprì la strada alla futura confluenza di quasi tutti i partiti minori dentro l'African National Ccongress di Nelson Mandela. Negli autobus di ritorno dalle cave dei lavori forzati (le Matyeni da cui, con un tocco d'ironia, prendeva nome l'associazione calcistica) si scambiavano di posto per raggiungere ciascuno il braccio in cui erano reclusi gli altri membri della propria squadra.
Il sabato mattina, quando si giocavano le partite delle partite di serie A, era l'evento più esaltante della vita dei detenuti.
Fu rendendo il campionato di calcio di Robben Island il più serio ed egualitario possibile che futuri leader del Congresso Nazionale Africano impararono a organizzare ed ispirare gli uomini che li circondavano.
In pochi sanno ad esempio che il soprannome «Terror» di Joshua Lekota, l'attuale leader del Cope (il Congress of the People nato recentemente dopo la scissione dall'ANC fra i seguaci dell'ex-presidente della repubblica Thabo Mbeki e il presidente dell' African National Congress Jacob Zuma), non gli viene dagli anni della lotta armata ma da quelli in cui era il capocannoniere dei Rangers di Robben Island e il terrore dei portieri avversari.
(pubblicato su "il manifesto" del 28/11/2008)

sudafrica, la regina della pioggia


Quando la Regina della Pioggia sarà un uomo
(teso s.corsi foto e.olcina)
Ci vogliono circa cinque ore di guida per arrivare a Modjadji da Johannesburg. L’ultimo pezzo di strada attraversa una terra verdissima, baciata dalla fortuna- vale a dire, dalla pioggia. Alberi di mango, banana e papaya nascondono alla vista le case, qualcuna in muratura, la maggior parte di fango secco intonacato, e i rispettivi cortili. In uno di questi, seduta sotto le abbonadnati fronde di un mango, riposa un'anziana . E’ vestita in abiti tradizionali e batte le mani due volte prima di stringere la mano a degli estranei e cominciare una conversazione. Peccato parli solo sotho, una delle undici lingue ufficiali del Sudafrica. Ma da dentro la casa esce finalmente la giovane nipote che viene a tradurre in inglese una domanda che la nonna aspettava di porre a degli stranieri da chissà quanto tempo: “Vuole sapere se, da dove venite voi… la pioggia è pioggia”.

Tutto il Sudafrica assistette all’incoronazione dell’ultima Regina della Pioggia, nell’aprile 2003. Persino Nelson Mandela volle presenziarvi, dopo essere atterrato nel vicino aeroporto di Polokwane, capoluogo del Limpopo. Qualcun altro guidò centinaia di chilometri per non perdersi l’evento. Ma ai più bastò accendere la televisione: grazie alle telecamere piovute nell’autunno di Modjadji, tutti poterono vedere quella ragazza di venticinque anni coi capelli corti e l’aria sbarazzina, e che fino a quel momento rispondeva al nome di Makobo Modjadji, diventare la prima rain queen del nuovo millennio nonché del Sudafrica post-apartheid.
Oggi i suoi sudditi, il popolo dei balobedu -circa quattrocentomila anime- scrutano il cielo con una certa inquietudine: per la prima volta, non c’è una regina della pioggia a governare sulla salute delle piantagioni. Makobo è morta all’improvviso, a ventisette anni, in una notte di giugno di tre anni fa. Un giallo, nelle cui righe si dipanano molti tormenti del Sudafrica odierno, circonda la sua morte.
Makobo, l’ultima rain queen, classe 1978, aveva deciso di infischiarsene delle leggi tradizionali. Racconta la gente di Modjajdikloof che Makobo amava vestirsi da uomo e non tenere mai i capelli più lunghi di due dita; che adorava andare a divertirsi fino alle prime ore del mattino e che prendeva parte alle proteste popolari per il diritto alla salute e alla casa.
Si innamorò di un attivista politico, un uomo che non era nemmeno un Balobedu: David Mohale. Lo invitò a vivere con lei nel palazzo reale dei Modjadji, trasgredendo la regola che impediva a qualunque uomo di trascorrere una notte intera con la regina. E , per l’orrore dei suoi fratelli e cugini, concepì con lui, anziché con un altro membro della famiflia reale, la futura rain queen: la piccola Masalanabo, che venne alla luce alla fine del 2004.
Nel giugno del 2005, le telecamere che avevano ripreso l’incoronazione di Makobo tornarono a Modjadjikloof per il suo funerale. Makobo era stata ricoverata tre giorni prima in una piccola clinica per una presunta meningite che risultò fatale nel giro di ventiquattr’ore. La meningite risulta spesso fatale in organismi con un debole sistema immunitario: per questo è una morte piuttosto comune in zone devastate dall’Aids come il Limpopo. L’ipotesi che Makobo sia morta di Aids è quella diffusa ufficialmente, e alla domanda “come è morta la Regina della Pioggia?” rivolta agli abitanti di Modjadji, questi rispondono, mestamente e invariabilmente: di malattia.
Eppure David Mohale, fidanzato di Makobo e padre di sua figlia, rifiuta questa versione. Nega persino che Makobo sia mai stata malata, e accusa i fratelli di averla avvelenata. A due scopi: quello di liberarsi di una regina poco osservante dei costumi tradizionali e, soprattutto, di fare ritorno a una linea di successione maschile. Alla morte di Makobo, dopo aver dimostrato che né lui né la bambina erano sieropositivi , sparì nel nulla. Ogni tanto un giornalista riesce a intervistarlo per farsi ripetere la sua versione dei fatti e le sue accuse alla famiglia Modjadji, mentre la bambina, pare, viene allevata da una famiglia di amici lontani da politica e riflettori.
Se l’idea di una regina assassinata dai suoi famigliari nell’ambito di una disputa per il potere rievoca storie d’altri tempi, è pur vero che di fatto il fratello di Makobo, John Modjadji, è riuscito, in seguito alla morte della sorella, a farsi affidare la reggenza del potere reale. Al contrario di Makobo, John è un rigido osservatore delle norme tradizionali ed è probabile che negli anni diventi abbastanza temuto e rispettato da far dimenticare l’esistenza , da qualche parte, della legittima erede al trono.
La versione della storia che invece racconta di una giovane regina che si lascia consumare dall’aids forse è meno adatta a un romanzo ma dice molto del Sudafrica moderno. Della sua piaga latente, di cui si parla relativamente poco considerando che il virus ha già colpito un sudafricano su dieci. Di un ritardo decennale in fatto di politiche governative sulla malattia che continua a dilagare nelle zone più povere delle città e nelle aree rurali, zigzagando fra false credenze sulla sua diffusione. Da anni ONG e associazioni per il diritto alle cure lottano per convincere i sudafricani delle aree rurali che il preservativo non contiene il virus, e che anzi indossarlo scongiura un lungo calvario, e alla lunga la morte; che gli antiretrovirali siano realmente efficaci per contenere gli effetti della malattia- cosa a lungo messa in dubbio dallo stesso ex presidente Thabo Mbeki, all'epoca preoccupato all'idea di svenare le casse pubbliche per fornire antiretrovirali a milioni di malati in un momento in cui il Sudafrica doveva affermarsi come tigre economica del continente.
Tuttora, il rapporto con l'aids nel paese è misurato dallo stigma sociale che porta con sè – impossibile quantificare il numero reale dei malati, poichè sono relativamente pochi quelli che accettano di affrontare il test- e in qualche modo dal suo farsi simbolo di una modernità desiderata e odiata allo stesso tempo: non solo per la convinzione che il virus sia stato portato in Africa dall'occidente proprio attraverso la diffusione del preservativo, ma anche per l'idea secondo cui chi accetta di assumere farmaci antiretrovirali è da emarginare dalla comunità, per averli preferiti ai metodi della medicina tradizionale. Tant'è che talvolta chi lo fa, lo fa in segreto, per poi ringraziare in pubblico il curandero della comunità e aumentare così la confusione sull'efficacia delle cure.
La dicotomia tra medicina tradizionale e occidentale dunque gioca su questo campo una partita senza sconti, generatrice di ulteriori sofferenze. Se Makobo era malata, è probabile che non lo sapesse nemmeno; che avesse scelto di ignorare il rischio e le conseguenze, o addirittura che credesse a sua volta di evitare la malattia rinunciando all'uso del preservativo. Se invece era malata, e lo sapeva, era comunque impensabile che proprio lei, regina della pioggia da poco incoronata, combattesse con le medicine dei bianchi una malattia di cui i bianchi stessi sono sospettati di essere in qualche modo artefici e portatori.



I Balobedu
Sono circa quattrocentomila i balobedu,sudditi della regina della pioggia. Vivono a Modjadjkloof, la città che prende il nome dalla dinastia reale dei Modjadji, e in tutta la vallata circostante.
Al potere tramandato di madre in figlia della dinastia reale, quello di chiamare la pioggia, i balobedu si raccomandano da tempo incalcolabile per avere la garanzia di un raccolto abbondante; e in una regione secca come il Limpopo, una vallata verde come quella che circonda Modjadjkloof ha di fatto un che di prodigioso.
Due antropologi inglesi, J e D. Kridge, intorno agli anni 50 del secolo scorso si appassionarono alla tradizione delle rain queen e tirarono le fila del mito fissando un punto d’inizio intorno al 1500, quando Mambo, figlio di Monotapa, sovrano dello Zimbabwe, ingravidò la sorella Dguzini. Quando la gravidanza di Dguzjni fu manifesta, re Monotapa avrebbe voluto bruciar vivo il colpevole, ma Dugvanizi non rivelò mai che si trattava del fratello. Per ringraziarla del suo silenzio la regina madre rubò al marito il potere di chiamare la pioggia, lo trasmise alla figlia e le ordinò di fuggire a sud per dare origine a un nuovo popolo. Dguzini scelse una conca fra le montagne del Limpopo, nel nord dell’odierno Sudafrica, per partorire il frutto dell’incesto e dar vita al popolo del Balobedu.
Alla propria morte, Dguzini trasmise la corona e il potere di chiamare la pioggia al primo figlio maschio, questi a sua volta al primogenito e così via per circa 200 anni, finchè, intorno al 1800, re Magodo si innamorò dell’unica figlia femmina e nominò futura rain queen la bambina che ebbero insieme. La nuova linea di successione matriarcale proseguì fino ai giorni nostri, ma non significò mai che la regina, malgrado la sua autorità tradizionale su tutti i Balobedu, potesse scegliere l’uomo accoppiandosi col quale avrebbe rinnovato la stirpe. Per mantenere puro il sangue, la rain queen poteva concepire solo con un altro membro della famiglia reale .(pubblicato su "IlManifesto"del 16/03/2009

zimbabwe, affari sporchi e miniere di sangue


(testo e foto s.corsi)
“Fino a poco tempo fa, i salari dei nostri minatori erano stabiliti dal governo, ed erano così bassi che, per noi, farne lavorare venti o sessanta era uguale”. A vantarsi di aver offerto briciole a quaranta zimbabweani più del necessario è E., italianissimo uomo d'affari che si muove fra Madagascar, Sudafrica e Zimbabwe per una società di esportazione di materiali preziosi, ora è di passaggio ad Harare per seguire il destino di una miniera di granito nero nel Mashonaland da cui estrae per una società veronese. E. non si preoccupa troppo di ricalcare il clichè dell'uomo d'affari all'estero: anellone al dito, quando non è al telefono descrive indignato la corruzione dilagante dello Zimbabwe - colpevole in particolare di rallentare il trasporto ferroviario del granito verso il porto di Maputo in Mozambico- senza peraltro far mistero di come si è allungato di zeri il profitto suo e dei suoi colleghi sotto il regime di Mugabe. Che decretava salari bassissimi per i minatori, mentre le royalties pagate dalle compagnie finivano direttamente nelle tasche dei funzionari con la tessera di partito.
Per sfortuna degli zimbabweani, il paese è ricco di risorse del sottosuolo. Oro, platino, mercurio che da qualche anno hanno attirato anche i cinesi, la cui presenza deve aver cambiato parecchie delle carte in mano alla concorrenza. Che però non ha mollato l'osso: capofila la Lonrho(London and Rhodesian Company) compagnia inglese fondata quando lo Zimbabwe era la Rhodesia di Ian Smith, così limpida che l'ex premier inglese Heat la definì “la faccia inaccettabile del capitalismo”, e che meno di un anno fa per bocca del suo presidente fa riduceva il collasso zimbabweano a“un problema passeggero”, sui cui dettagli non voleva entrare perchè il punto forte della compagnia era sempre stata “la sua apolicità”.Del resto il magnate della compagnia fino al ’97, Tyni Rowlands, offrì a Mugabe la tristemente famosa Antilope Mine,una miniera in disuso sul confine col Botswana, per nascondervi i cadaveri del massacro dell’83. In cambio, ha assicurato alla compagnia la presenza nel paese vita natural durante.
Così, mentre UE e USA tuonavano contro il regime di Mugabe, compagnie americane ed europee hanno fatto indisturbate affari d’oro, facendo leva proprio sulla corruzione del governo e rifornendosi del materiale estratto per due soldi dai minatori zimbabweani.
Anche i diamanti, scoperti nella zona di Marange, verso il confine mozambicano, hanno contribuito ad intorbidire le acque. A metà gennaio scorso la polizia nazionale ha annunciato l'arresto di 24.480 persone legate al traffico illegale di diamanti, ma naturalmente non si trattava di notabili zimbabweani o stranieri, bensì di un esercito di pesci piccoli che, sparsasi la voce dei diamanti, è arrivata a Marange a cercare fortuna e guai. Con il risultato che adesso la zona pullula di posti di blocco impossibili da oltrepassare senza un'autorizzazione e, in tutto il paese, sulle miniere di diamanti e sul commercio delle famose pietre vige una sorta di segreto di stato.
Eppure ogni tanto qualcosa trapela, come lo scandalo esploso a metà marzo che vedrebbe coinvolti nel trasporto di diamanti oltre la frontiera sudafricana alcuni pezzi del governo e alcuni veicoli intestati all'UNDP (il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite). Probabilmente si trattava di diamanti classificati come blood diamond, diamanti di sangue, dal Kimberly Process, l’organismo nato nel 2000 per certificare la provenienza dei diamanti ed evitare che arrivino sul mercato quelli provenienti da zone di guerra . Come il martoriato Congo in cui lo stesso Mugabe mandò i suoi soldati nella guerra panafricana del 1998-2003 per non rimanere fuori dalla colossale spartizione delle ricchezze delle miniere del Katanga e del Kivu.

zimbabwe , ipocrisie occidentali


Ogni anno di questa stagione nel Mashonaland, la regione a nordest di Harare, si tiene, villaggio per villaggio, la festa dei girasoli: ogni comunità sceglie la famiglia che ha il campo di girasoli più bello. Ben e Twania sono fra i vincitori di un villaggio non lontano dalla città di Mutoko e, sotto un impietoso sole zimbabweano di metà mattinata, spiegano al resto della comunità venuta a festeggiarli come hanno ottenuto un raccolto così buono. Probabilmente, oltre a quello che servirà loro per cucinare le salse con cui accompagnare la sadza- la polenta zimbabweana- gli resterà un po’ di olio da vendere.
Ben e Twania sono artefici di un piccolo miracolo: estraendo dal cilindro antiche conoscenze agricole, sono riusciti a coltivare i girasoli senza l'aiuto dei fertilizzanti che avrebbero dovuto essere stati distribuiti dal governo ma la cui assenza durante tutto il 2008 oggi condanna il paese a un magrissimo raccolto. Lo spettro della carestia, dopo l'epidemia di colera che ha mietuto in pochi mesi più di quattromila vittime, si addensa come una nuvola nera sullo zimbabwe: “Abbiamo calcolato che, su dodici milioni di zimbabweani, cinque dipenderanno nei prossimi mesi dagli aiuti internazionali per non morire di fame” spiega Kamuri della Nango, un ombrello che raccolglie Ong e associazioni locali. Gli aiuti internazionali però sono bloccati dallo scetticismo della comunità internazionale verso l'accordo di governo tra il partito di Mugabe, padre-padrone dello zimbabwe post-liberazione, e quello di Morgan Tsvangirai, ex sindacalista e capo dell'opposizione. L'accordo è arrivato a metà febbraio, quasi un anno dopo le controverse elezioni del marzo 2008 cui sono seguiti undici mesi di caos istituzionale e sociale, epidemie, miseria. Eppure, camminando per Harare si percepisce ancora l'orgoglio di un città che era abituata a vivere più che dignitosamente e che ha vissuto quasi con incredulità la lenta e lunga discesa. Il 2000 fu un giro di boa per il paese che solo un decennio prima era il più ricco d’Africa. Fu l'anno in cui Mugabe perse il favore incondizionato dei suoi e fu sconfitto nel referendum costituzionale: molti zimbabweani erano sfiniti dalla corruzione del partito al potere, mentre l'elite bianca era ormai venuta ai ferri corti con quella nera legata al partito di Mugabe e sperava in nuovo corso se la neonata opposizione l'avesse sconfitto alle successive presidenziali. Per riconquistare il voto popolare, Mugabe lanciò allora il programma di riforma agraria che, nelle parole, avrebbe dovuto redistribuire le terre a favore della massa che fino a quel momento l'aveva lavorata come bracciante. In realtà, le più grosse farm finirono nelle mani dei veterani di guerra e di membri del Joc (Joint Operational Command, l'oscura cupula militare che tira le fila del paese), che si limitarono a speculare sul latifondo abbandonando la produzione agricola. Ai diseredati che venivano pomposamente caricati su camion e portati nelle farms non venivano dati nè i crediti nè gli strumenti necessari a coltivare la terra. “Da due anni non produciamo più nulla” dice ancora Kamuri.In un solo anno la produzione di mais crollò del 60%;destino simile per quella di tabacco, leva dell'economia. Sulla strada fra Harare e Nyamapanda enormi silos spezzano l'orizzonte ondulato delle colline. Sono vuoti. In questo modo Mugabe e la sua cricca hanno finito per dare argomenti ai nostalgici dell'apartheid economico della Rhodesia di Ian Smith, e creato un precedente odioso per tutti i paese africani che cerchino di affrontare il problema della riforma agraria.Oggi lo Zimbabwe è un paese in emergenza umanitaria cronica : una persona su cinque è sieropositiva e sette su dieci vivono sotto la linea di povertà. Dal primo gennaio al 31 dicembre 2006 un milione e mezzo di persone sono morte di fame e malattie: un decimo della popolazione. Dati del governo, che nel 2007 e 2008 non ha avuto neanche più i mezzi per tenere censita la situazione.La lenta discesa del paese negli inferi è stata inversamente proporzionale ai guadagni delle compagnie straniere, soprattutto minerarie, che nella corruzione del governo hanno trovato invece una gallina dalle uova d’oro. Perchè solo quando Mugabe ha smesso di essere un alleato sottobanco il resto del mondo ha cominciato finalmente a parlare di lui per ciò che era da un pezzo: un capo di stato corrotto e disposto a tutto pur di restare al potere. Peccato perché il sistema scolastico lanciato da Mugabe subito dopo la liberazione e durante gli anni '80 fu uno dei migliori d'Africa, quello sanitario per certi aspetti era più all'avanguardia di quelli europei. Ma nel frattempo le maglie della corruzione si allargavano, il marxismo di facciata lasciava il posto a un liberismo di fatto e si gettavano le basi per uno stato di polizia: non è un caso che il punto di riferimento ideale ed economico di Mugabe fosse già, da decenni, la Cina. Altra ragione per cui è stato trasformato in un bersaglio dei paladini dei diritti umani solo recentemente, con vent'anni di ritardo rispetto alla più grave violazione di cui si sia macchiato: il massacro degli Ndebele, guidati dall'oppositore socialista Nkomo, nel 1983. Ventimila vittime che però, sul palcoscenico internazionale, non costarono a Mugabe quanto il peccato capitale di aver confiscato le farms all'elite bianca per regalarle all'elite nera Vittima di questo giochi di potere un popolo oggi in ginocchio, che si arrabatta coltivando con pochi mezzi girasoli, canna di zucchero e mais, e soprattutto contando sulle rimesse dall'estero . Dei dodici milioni di zimbabweani, tre e mezzo sono all'estero, quasi tutti fra Sudafrica, Inghilterra ed Australia, e oggi è proprio grazie alle rimesse della diaspora che la crisi non è stata devastante come avrebbe potuto. Fino a due mesi fa, questo era l'inferno” racconta Jacob. “Colera, ospedali senza luce e acqua, niente cibo nei negozi, niente benzina ai distributori”. Poi, l'accordo di governo che, se non altro, ha subito abolito il monopolio di stato sulla moneta e sui tassi di cambio: lo Zimbabwe si è dollarizzato dalla sera alla mattina, anche se non ufficialmente. Nelle banche continuano a lampeggiare sui display le cifre folli dell'iperinflazione, ma i cassieri scoppiano a ridere all'idea di scambiare dollari statunitense con quelli zimbabweani, trasformati in carta da monopoli. L'ultima banconota stampata- da dieci di dollari zimbabweani- dà un'idea della follia raggiunta dalla Reserve Bank e dal suo governatore Gono negli ultimi mesi del 2008. Oggi i prezzi nei supermercati sono tutti in dollari, la merce quasi tutta importata dal Sudafrica. Risultato?Costo della vita quasi europeo. “Non ci resta che sperare nell'accordo di governo” sospira, esprimendo una speranza che sa di mancanza d’alternative, un'attivista della società civile oppositrice di Mugabe che preferisce restare anonima, memore delle sparizioni e delle vittime della campagna “where did you put your cross?” (“dove hai messo la tua croce?”), la purga seguita alle elezioni di marzo e messa in atto dai vertici militari ai danni dell'opposizione. Opinione diffusa è che sia proprio la cupola militare a impedire l'uscita di scena di Mugabe: teme di essere processata e incriminata per i massacri del passato se il potere passasse completamente nelle mani del MDC di Tsvangirai. Per questo, la società civile che si oppone a Mugabe sa che l'accordo di governo è, per ora, l'unica strada percorribile. Agli occhi di un osservatore esterno sembra improbabile due avversari storici come Tsvangirai e Mugabe possano riuscire a lavorare spalla a spalla, attuare lo Sherp (Short Term Recovery Program, il programma d'emergenza di risanamento economico ) e soprattutto scrivere una nuova Costituzione. Ma quello che l'accordo di governo fallisca non è l'unico rischio. Gettando uno sguardo aldilà dell'emergenza se ne intravede un altro: quello che, al contrario, la condivisione di poteri funzioni troppo bene . E che il nuovo esecutivo decida di restare in carica ben oltre l'anno e mezzo che si è dato per uscire dal pantano della crisi, e di rimandare a chissà quando la stesura di una vera costituzione e delle elezioni che dovrebbero seguirla.